Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la
popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come
vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla
cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo e – nel
medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele. In uno spazio che è
quello di una nostra regione, alle centinaia di uccisi, migliaia di feriti,
decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della
forza-lavoro palestinese, settanta o centomila uomini – corrispondono decine di
migliaia di giovani militari e coloni israeliani che per tutta la loro vita,
notte dopo giorno, con mogli, i figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno
fatto o lasciato fare. Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo
solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o
mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa
solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta
complicità dei più. Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o
padre percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano
che dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con
abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e
bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei
libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta a me ricordare.
Quell’assedio può vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle
mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di
Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della
politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza
militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte
dell’opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte,
tanto più grande. Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri
popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.
Gli ebrei della Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale
antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che
dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina
ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono
stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni
di fraternità. Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti
dello stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica
israeliana.
L’uso che questa ha fatto della diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, i
rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967.
Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla
ostilità.
Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra
politica israeliana e ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della
sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di
fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato,
quella distinzione, a mantenerla. Sono molti a saper distinguere e anch’io ero
di quelli. Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio
o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei
italiani? Coloro che ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri,
non importa – credono che la coscienza e la verità siano più importanti della
fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano,
ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte,
portino un segno. Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte
col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca;
o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne
bagna la terra, che contro di lui grida. Né mentano a se stessi, come fanno,
parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e
disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.
E se ora mi si chiedesse con quale diritto e in nome di quale mandato mi
permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere
testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre e della sua
discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini
stia in quello che essi fanno di sé medesimi a partire dal proprio codice
genetico e storico non in quel che con esso hanno ricevuto in destino. Mai come
su questo punto – che rifiuta ogni «voce del sangue» e ogni valore al passato
ove non siano fatti, prima, spirito e presente; sé che partire da questi siano
giudicati – credo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o da
quel che pare esserne manifestazione corrente.
In modo affatto diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati,
amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a un’estremità di
sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di
Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per
l’indipendenza e la libertà nazionale che il nostro secolo conosce fin troppo
bene.
Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato
di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati uniti in Vietnam o
l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur
stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli Americani
quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che
soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte
angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà.
Non rammento, quale sionista si era augurato che quella eccezionalità
scomparisse e lo stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le
sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo Libro è da sempre anche
il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi. E’
solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti
innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con
moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di
Gerusalemme, tocca all’interpretazione e alla vita di un verso di Dante o al
senso di una cadenza di Brahms?
La distinzione fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era
potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in
forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di
vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte
di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti
politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri. Per una sua parte
almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.
Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente
uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di
Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza
che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni
della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la
ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea cristiana,
Simone Weil ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di
due, oso aggiungere. Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa
coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un
edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura
della nostra vita e patria. Un poeta ha parlato del proscritto e del suo
sguardo «che danna un popolo intero intorno ad un patibolo»: ecco, intorno ai ghetti
di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave
di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé,
se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.
La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione
palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un
tesoro comune. Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca
o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo
di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce
nella vita e nella educazione degli israeliani.
E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei
quali sono io. Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati
dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi.
Parlino, dunque.
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