venerdì 8 settembre 2017

Perché è importante parlare di antifascismo a scuola - Christian Raimo


Insegno in un liceo a Roma, e alle volte, quando sono a scuola, nelle prime ore che magari passo in una classe nuova all’inizio dell’anno, svolgo una lezione come una specie di a parte: per presentarmi un minimo parlo del mio metodo d’insegnamento, e tra le altre cose banali che dico, ce n’è però una che purtroppo è e soprattutto risulta meno ovvia. Dichiaro di essere un professore antifascista.
Lo sono convintamente, sottolineo, per scelta personale, ma anche se non lo fossi di mia sponte, lo dovrei essere, facendo un mestiere come il mio, l’insegnante e per di più di filosofia, storia e educazione civica, per cui la mia è proprio una fedeltà al patto costituzionale, che è ciò che fa sì che la nostra comunità si possa dire tale, che mi obbliga per certi versi a essere antifascista, anche se non ne fossi profondamente convinto, come poi invece sono.
Spiego poi subito anche, a scanso di equivoci facili, che essere antifascisti non vuol dire essere contro un determinato periodo storico – quest’affermazione, dico, chiaramente non avrebbe senso: sarebbe come dire “Sono contro la guerra dei trent’anni”, “Sono contro l’idealismo tedesco”.
Cosa vuol dire allora, mi possono chiedere i miei studenti, essere oggi un antifascista? Molte cose, alcune assai complesse, ma alcune semplici anche per chi non ne sa nulla di storia: il rispetto degli altri come persone di qualunque etnia o cultura, la tutela delle libertà fondamentali, la condanna della violenza fisica contro i deboli, il contrasto con tutto ciò che incoraggi le pratiche opposte – oppressione, illiberalismo, sopraffazione, antidemocrazia, razzismo…
Antifascismo è una parola importante, provo a ragionare, perché non è un valore astratto, ma è calata in una realtà storica, e noi facciamo parte di questa realtà; non si tratta, ci tengo a precisare, di una generica bontà, di gentilezza, e nemmeno di tolleranza, ma è un termine che ha un senso per il presente, un concetto pieno, rotondo, che esiste da più di un secolo e che indica una certa idea di mondo, in antitesi a tutte quelle idee che invece ritengono che questi, della tutela della libertà, della difesa delle minoranze, o del senso di giustizia contro gli oppressori, non siano dei valori condivisi. Se c’è il fascismo – e c’è il fascismo – combattere contro questo vuol dire essere antifascisti, nonostante non ci sia più un duce che si affacci sui balconi o mandi al confino i dissidenti.
Queste semplici note mi sono venute in mente ieri, ancora prima di vedere le immagini infami di quelli di Casapound che manifestavano davanti a delle scuole a Roma contro gli studenti rom. Ossia che manifestavano contro dei ragazzini. Mi sono venute in mente, leggendo la bacheca su Facebook di un mio ex studente, un tipo ormai laureato, che ogni tanto condivide notizie su quelli che chiama zingari.
L’altro giorno scriveva una roba del tipo: “Continuate ad aiutarli ai semafori, pensando che sia gente povera, bisognosa, che non può permettersi nemmeno un panino. Queste persone vanno emarginate socialmente ma soprattutto dovremmo trattarli tutti e ribadisco tutti, come fossero il capolinea dell’umanità. Queste sono le uniche soluzioni per debellare questo cancro nella nostra società, trattarli per quello che sono. Feccia”. Sotto, ve lo immaginate, tanti like e condivisioni.
Potevo lasciar perdere, come forse colpevolmente faccio tante altre volte, e invece mi sono messo a discutere con ognuno dei commentatori, i genitori di questo mio ex studente per esempio, o un’altra donna, un’insegnante che buttava lì giudizi del tipo “Bisognerebbe bruciarli, se non si dovessero spendere i soldi per la benzina”.
Faticosamente, ho replicato a uno per uno, provando a inchiodarli alle loro stesse parole: allora mi scusi se io le dessi una tanica di benzina gratis e le fornissi la possibilità di bruciare i container con le famiglie dei rom dentro, lei appiccherebbe il fuoco? A un certo punto mi sono sentito un povero alieno, uno che brontola mentre tutti si sentono di stare nel pieno una festa – la sensazione di un pogrom, seppure solo immaginato, dev’essere questa – che finalmente si riconoscono in un’idea seppure folle di comunità: gli odiatori di rom.
Tutto questo purtroppo non è un epifenomeno. La manifestazione di Casapound ieri, l’ostentazione con cui i neofascisti si stanno conquistando alla luce del sole uno spazio politico è un fatto pericoloso, come è un’evidenza terribile e fetida che stiano lucrando questo consenso sulla pelle dei rom e dei sinti.
Le ragioni di questa degenerazione hanno a che fare certo con la crisi economica, con la parallela crisi della politica come l’abbiamo immaginata nel novecento (i partiti, i sindacati, i tanto ormai odiati corpi intermedi…), ma sono anche lo specchio di una débâcle culturale più verticale, che è quella che ha pensato che l’antifascismo fosse una reliquia del secolo scorso.
Una decina di anni fa uscì per Einaudi un librettino di Sergio Luzzatto che s’intitolava La crisi dell’antifascismo. Si poteva per superficialità scambiarlo per il pamphlet di uno storico che focalizza un cambio di paradigma negli studi di settore. Non era quello. La crisi dell’antifascismo, mostrava bene Luzzatto, è cominciata innanzitutto nella mancata trasmissione tra generazioni. Le cosiddette agenzie educative, la scuola, la famiglia, e mettiamoci i media, o addirittura le parrocchie, sempre più raramente oggi lo inseriscono tra i loro valori preliminari, la condizione stessa di un possibile discorso pubblico. E se sempre più difficilmente pensano che sia indispensabile come collante comunitario, figuriamoci come orizzonte politico.
Per questo, nello sconforto di ieri, pensavo che mentre i cortei contro i rom continueranno e si moltiplicheranno, non sarebbe male riabilitare uno strumento politico semplice, ma sempre efficace, come quello dell’antifascismo, rivendicandolo, riconoscendo la sua forza, in opposizione a tutte le bruttissime comunità del risentimento che vedremo formarsi nel nostro futuro davvero troppo prossimo.

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