Insegno in un liceo a Roma, e alle volte, quando sono a scuola, nelle prime
ore che magari passo in una classe nuova all’inizio dell’anno, svolgo una
lezione come una specie di a parte: per presentarmi un minimo parlo del mio metodo
d’insegnamento, e tra le altre cose banali che dico, ce n’è però una che
purtroppo è e soprattutto risulta meno ovvia. Dichiaro di essere un professore
antifascista.
Lo sono convintamente, sottolineo, per scelta personale, ma anche se non lo
fossi di mia sponte, lo dovrei essere, facendo un mestiere come il mio,
l’insegnante e per di più di filosofia, storia e educazione civica, per cui la
mia è proprio una fedeltà al patto costituzionale, che è ciò che fa sì che la
nostra comunità si possa dire tale, che mi obbliga per certi versi a essere
antifascista, anche se non ne fossi profondamente convinto, come poi invece
sono.
Spiego poi subito anche, a scanso di equivoci facili, che essere
antifascisti non vuol dire essere contro un determinato periodo storico –
quest’affermazione, dico, chiaramente non avrebbe senso: sarebbe come dire
“Sono contro la guerra dei trent’anni”, “Sono contro l’idealismo tedesco”.
Cosa vuol dire allora, mi possono chiedere i miei studenti, essere oggi un
antifascista? Molte cose, alcune assai complesse, ma alcune semplici anche per
chi non ne sa nulla di storia: il rispetto degli altri come persone di
qualunque etnia o cultura, la tutela delle libertà fondamentali, la condanna
della violenza fisica contro i deboli, il contrasto con tutto ciò che incoraggi
le pratiche opposte – oppressione, illiberalismo, sopraffazione,
antidemocrazia, razzismo…
Antifascismo è una parola importante, provo a ragionare, perché non è un
valore astratto, ma è calata in una realtà storica, e noi facciamo parte di
questa realtà; non si tratta, ci tengo a precisare, di una generica bontà, di
gentilezza, e nemmeno di tolleranza, ma è un termine che ha un senso per il
presente, un concetto pieno, rotondo, che esiste da più di un secolo e che
indica una certa idea di mondo, in antitesi a tutte quelle idee che invece
ritengono che questi, della tutela della libertà, della difesa delle minoranze,
o del senso di giustizia contro gli oppressori, non siano dei valori condivisi.
Se c’è il fascismo – e c’è il fascismo – combattere contro questo vuol dire
essere antifascisti, nonostante non ci sia più un duce che si affacci sui
balconi o mandi al confino i dissidenti.
Queste semplici note mi sono venute in mente ieri, ancora prima di vedere
le immagini infami di quelli di Casapound
che manifestavano davanti a delle scuole a Roma contro gli studenti rom. Ossia
che manifestavano contro dei ragazzini. Mi sono venute in mente, leggendo la
bacheca su Facebook di un mio ex studente, un tipo ormai laureato, che ogni
tanto condivide notizie su quelli che chiama zingari.
L’altro giorno scriveva una roba del tipo: “Continuate ad aiutarli ai
semafori, pensando che sia gente povera, bisognosa, che non può permettersi
nemmeno un panino. Queste persone vanno emarginate socialmente ma soprattutto
dovremmo trattarli tutti e ribadisco tutti, come fossero il capolinea
dell’umanità. Queste sono le uniche soluzioni per debellare questo cancro nella
nostra società, trattarli per quello che sono. Feccia”. Sotto, ve lo
immaginate, tanti like e condivisioni.
Potevo lasciar perdere, come forse colpevolmente faccio tante altre volte,
e invece mi sono messo a discutere con ognuno dei commentatori, i genitori di
questo mio ex studente per esempio, o un’altra donna, un’insegnante che buttava
lì giudizi del tipo “Bisognerebbe bruciarli, se non si dovessero spendere i
soldi per la benzina”.
Faticosamente, ho replicato a uno per uno, provando a inchiodarli alle loro
stesse parole: allora mi scusi se io le dessi una tanica di benzina gratis e le
fornissi la possibilità di bruciare i container con le famiglie dei rom dentro,
lei appiccherebbe il fuoco? A un certo punto mi sono sentito un povero alieno,
uno che brontola mentre tutti si sentono di stare nel pieno una festa – la
sensazione di un pogrom, seppure solo immaginato, dev’essere questa – che
finalmente si riconoscono in un’idea seppure folle di comunità: gli odiatori di
rom.
Tutto questo purtroppo non è un epifenomeno. La manifestazione di Casapound
ieri, l’ostentazione con cui i neofascisti si stanno conquistando alla luce del
sole uno spazio politico è un fatto pericoloso, come è un’evidenza terribile e
fetida che stiano lucrando questo consenso sulla pelle dei rom e dei sinti.
Le ragioni di questa degenerazione hanno a che fare certo con la crisi
economica, con la parallela crisi della politica come l’abbiamo immaginata nel
novecento (i partiti, i sindacati, i tanto ormai odiati corpi intermedi…), ma
sono anche lo specchio di una débâcle culturale più verticale, che è quella che
ha pensato che l’antifascismo fosse una reliquia del secolo scorso.
Una decina di anni fa uscì per Einaudi un librettino di Sergio Luzzatto che
s’intitolava La crisi dell’antifascismo. Si
poteva per superficialità scambiarlo per il pamphlet di uno storico che
focalizza un cambio di paradigma negli studi di settore. Non era quello. La
crisi dell’antifascismo, mostrava bene Luzzatto, è cominciata innanzitutto nella
mancata trasmissione tra generazioni. Le cosiddette agenzie educative, la
scuola, la famiglia, e mettiamoci i media, o addirittura le parrocchie, sempre
più raramente oggi lo inseriscono tra i loro valori preliminari, la condizione
stessa di un possibile discorso pubblico. E se sempre più difficilmente pensano
che sia indispensabile come collante comunitario, figuriamoci come orizzonte
politico.
Per questo, nello sconforto di ieri, pensavo che mentre i cortei contro i
rom continueranno e si moltiplicheranno, non sarebbe male riabilitare uno
strumento politico semplice, ma sempre efficace, come quello dell’antifascismo,
rivendicandolo, riconoscendo la sua forza, in opposizione a tutte le
bruttissime comunità del risentimento che vedremo formarsi nel nostro futuro
davvero troppo prossimo.
Nessun commento:
Posta un commento