martedì 30 giugno 2020

La schiavitù non è un concetto puramente tecnico - Vanna D’Ambrosio




L’esclusione dalle forme di protezione aumenta l’esposizione alle nuove schiavitù

Ho parlato di contatti.
Tra il colonizzatore e il colonizzato, c’è posto solo per il lavoro duro, l’intimidazione, la pressione, la polizia, l’imposta, il ladrocinio, lo stupro, le imposizioni culturali, il disprezzo, Ia sfiducia, l’alterigia, la sufficienza, la villania, élites senza cervello, masse avvilite [1].

Il reclutamento di manodopera a basso costo è stato ampiamente incentivato dopo la seconda guerra mondiale attraverso la forza lavoro immigrata. In base alla teoria dei ‘push and pull factors’ gli spostamenti migratori seguono la logica dei fattori di attrazione e di spinta. Le pressioni del mercato globale hanno creato i presupposti per la ‘schiavitù moderna’, congiuntura economica poco favorevole, in cui i fattori di spinta sono determinanti come anche gli immigrati.
Fondamentali nei lavori manuali da esterno, ad esempio, si pensi all’agricoltura, alle imprese di costruzioni, alla cura degli animali e del territorio, e nei lavori domestici o settori come la ristorazione, i servizi alberghieri e i servizi legati alla salute e all’assistenza delle persone. In questa lettura, la schiavitù odierna, dunque, non è una conseguenza del sottosviluppo ma, al contrario, appare nei processi produttivi dei Paesi ricchi perché consente eccezionali profitti ed è una strategia vantaggiosa per l’economia globalizzata.
Lo schiavismo moderno, che nessuna legge internazionale definisce, è un termine ombrello attraverso cui si enfatizzano le commistioni tra la tratta di persone, il lavoro forzato e la schiavitù.

Lo sa bene questa sanatoria che rifiutando la migrazione come un’esperienza che ingloba tutte le dimensioni dell’esistenza umana, confina il migrante al suo esclusivo ruolo di lavoratore - bracciante.
Infatti una delle sue frasi si impone: «non aspiriamo all’uguaglianza, ma alla dominazione. Il paese di razza straniera dovrà ridiventare un paese di servi, di braccianti agricoli, o di operai industriali. Non si tratta di sopprimere le disuguaglianze tra gli uomini, ma di ampliarle e legittimarle [2]».
Sanatoria che risulta essere ‘il pessimo prodotto della scelta governativa che invece di affrontare il problema nella sua interezza e dal punto di vista primario dei diritti e delle garanzie, ha deciso di muoversi solo per provare a soddisfare le immediate esigenze del sistema economico e produttivo [3]’.

Un permesso di lavoro per 6 mesi, ossia valido il tempo della raccolta che asseconda una rappresentazione dell’io e dei diritti radicalmente gerarchica e definita in base a criteri di riferimento ed orizzonti definiti per cui l’immigrato non ha possibilità di essere classificato, di avere altro spazio all’interno della società di destinazione [4]o altro “modo d’essere all’interno del gruppo", se non quello di essere un corpo - forza lavoro -. Un’etichetta a cui, tuttavia, si pretende ancora di collegare ‘l’entità fisica, psicologica e morale’, ‘uomo [5].

Insomma, ‘un inganno per le migliaia di migranti in attesa della possibilità di emergere dalla condizione di annullamento civile e sociale in cui sono costretti [6]’.
Una sanatoria che senza mezze misure vuole mantenere il migrante in una condizione di marginalità, senza concedere il pieno godimento dei diritti fondamentali, attraverso un inserimento lavorativo forma di una integrazione subalterna.

Sicuramente il sistema di lavoro temporaneo è una forma di restrizione dell’immigrazione. La sua caratteristica è legare l’immigrato a un singolo datore di lavoro e quando ciò accade, lo sfruttamento risulta più semplice. Ed infatti, già questa sanatoria ha alimentato le speculazioni ed i raggiri ai danni di migranti costretti a pagare dai 6.000 agli 8.000 euro per ‘regolarizzare’ la loro posizione sul territorio italiano.
Ovviamente, laddove i datori di lavoro privati hanno un alto grado di controllo sulla capacità di rilasciare un PDS, il potenziale di sfruttamento è un rischio che si auto verifica.
Un lavoro si definisce para-schiavistico perché è connotato dalla totale assenza di libertà decisionale. Il perimetro di tale azione si verifica su due aspetti contrapposti: da un lato è necessario che lo sfruttamento intensivo sia finalizzato a rapidi guadagni, dall’altro vi è la necessità di non degradare troppo la fonte di guadagno stessa (ossia le persone sottomesse) per non renderla inattiva e impossibilitata a produrre ulteriore ricchezza. Per garantire i profitti è necessario, dunque, assicurare un continuo ricambio delle vittime o di quanti accettano volontariamente, o meglio per necessità, tali condizioni lavorative, attraverso impieghi di breve durata.

Lo stato di sudditanza socio-economico e socio-psicologico, le forme di sfruttamento basate sul dominio e sulla completa coercizione, sono gli elementi che spiegano cosa s’intenda per condizione servile [7]. Come ben suggerisce questa sanatoria.
È stato osservato che in Europa negli ultimi anni un inasprimento della politica migratoria è stato accompagnato da una riduzione della protezione dei migranti. Dal Global Slavery Index 2018 emerge che, anche nei paesi con risposte apparentemente più forti alla schiavitù, l’esclusione dalle forme di protezione normative, aumenta l’esposizione alle nuove schiavitù.
La vulnerabilità alle condizioni servile è matematica nelle situazioni e nei luoghi in cui l’autorità dello Stato e della società non è in grado di proteggere i migranti.
Non si tratta, dunque, di un concetto puramente tecnico.
La vulnerabilità alla condizione servile definita, dall’International Organization for Migration (IOM) come suscettibilità ai danni di alcune persone rispetto ad altre a seguito dell’esposizione a un certo tipo di rischio. Le dimensioni in cui si manifesta la vulnerabilità dei migranti sono: fattori individuali (come età, genere, etnia), fattori familiari e domestici (come dinamiche familiari interne), fattori della comunità (come gli atteggiamenti culturali e l’ambiente naturale) e i fattori strutturali (come le strutture legali e una più ampia stabilità sociale) .
La giustizia rientra, istituzionalmente, in quella dimensione discriminante per cui si produce la condizione servile, supportata da politiche restrittive in materia di immigrazione combinate a forti incentivi economici e a salari indegni.
Una “persecuzione burocratica [8]” che colpisce gli immigrati nei Paesi di destinazione, che contribuisce a definirne la loro diversità e a delimitare, in ultimo, i contorni dell’identità nazionale.

Si potrebbe pensare che […] l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e il loro diritto a muoversi liberamente per il mondo per trovarvi un’esistenza decente siano principi ovvi, anche se privi di una formulazione netta. Ma non è così. L’umanità viene divisa in maggioranze di nazionali, cittadini dotati di diritti e di garanzie formali, e in minoranze di stranieri illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e di fatto […] Bisognava comprendere come la comparsa di stranieri in cerca di lavoro o di opportunità sociali abbia fatto sparire d’incanto diversi luoghi comuni sull’umanità, tolleranza e razionalità della nostra cultura [9]’.
I siti di vulnerabilità - ossia le zone dove si verifica il crimine della schiavitù moderna -, le caratteristiche delle vittima (o cosa rende alcuni migranti più vulnerabili a schiavitù moderna di altre?), le caratteristiche del trasgressore e le prospettive del guardiano, sono i riferimenti che spiegano le dinamiche della schiavitù moderna e, nello stesso tempo, i punti su cui intervenire per non commettere questo crimine. Così lontano, così vicino.
Note
[1Aime Cesaire, Discorso sul colonialismo.
[2Aime Cesaire, Discorso sul colonialismo.
[4Bourdieu in Sayad 2002.
[5Polanyi, 2010. Inoltre, vedi Bales, 2002: «Questa nuova forma di schiavitù imita l’economia mondiale: si sottrae al rapporto di proprietà e all’impegno gestionale fisso, concentrandosi piuttosto sul controllo e sull’uso delle risorse e dei processi. […] Nella nuova schiavitù lo schiavo è un articolo di consumo: in caso di necessità può aggiungersi al processo di produzione, ma non è più un bene ad alta intensità di capitale».
[6Cfr. Siamo qui, sanatoria subito. Inoltre vedi Bartoli, 2012: «Quando l’etnia, la nazionalità, la cultura e la religione non sono trattate come categorie aperte, negoziabili, mutanti, frutto di processi storici, ma come un dato naturale, inalienabile, immutabile, che determina totalmente i comportamenti e le opinioni dell’individuo che vi è rubricato e ne decreta l’incommensurabile diversità dal «noi», allora divengono nomi criptati del concetto di razza. Il diritto finisce dunque per creare, quasi fossero nuove denominazioni di razza, l’identità di “straniero” – che rischia di rimanere tale a vita e non ottenere mai la cittadinanza per residenza, perché questa è basata sullo ius sanguinis e difficile da ottenere anche per i figli degli immigrati nati e vissuti in Italia – e quella del “clandestino”, che è tale per definizione di legge – “La clandestinità è una sorta di status d’eccezione in cui finanche i diritti fondamentali possono essere sospesi”».
[7Cfr. Carchedi - Mottura - Pugliese, 2015: «Il fattore che la caratterizza è la mancanza di libertà. In questo tipo di relazioni la caratteristica sembra essere la distanza tra le parti in causa, distanza necessaria a mantenere il rapporto sui binari della completa soggezione coatta delle vittime».
[8Dal Lago, 1998.
[9Dal Lago, 2004.

Debito: non siamo gli ultimi della classe! - Rocco Artifoni


Da un recente studio della Lombard Odier, una banca svizzera specializzata negli investimenti finanziari, emergono dati interessanti sul debito globale e sull’indebitamento dei singoli Paesi.
Anzitutto, si vede che il debito globale mondiale negli ultimi decenni è aumentato in modo preoccupante: nel 1999 ammontava a 79 mila miliardi di dollari (224% del PIL mondiale), nel 2008 è salito a 178 mila miliardi (278% del PIL) e nel 2018 è arrivato a 243 mila miliardi di dollari (317% del PIL globale). Questo peggioramento dell’indebitamento è rappresentato nell’inquietante titolo del report: «Fear and loathing in global debt». Nella presentazione dell’analisi si specifica che «il significativo aumento del debito globale negli ultimi due decenni pone domande legittime sulla sua sostenibilità» e che «oggi potremmo aver raggiunto i limiti del modello di crescita guidato dal debito».
Di solito il principale criterio per valutare la condizione di uno Stato è il debito pubblico in relazione al prodotto interno lordo (PIL). Lo scenario può cambiare radicalmente quando vengono presi in considerazione tutti i debiti: della pubblica amministrazione, delle imprese, dei contribuenti e delle società finanziarie.
È quello che ha fatto la Lombard Odier, predisponendo una tabella con i dati di tutti i debiti riferiti al 2018, dalla quale emerge che i Paesi più indebitati dell’Unione Europea sono Irlanda, Olanda, Danimarca, Belgio e Svezia, mentre i più virtuosi sono Germania, Austria, Finlandia, Grecia e Italia. Un risultato per certi versi sorprendente. In dettaglio si può vedere che l’Irlanda ha un debito globale pari al 671% del PIL, poiché bisogna sommare il 73% del debito pubblico, il 193% di quello delle imprese, il 45% del debito delle famiglie e soprattutto il 362% dell’indebitamento accumulato da banche e società finanziarie irlandesi. L’Olanda, spesso considerata nel novero dei Paesi virtuosi, in realtà segue l’Irlanda da vicino, con il 626% di debito rispetto al PIL. Fuori dall’Unione Europea in questa zona della classifica si trova anche il Giappone con il 537%. Dall’altra parte dell’elenco al primo posto c’è la Germania, con il 236% e con una omogenea distribuzione del debito: 65% debito pubblico, 56% imprese, 53% contribuenti, 62% finanza. La Grecia e l’Italia, pur avendo i più elevati debiti pubblici in Europa, si posizionano in modo inaspettato: il debito globale ammonta rispettivamente al 304% e al 311% del PIL.
Ecco il dettaglio dell’Italia: 141% debito pubblico, 70% imprese, 41% famiglie, 59% banche. Da notare che l’indebitamento privato pari al 41% del PIL è il più basso tra tutti i Paesi considerati nel report: gli italiani, oltre ad essere grandi risparmiatori, sono poco propensi a contrarre debiti privati. Al contrario degli italiani si collocano gli svizzeri. Infatti, la Svizzera, con un indebitamento globale del 385%, ha un debito pubblico molto basso (32% del PIL) e il debito privato più alto (130%), dovuto ad un largo utilizzo delle ipoteche da parte delle famiglie svizzere.
Anche la conclusione dello studio della Banca svizzera per certi aspetti può essere considerata sorprendente: viene detto in modo esplicito che un debito elevato comporta come conseguenza la disuguaglianza, mentre invece sarebbe utile «crescere in modo diverso», poiché la «riduzione delle disparità della stragrande maggioranza delle economie mondiali può essere un modo efficace per sostenere i consumi senza fare affidamento su un eccessivo accumulo di debito». A motivare queste indicazioni della Lombard Odier sicuramente non è il senso di equità o il diritto alla giustizia, ma è positivo che anche una Banca svizzera, nazione considerata il paradiso fiscale per eccellenza, riconosca che è necessario cambiare strada e ridurre le enormi disuguaglianze tra i popoli.
da qui

Non si può sapere in anticipo quando emergeranno i nuovi movimenti, ma una cosa è certa: stanno già percorrendo la strada verso il successo - Arnie Alpert



Quando Claudette Colvin, una teenager nera di Montgomery, Alabama, è stata arrestata per non aver ceduto il suo posto su un bus urbano, furono in pochi ad aver dato peso alla faccenda. Qualche mese dopo, quando Rosa Parks è stata arrestata per lo stesso motivo, si è attivato un intenso movimento di boicottaggio degli autobus.
Quando Seymour Hersh ha rivelato i dettagli del massacro di My Lai, nel 1969, ha dato il via alle investigazioni ma non a un’azione di massa. Quando, la primavera dopo, il presidente Nixon annunciò che le truppe statunitensi avevano invaso la Cambogia, i campus universitari, compreso quello del Kent State, s’infiammarono in accese proteste.
La parziale fusione del reattore nucleare in Michigan, nel 1966, ha catturato l’attenzione dell’opinione pubblica. Dieci anni dopo, nel 1979, lo stesso episodio sull’isola di Three Mile, ha scatenato manifestazioni contro l’atteggiamento rialzista di Wall Street rispetto all’energia nucleare. (Nello stesso periodo usciva uno dei must di Hollywood, “The China Syndrome”. Una coincidenza inaspettata.)
Quando si seppe la verità sull’omicidio di Ahmaud Arbery, ucciso dalla polizia in Georgia, si scatenò un’ondata di indignazione. Ma solo due mesi dopo, quando i video di George Floyd sono diventati virali, quell’indignazione è cresciuta, raggiungendo livelli senza precedenti con il Black Lives Matter.
Secondo il New York Times, le dimostrazioni hanno avuto luogo in 2.000 città, con migliaia di partecipanti. È probabilmente un eufemismo e non prende nemmeno in considerazione le manifestazioni in Messico, Gran Bretagna, Australia… Ma nel frattempo, le leggi contro l’abuso di potere da parte della polizia aumentano, come forma di disinvestimento dalla polizia e investimento nella comunità.
Non si può sapere in anticipo quale motivazione scatenerà il malcontento in modo più acuto, alimentando i movimenti sociali e le proteste. Ma il semplice fatto che questo accada riflette un andamento descritto 40 anni fa dall’attivista Bill Moyer, in un opuscolo intitolato “The Movement Action Plan”. Vale la pena leggerlo, o rileggerlo, oggi.
Moyer era un attivista negli anni ’60 e ’70, e lavorava per la Fair Housing con la American Friends Service Committee, a Chicago. Ha collaborato nell’organizzazione della Poor People’s Campaign, nel 1968, e poi si è unito al Movement for a New Society, a Philadelphia, mettendo in pratica tutte le sue competenze nell’ambito della pace, dell’uguaglianza e dell’ambiente.
Dopo aver attentamente analizzato i movimenti sociali per anni, Moyer ha individuato una serie di fasi attraverso le quali sono passati solo i movimenti di successo. Nella prima fase, che Moyer chiama “Normalità”, le persone non sono pienamente consapevoli delle problematiche e tendono a dare il loro sostegno a chi detiene il potere. Passando alla seconda fase, “Fallimento delle istituzioni ufficiali”, si iniziano a formare i gruppi di opposizione. La fase tre, “Maturità”, vede emergere un’opposizione pubblica significante rispetto ai vertici del potere, ma non si tratta ancora di una maggioranza. La quarta fase, il “Decollo”, corrisponde esattamente al vissuto del Black Lives Matter negli ultimi tempi.



Nelle fasi iniziali, problematiche come la violenza della polizia e il militarismo potrebbero attirare l’attenzione da parte di studiosi, politici e quelle che Moyer chiama “organizzazioni professionali di opposizione”, ma lui stesso dice che quei gruppi sono troppo legati alla loro stabilità interna per scatenare un movimento sociale di massa.
Poi, si verifica un “evento scatenante”, come la diffusione virale del video di George Floyd.
“In questi momenti”, scrivono Mark e Paul Engler nel loro libro This Is an Uprising, “i nuovi partecipanti sono travolti dall’entusiasmo della loro prima manifestazione, e i gruppi che si stavano lentamente costituendo si ritrovano immersi in una tempesta, circondati da un’urgente frenesia.”
Gli eventi scatenanti pongono un problema impossibile da ignorare e, come ha spiegato Moyer,  generano “un profondo senso di indignazione morale diffuso tra la maggior parte dei cittadini. Questi eventi sono una specie di “call-to-action per le nuove ondate di opposizione a partire da quei gruppi che si sono lentamente formati nelle fasi precedenti.”
Con JoAnn McAllister, Marylou Finley e Stevem Soifer, Moyer ha approfondito le sue ricerche, esponendole nel libro Doing Democracy: the MAP Model for Organizing Social Movements, pubblicato circa 20 anni fa. L’omicidio di George Floyd è stato uno dei pochi episodi in cui la brutale violenza della polizia contro gli afro-americani è stata portata allo scoperto e la fase di “Decollo” descritta da Moyer  rappresenta questo momento in modo piuttosto appropriatamente.
Moyer ha affermato che durante questa fase, “chi detiene il potere assume una posizione molto rigida nel difendere le sue politiche e nel criticare i nuovi movimenti, che giudica radicali, pericolosi, d’ispirazione comunista, violenti e irresponsabili.”
Comunque sia, esiste anche il pericolo che gli attivisti, specialmente quelli che sono stati coinvolti in manifestazioni radicali, tendano a confondere l’attenzione pubblica con la vittoria. Il fallimento può generare frustrazione e rassegnazione, o addirittura portare gli attivisti a scelte più “drastiche”, spesso controproducenti.
Moyer ha dato vita al “Movement Action Plan” dopo averlo presentato ai membri del Clamshell Alliance nel 1978. Il “Clams” aveva appena condotto una memorabile occupazione del sito nucleare nella piccola cittadina di Seabrook, New Hampshire. Più di 1.400 persone furono arrestate, spedite nelle armerie della National Guard sparse per il paese e trattenute lì per circa due settimane. La portata della dimostrazione, la sua impostazione nonviolenta e la posizione furiosamente pro-nucleare dello stato, hanno attirato una notevole attenzione. Il movimento ha affermato che l’energia nucleare era troppo rischiosa, costosa e non necessaria, dal momento che il sole splende alto nel cielo e il vento soffia ancora.
Come gli Englers hanno riportato nel loro libro, il movimento No Nukes “ha costruito un modello innovativo e travolgente: dopo le azioni del Clamshell, iniziarono a formarsi centinaia di gruppi in tutto il paese. La protesta di Seabrook ha dato il via ad altre occupazioni, come quella della centrale nucleare del Diablo Canyon, in California.  Tutte le strategie adottate da ciascuna organizzazione – l’affinità tra i suoi membri, i comitati, la condivisione delle decisioni e i blocchi militanti nonviolenti – potrebbero costituire un unico e influente modello per condurre l’azione negli Stati Uniti.”
Come ha poi scritto, Moyer rimase “scioccato quando gli attivisti di Clamshell si arresero, abbattuti e depressi, convinti che i loro sforzi erano stati del tutto inutili” perché gli obiettivi a breve termine non erano stati ancora raggiunti.
La fase successiva al “Decollo”, nella MAP di Moyer è chiamata “Percezione del Fallimento”. È un momento in cui gli attivisti che hanno profondamente compreso il problema in ballo, inclusa “l’agonizzante sofferenza delle vittime” e la complicità tra quelli che detengono il potere, sprofondano nella disperazione quando il cambiamento non avviene nell’immediato. Moyer vuole far capire loro che stanno vincendo anche se non se ne rendono conto, e che non devono mollare la presa.
È a questo punto che emerge un altro elemento importante dell’analisi di Moyer. Gli attivisti possono ricoprire quattro ruoli, ciascuno dei quali è fondamentale per raggiungere un risultato: il cittadino, il ribelle, l’agente di cambiamento e il riformista. È possibile assumere questi ruoli in maniera efficace o meno. Per esempio, agenti di cambiamento inefficaci potrebbero avanzare proposte troppo tiepide o, al contrario, troppo ardite. I riformisti nel mondo delle “organizzazioni professionali di opposizione” possono vedere nei ribelli un problema, esattamente come in chi detiene il potere, e cercare di mantenere il controllo sulle dinamiche del movimento. I cittadini possono essere un po’ ingenui circa la portata delle forze di resistenza al cambiamento. E i ribelli possono essere così rigidi nel ruolo che hanno deciso di assumere che rischiano di ostacolare il processo a cui hanno dato essi stessi inizio. Quelli che Moyer chiama i “ribelli negativi” potrebbero anche vedere nel crescente supporto alle attività del movimento un indicatore di eccessiva conformità allo status quo, piuttosto che una prova del suo progresso.
Quando i movimenti passano dalla fase di “Normalità” a quella di “Successo” e di “Continua Battaglia”, la relazione tra i vari ruoli si inverte. Per esempio, nessuno presterà troppa attenzione agli agenti di cambiamento prima della fase di decollo, ma una volta che i ribelli abbiano attirato l’interesse dei vertici del potere e del pubblico, la loro funzione acquisisce tutt’altro significato. Chiaramente, alcune persone sono più “flessibili”, mentre altre restano ferme in un unico ruolo.
Non è possibile non riscontrare qualche cavillo nel progetto di Moyer, anche se si tratta di piccolezze. La fase sei è quella che raggiunge, secondo lui, “la maggior parte dell’opinione pubblica”. È vero che oggi a governare è la maggioranza, ma quando la minoranza ha ancora una certa rilevanza ai vertici del potere, come avviene nel nostro sistema elettorale intriso dalle dinamiche economiche, i movimenti non possono contare esclusivamente sul supporto della prima.
Nonostante questo, vale ancora la pena prendere in considerazione il consiglio di Moyer sulla fase sei. Le forze al potere potrebbero palesarsi in modo negativo e gli attivisti devono essere pronti a raggiungere quante più persone possibile per attivare delle campagne strategiche che indeboliscano quelle forze e demoliscano status quo, intrinsecamente ingiusto. Le proteste nonviolente possono comunque essere efficaci, ma non si può fare affidamento esclusivamente su di loro come principali fonti del cambiamento.
È interessante il riferimento di Moyer agli eventi “ri-scatenanti”, che definisce come  una sorta di “replay della fase di decollo.” È un concetto che ben si adatta alle proteste del Black Lives Matter. Il fatto che le comunità nere abbiano già vissuto episodi del genere, sviluppando nel tempo una strategia per attuare il cambiamento, è una delle ragioni per cui questa volta il movimento sta progredendo così rapidamente, passando velocemente dalla fase quattro alla sei.
La protesta non è il movimento. Per avere successo, i movimenti hanno bisogno di studio, allenamento, organizzazione, strategie di comunicazione, risorse finanziarie e umane, e la forza di volontà per procedere anche di fronte a imprevisti, repressioni e contraccolpi. In ogni caso, senza la pressione generata dalle proteste, i movimenti rischierebbero di rimanere immobili quando, in periodi di crisi come quello che stiamo vivendo, è necessaria un’azione più forte e radicale.

lunedì 29 giugno 2020

lavorare fa ammalare




I focolai di Mondragone e Bologna hanno qualcosa in comune: lo sfruttamento - Sebastian Bendinelli (*)
Mentre i giornali parlano di untori e di scontri inter-etnici tra italiani e bulgari, i due focolai di Mondragone e Bologna smentiscono tre mesi di retorica sui rischi della movida: i luoghi più pericolosi sono i posti di lavoro in cui lo sfruttamento è generalizzato.

Nel pomeriggio del 25 giugno ci sono state tensioni a Mondragone, in provincia di Caserta, per via della mini “zona rossa” applicata lunedì attorno ai palazzoni-dormitorio della ex Cirio, abitati soprattutto da braccianti stagionali provenienti dalla Bulgaria. Alcuni di loro hanno protestato in mattinata per chiedere di poter andare a lavorare, scendendo in strada nonostante il divieto. Sul posto sono intervenuti la polizia e l’esercito, ma anche gruppi di cittadini italiani che hanno a loro volta protestato contro la presenza degli “stranieri,” al grido di “fuori! fuori!”
I media hanno dato molto risalto alla risposta di alcuni dei residenti bulgari alle proteste xenofobe: su molti giornali campeggia la foto dell’uomo che lancia una sedia dal balcone, ma molta meno attenzione viene dedicata alle violenze dei cittadini italiani, che hanno lanciato pietre contro le finestre e sfondato i finestrini di alcune auto.
In 
un video pubblicato dal Corriere della Sera si vedono gruppi di persone che cercano di penetrare in uno degli edifici prendendo a calci il portone, spaccano a bastonate i finestrini e rimuovono le targhe dalle auto dei residenti — costretti ad assistere dalle finestre — tra gli applausi, mentre la polizia e i carabinieri presenti sul posto non fanno sostanzialmente nulla per fermarli.

Queste immagini riportano alla memoria le “rivolte” orchestrate dall’estrema destra contro i centri d’accoglienza a Tor Sapienza nel 2014, ma qualcuno ieri si è spinto a ricordare un episodio ancora più estremo: la strage di Pescopagno, che nel 1990 costò la morte a 6 cittadini stranieri per la “pulizia etnica” ordinata dal clan La Torre, attivo proprio tra Mondragone e Castel Volturno. Per capire che aria tira, il Mattino titola “titola “incubo pulizia etnica” un articolo in cui riporta alcune delle dichiarazioni raccapriccianti dei manifestanti, che ieri sono anche entrati negli uffici del comune e hanno bloccato per alcune ore la via Domiziana. “I bulgari si sentono i padroni della città, stiamo subendo da dieci anni: dovete reagire o lo faremo noi.”
Tutto è cominciato lunedì, quando attorno all’area dei palazzi ex Cirio è stato disposto un cordone sanitario in seguito all’individuazione di alcuni casi di positività al virus tra gli appartenenti alla comunità bulgara, a partire da una donna incinta che ha partorito all’ospedale di Sessa Aurunca. A tutti gli abitanti è stato imposto l’obbligo di isolamento domiciliare, senza eccezioni per lo svolgimento dell’attività lavorativa, mentre l’Asl di Caserta ha programmato uno screening sierologico per tutti i residenti (circa 700 persone). Il numero dei contagi è salito ieri a 49.
Tra i nuovi positivi — tutti, a quanto pare, asintomatici — 
non risultano persone “scomparse,” ma il monitoraggio è complicato dal fatto che molti degli abitanti non hanno un regolare contratto d’affitto e non sono quindi censiti. Nei giorni scorsi anche il governatore De Luca aveva parlato di alcuni braccianti che avevano eluso il divieto di spostamento per andare a lavorare nella Piana del Sele. I positivi, per evitare la diffusione del virus, sono stati trasferiti al Covid Center di Maddaloni.
Le autorità nazionali e regionali stanno affrontando la situazione soltanto come un problema di “ordine pubblico”: De Luca ha chiesto alla ministra Lamorgese l’invio di un centinaio di militari, ottenendone circa la metà, mentre il sindaco Virgilio Pacifico ha parlato di un “inaccettabile atto di insubordinazione.”
Per De Luca “ora devono stare tutti in casa, si devono rispettare le regole: per 15 giorni nessuno deve entrare o uscire da quei palazzi.” Ma la tensione tra italiani e bulgari a Mondragone ha radici lontane, e non se ne può parlare senza citare le condizioni di vita e di lavoro a cui sono costretti i braccianti stagionali.
Da anni intere famiglie arrivano dalla Bulgaria per essere sfruttate 
da aziende agricole italiane che non forniscono né alloggi né trasporti, costringendo i lavoratori a pagare un affitto in appartamenti fatiscenti e sovraffollati all’interno dei palazzoni.
Basta fare una breve ricerca per scoprire casi di caporalato e sfruttamento emersi negli anni scorsi: nel novembre 2018, per esempio, un’indagine della procura di Santa Maria Capua Vetere portò all’arresto di alcuni caporali che avevano instaurato “un vero e proprio rapporto di durevole e fidelizzata collaborazione” con le aziende agricole della zona, fornendo manodopera sottopagata e sfruttata in “condizioni di lavoro degradanti.”
Tra gli indagati, anche diversi committenti e titolari delle aziende agricole, che avrebbero sfruttato il sistema illegale “per abbattere drasticamente i costi della raccolta.”
Un reportage di Dire, dello stesso anno, 
descrive la giornata di lavoro dei braccianti, che per 7 ore al giorno guadagnano, quando va bene, una trentina di euro.
Paghe da fame, ma comunque superiori anche di 6-7 volte rispetto al salario che percepirebbero in Bulgaria.
La protesta di questi lavoratori — che si sono trovati bloccati nella zona rossa senza precise informazioni, senza assistenza e senza la possibilità di andare a lavorare — è più che comprensibile, e non dovrebbe essere inquadrata soltanto nella cornice di uno “scontro inter-etnico.”
Il trattamento riservato all’altro grande focolaio che sta preoccupando l’Italia in queste ore — quello alla BRT di Bologna — è molto diverso, anche se c’è un elemento comune che li unisce: il lavoro.
Ma qui c’è una grande azienda della logistica e, nonostante le testimonianze sul mancato rispetto delle misure di sicurezza e sui ritardi delle segnalazioni ai medici competenti, i datori di lavoro non vengono definiti “untori” come i braccianti bulgari di Mondragone.
Al momento i casi positivi tra i magazzinieri di BRT sono 64, ma risultano casi di contagio anche in altre aziende della logistica della zona (DHL, TNT, Pelletways).
Nove di loro sono sintomatici, 2 sono stati ricoverati. Secondo 
l’Ausl di Bologna il focolaio è sotto controllo. 370 persone sono già state sottoposte al tampone, mentre 130 persone sono in isolamento domestico.
Il magazzino in cui si sono sviluppati i primi contagi è stato chiuso, ma l’azienda continua ad essere aperta regolarmente.
Secondo la fondazione Gimbe, che ieri ha diffuso il proprio report settimanalei nuovi focolai dimostrano che il virus è ancora in circolazione e quindi è indispensabile “continuare con una stretta sorveglianza epidemiologica,” diffidando dal “senso di falsa sicurezza che traspare da improvvide dichiarazioni prive di basi scientifiche.” La costante riduzione dei nuovi casi, avverte Gimbe, è influenzata dal netto calo dei tamponi diagnostici: 26.876 in meno rispetto alla settimana precedente.
Il virologo Fabrizio Pregliasco, intervistato dall’HuffPost, sottolinea che “i luoghi della logistica fanno ricordare che non è un caso se tutto è iniziato a Codogno, Lodi e nel Piacentino. La logistica resta un setting altamente a rischio per l’innescarsi di nuovi focolai: sono luoghi dove c’è un interscambio di tantissime persone e dove è facile che si creino affollamenti.”
I due focolai di Bologna e di Mondragone, così come quello che si è sviluppato nel mattatoio Tönnies in Germania, smentiscono mesi di retorica incessante sul rischio della “movida” e dei runner, evidenziando chiaramente — come i sindacati e i lavoratori hanno sempre denunciato — che i luoghi più a rischio per lo sviluppo dei contagi sono sempre i posti di lavoro, specialmente quelli in cui è difficile o impossibile far osservare le misure di distanziamento sociale.
E, quindi, quelli a più alto tasso di sfruttamento, con paghe basse e manodopera quasi interamente straniera: logistica e bracciantato agricolo.

 (*) Tratto da “The Submarine




Bartolini-Bologna: il virus c’entra ma il vero focolaio è la condizione operaia (nocività e lavoro precario) - Vito Totire

Come era prevedibile alla Bartolini di Bologna le persone positive al Covid 19 sono salite. fino ad arrivare ieri al numero di 107: sono 79 lavoratori (77 magazzinieri e 2 autisti) con altri 28 familiari o conviventi.
Ci sono 12 persone sintomatiche: 9 lavoratori e 3 familiari. Due i ricoverati : 1 lavoratore e 1 familiare. Questo dato, anche se piccolo, evidenzia che i rischi, in caso di contagio paralavorativo, possono essere disastrosi; infatti passando dagli operai alla popolazione generale sfuma l’effetto “lavoratore sano”. Seguiremo la vicenda anche per valutare eventuali postumi.
Ci sono 185 persone in isolamento fiduciario domiciliare: asintomatici e negativi ma monitorati.
La Ausl ha divulgato ulteriori informazioni, poco comprensibili e contraddittorie rispetto a quelle precedenti. Prima si è affermato che le norme di prevenzione non erano adeguatamente rispettate. Poi si è detto che erano rispettate dopo un precedente sopralluogo che aveva dato àdito a prescrizioni.
Le informazioni divulgate generano confusione. Pare emergere la preoccupazione di dichiarare “innocente” l’organizzazione lavorativa. Ma se le norme erano rispettate (da quando?) come si spiega il grande focolaio?
Perché poi il Dipartimento di sanità pubblica dà due versioni diverse che appaiono palesemente diverse a distanza di 24 ore?
I risultati delle ispezioni saranno presentati al Comune e al prefetto. Ma bisogna che la Ausl cominci a diventare trasparente e comprendere che in città esistono soggetti attivi che hanno diritto di accedere ai dati sanitari ed epidemiologici non meno di Comune e prefetto. Purtroppo piove sul bagnato: la Ausl non è più, da decenni, quella USL che fu pensata da Giulio Maccacaro come luogo di partecipazione e autogestione dei cittadini e dei lavoratori.
Stiam chiedendo i dati epidemiologici ad Ausl e Inail dall’inizio del mese di marzo…nessun riscontro.
Peraltro la Ausl sposta il suo sfuocato binocolo (forse è “a fuoco” ma noi comuni mortali niente dobbiamo sapere) verso il cosiddetto centro di accoglienza degli immigrati in via Mattei come potenziale origine del contagio. «Faranno sapere» a modo loro.
Ma se pure un lavoratore covid-positivo è partito dell’hub di via Mattei come mai il contagio si è diffuso?
Né si può tacere che le condizioni di «accoglienza» (volendo usare questo termine, con una grave forzatura della realtà) costituiscono offesa per i diritti umani e per le più elementari norme di igiene edilizia. Come per il carcere bolognese che la Ausl SI OSTINA A NON VOLER DICHIARARE INAGIBILE!
La Ausl non fornisce i riscontri cronologici della «prima ispezione» (comunque conclusasi con «prescrizioni») che consentano di comprendere da quanto tempo si lavorava senza rispettare le norme di prevenzione che – se fossero risultate rispettate al primo sopralluogo – non avrebbero dato vita alle prescrizioni genericamente citate; ma si è trattato di «prescrizioni» o di sanzioni?
Occorre smetterla con la gestione ragionieristica e pseudo-medicalizzante (o pseudo-taumaturgica) della Ausl e delle istituzioni.
Denunciamo che si cerca di occultare molti dei fattori che hanno accresciuto a dismisura la portata della pandemia:
§  l’omissione delle misure di prevenzione nei luoghi di lavoro;
§  l’assoluta precarietà delle condizioni igienico-ambientali in cui vivono i lavoratori più poveri e segnatamente gli immigrati esposti molto spesso a condizioni schiavistiche;
§  la precarietà dei rapporti di lavoro che, in assenza della copertura dei periodi di malattia, può indurre fenomeni di “presentismo” (andare comunque a lavorare … per non morire di stenti e di fame).
Qualcuno ha detto «andrà tutto bene» ma forse non ha neanche letto i dati di mortalità (almeno quelli pubblicati). Noi invece diciamo: LA QUESTIONE DELLA PANDEMIA E’ ANCORA TUTTA APERTA.

Naomi Klein mette in guardia dai filantropi della tecnologia. E ha ragione da vendere! - Roberto Marchesi



Ma stavolta la miccia era così piccola e corta (il Covid-19) che nessuno ha potuto vederla. Tutti l’hanno vista solo quando è esplosa (in Cina), contagiando in pochi mesi tutto il mondo, e facendo danni ben più gravi di quelli che nemmeno il più lungimirante degli economisti avrebbe potuto immaginare.
Anche se non è ancora finita, anzi, in altre parti del globo è addirittura solo all’inizio, vogliamo – o meglio dobbiamo – pensare alla ripresa. Ma… ci sarà una buona ripresa? Tutti rispondono di sì, ma se potessimo leggere nei loro pensieri troveremmo che nessuno lo dice con vera convinzione. E’ il classico modo, soprattutto americano (It’s all right… andrà tutto bene!), di infondere coraggio sapendo di mentire.
Non è però per niente d’accordo Naomi Klein, che sul numero del 7 giugno scorso dell’Espresso in un articolo dal titolo “La dottrina dello shock pandemico” cita dapprima Bill e Melinda Gates che, con la loro filantropica Foundation, sono stati gli unici a prevedere che la “prossima catastrofe globale sarebbe stata provocata da un virus, non da una guerra”. Ma loro sono capitalisti e filantropi, non economisti o politici. Essendo, con le loro donazioni milionarie, benefattori di milioni di vaccinazioni gratuite nei paesi poveri, già sapevano che qualcosa di terribile, e non immediatamente contrastabile, sarebbe arrivato a guastare i sonni di tutti i potenti della terra, portando tutti i sistemi sanitari – e persino i forni crematori – al collasso con bollettini di “guerra” giornalieri sulle vittime. Anche se la guerra nessuno l’aveva dichiarata.
Ma Gates non è solo un filantropo è anche, a fasi alterne con Jeff Bezos (di Amazon) l’uomo più ricco del mondo. Ed è anche uno dei primi grandi precursori dell’Intelligenza Artificiale (A.I. in breve) coi suoi software (programmi) che accompagnavano l’evoluzione dei computer. La sua Microsoft è adesso leader delle memorie artificiali situate nei “clouds” (le nuvole) che con robot, software, hardware, telefoni intelligenti, magazzini automatici, auto senza pilota, eccetera, è solo una delle tante mega-produttrici di intelligenze artificiali.
Tutte queste meraviglie dell’era moderna aspettavano solo l’occasione buona per far diventare obsoleti noi umani. E ci sono riuscite proprio grazie al Covid-19, che ci ha obbligato a stare in casa per più di due mesi costringendo molte fabbriche a servirsi di automi, altri a far lavorare da casa. Anche chi li odiava, è stato obbligato ad usare per forza gli “smartphone”. Persino le scuole hanno dovuto inventare l’insegnamento a “distanza”.
Naomi Klein però non si è fatta sorprendere dalle belle spiegazioni con le quali i super-manager delle corporation che costruiscono le intelligenze artificiali vantano i loro prodotti. Nel suo articolo ha preferito evidenziare i problemi che le A.I. lasciano piuttosto che i vantaggi che creano (per i pochi che ci guadagnano) e ha suonato tutti gli allarmi possibili concludendo: Si tratta di scegliere se investire nelle persone o nella tecnologia. Perché la brutale verità è che così come stanno le cose è improbabile che si possano fare entrambe le cose. Le scuole, le università, gli ospedali e i trasporti sono davanti a scelte esistenziali”.
Probabilmente ha convinto tutti (me incluso) della enormità di problemi che ci aspettano quando la guerra col Coronavirus sarà conclusa, ma forse ha spaventato davvero il direttore de l’Espresso, Marco Damilano, che ha invece sentito il bisogno di smontare un poco quegli allarmi mettendo un paio di pagine a disposizione di Luciano Floridi, che insegna Filosofia a Oxford, per smontare la settimana successiva tutti gli allarmi sollevati con un articolo indirizzato direttamente alla Klein. Basta citare i sottotitoli per capire ciò che dice: “La didattica a distanza? Un’opportunità. Lo smart working? Rende più liberi. Le app di controllo? In Italia entro un quadro giuridico. Il filosofo respinge le tesi dell’attivista”.
A chi dobbiamo credere dunque? Non bisogna nemmeno chiederselo. Floridi? Mettetelo nella categoria di quelli che dopo la crisi del 2008 dicevano che per uscire dalla recessione bisognava praticare una severa austerity. Per me ha ragione da vendere la Klein! Il virus ha creato un solco profondissimo: dietro di noi c’è l’umanità prima dell’intelligenza artificiale, davanti abbiamo quella – per ora massimamente ignota – di pochi ricchissimi umani proprietari della sofisticatissima tecnologia con la quale controlleranno tutta l’umanità inerme (avete provato a stare un solo giorno senza internet?).
Senza internet e intelligenze artificiali saremo tutti come uomini delle caverne armati di clave.
Cosa si può fare per uscire da questa trappola? Intanto bisogna far pagare alle A.I. tutte le tasse che prima pagavamo noi col nostro lavoro, e poi… dobbiamo inventarci qualcosa da fare, anche se non serve a niente.
P.S. L’idea di tassare i robot è proprio di Gates, io l’ho solo adeguata al reale fabbisogno.

domenica 28 giugno 2020

Noam Chomsky: “I governi neoliberisti sono il problema, non la soluzione”


(a cura di Bruno Patierno)

Continuiamo la pubblicazione su People For Planet di contributi sul “dopo coronavirus” – inaugurata con “Aspettiamo il dopo, in agguato come la tigre” e continuata con “Il ritorno dello Stato Sociale” e “I veri leader si vedranno adesso” – con questa intervista rilasciata da Chomsky a Cristina Magdaleno dell’agenzia spagnola EFE di cui riportiamo la traduzione di ampi stralci.

“Un colossale fallimento del neoliberismo”

 

Per il filosofo e linguista Noam Chomsky, la prima grande lezione dell’attuale pandemia è che stiamo affrontando “un altro enorme e colossale fallimento della versione neoliberista del capitalismo”
Dalla sua casa a Tucson e lontano dal suo ufficio presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT), dove ha contribuito a cambiare la linguistica per sempre, Chomsky esamina le conseguenze di un virus che chiarisce che i governi liberisti sono “il problema e non la soluzione”.

Domanda: quali lezioni positive possiamo trarre dalla pandemia?
Risposta: La prima lezione è che stiamo affrontando un altro enorme e colossale fallimento della versione neoliberista del capitalismo. Se non lo apprendiamo, la prossima volta che accadrà qualcosa di simile sarà peggio. È ovvio dopo quello che è successo dopo l’epidemia di SARS nel 2003. Gli scienziati sapevano che sarebbero arrivate altre pandemie, probabilmente della varietà coronavirus. Sarebbe stato possibile prepararsi a quel punto e affrontarlo come per l’influenza. Ma non è stato fatto.
Le aziende farmaceutiche disponevano di risorse e sono super ricche, ma i mercati affermano che non vi è alcun vantaggio nel prepararsi in vista di una catastrofe proprio dietro l’angolo. E poi arriva il martello neoliberista. Gli stati liberisti stanno costituendo il problema e non la soluzione.
Gli Stati Uniti sono una catastrofe. Sanno come incolpare tutti tranne loro stessi, anche se sono responsabili. Ora siamo l’epicentro, in un paese così disfunzionale che non può nemmeno fornire informazioni sull’infezione all’Organizzazione mondiale della sanità.

D: Cosa pensi della gestione dell’amministrazione Trump?

R: Il modo in cui si sta svolgendo tutto è surreale. A febbraio la pandemia stava già causando il caos, tutti negli Stati Uniti lo hanno riconosciuto. Proprio a febbraio, Trump presenta un budget che vale la pena guardare. Tagli per il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie e in altre parti relative alla salute. Ha fatto tagli in mezzo a una pandemia e ha aumentato i finanziamenti per le industrie del carbone, le spese militari, il famoso muro con il Messico…
Tutto ciò ti dice qualcosa sulla natura dei giullari sociopatici che gestiscono il governo e che il paese sta soffrendo. Ora cercano disperatamente di incolpare qualcuno. Danno la colpa alla Cina, all’OMS … e ciò che hanno fatto con l’OMS è davvero criminale. Smetti di finanziarlo? Cosa significa? L’OMS lavora in tutto il mondo, principalmente nei paesi poveri, su questioni legate alla diarrea, alla maternità … Allora, cosa stanno dicendo? “Okay, uccidiamo un sacco di persone nel sud perché forse questo ci aiuterà con le nostre prospettive elettorali.” Questo è un mondo di sociopatici.

D: Trump ha iniziato negando la crisi, ha anche detto che era una bufala democratica … Potrebbe essere la prima volta che Trump è stato battuto dai fatti?

R: Trump è probabilmente l’uomo più sicuro di sé che sia mai esistito. È in grado di tenere con una mano un cartello che dice “Ti amo, sono il tuo salvatore, fidati di me perché lavoro giorno e notte per te” e con l’altra mano ti pugnala alla schiena. I suoi elettori  lo adorano indipendentemente da ciò che fa. Ed è aiutato da grandi media come ad esempio Fox News… che sono gli unici media che i repubblicani guardano.
Se un giorno Trump dice “è solo un’influenza, dimenticalo”, diranno di sì, è un’influenza e devi dimenticartene. Se il giorno dopo dice che è una pandemia terribile e che è stato il primo a notarlo, lo grideranno all’unisono e diranno che lui è la persona migliore della storia.
Allo stesso tempo, guarda Fox News al mattino e decide cosa dovrebbe dire. È un fenomeno straordinario. Rupert Murdoch e altri sociopatici della Casa Bianca stanno portando il paese alla distruzione.

D: Come appare la power map in termini geopolitici dopo la pandemia?

R: Ciò che sta accadendo a livello internazionale è piuttosto scioccante. C’è quello che chiamano Unione Europea. Sentiamo la parola “unione”. Ok, guarda la Germania, che sta gestendo molto bene la crisi … In Italia la crisi è acuta … Sta ricevendo aiuto dalla Germania? Fortunatamente stanno ricevendo aiuto, ma da una “superpotenza” come Cuba, che sta inviando medici. O la Cina, che invia materiale e aiuti. Ma non ricevono assistenza dai paesi ricchi dell’Unione europea finora. Questo dice qualcosa …
L’unico paese che ha dimostrato un autentico internazionalismo è stata Cuba, che è sempre stata sottoposta a strangolamento economico da parte degli Stati Uniti e per miracolo sono sopravvissuti per continuare a mostrare al mondo cos’è l’internazionalismo. Ma non puoi dirlo negli Stati Uniti perché ciò che devi fare è biasimarli per le violazioni dei diritti umani. In effetti, le peggiori violazioni dei diritti umani si verificano nella parte sudorientale di Cuba, in un luogo chiamato Guantanamo che gli Stati Uniti hanno occupato e si rifiutano di restituire a Cuba.
Una persona che segua le indicazioni di Trump dovrebbe incolpare la Cina, invocare il “pericolo giallo” e dire che i cinesi stanno venendo a distruggerci, sono meravigliosi…
C’è una richiesta di progressivo internazionalismo con la coalizione che ha dato il via a Bernie Sanders negli Stati Uniti o Varoufakis in Europa. Portano elementi progressisti per contrastare il movimento reazionario che è stato forgiato dalla Casa Bianca, per mano di stati brutali in Medio Oriente  o con persone come Orban o Salvini, il cui godimento nella vita è garantire che le persone che fuggono disperatamente dall’Africa anneghino nel Mediterraneo.
Metti tutto questa ondata reazionaria internazionale da una parte e la domanda è … saranno contrastate?

D: Sanders ha perso la corsa alle primarie…

R: Si dice comunemente che la campagna di Sanders sia stata un fallimento. Ma questo è un errore totale. È stato un enorme successo. Sanders è riuscito a cambiare la portata della discussione e della politica e cose molto importanti che non potevano essere menzionate un paio di anni fa sono ora al centro della discussione, come il Green New Deal, essenziale per la sopravvivenza.
I ricchi non lo hanno finanziato, non ha avuto il supporto dei media … L’apparato del partito ha dovuto coalizzarsi per impedirgli di vincere la nomination. Allo stesso modo che nel Regno Unito l’ala destra del partito laburista ha distrutto Corbyn, che stava democratizzando il partito in un modo che non potevano sopportare.
Erano persino disposti a perdere le elezioni. Ne abbiamo visto tante negli Stati Uniti, ma il movimento rimane. È popolare. Sta crescendo, sono nuovi … Ci sono movimenti simili in Europa, possono fare la differenza.

D: Cosa pensi che accadrà alla globalizzazione come la conosciamo?

R: Non c’è niente di sbagliato nella globalizzazione. Va bene fare un viaggio in Spagna, per esempio. La domanda è quale forma di globalizzazione. Quella che si è sviluppata è stata sotto il neoliberismo. È quello che hanno progettato. Ha arricchito i più ricchi e c’è un potere enorme nelle mani di corporazioni e monopoli. Ha anche portato a una forma di economia molto fragile, basata su un modello di business efficiente ma non efficace, facendo le cose al minor costo possibile. Questo ragionamento ti porta a dire che gli ospedali non hanno certe cose perché quelle cose in termini di profitto a breve non sono efficienti, per esempio.
Ora il fragile sistema costruito sta crollando perché non può gestire qualcosa che è andato storto. Quando progetti un sistema fragile e centralizzi la produzione solo in un luogo come la Cina … Guarda Apple ad esempio. Produce enormi profitti, di cui pochi rimangono in Cina o Taiwan. La maggior parte dei loro affari va dove probabilmente hanno aperto un ufficio delle dimensioni del mio studio, in Irlanda per esempio, per pagare poche tasse in un paradiso fiscale.
Come possono nascondere i soldi nei paradisi fiscali? Fa parte della legge naturale? No.
Tutto è stato progettato a vantaggio di pochi, sono decisioni che hanno avuto conseguenze che abbiamo visto negli anni e una delle conseguenze è ciò che è stato chiamato “populismo”. Molte persone erano arrabbiate, piene di risentimento e odiavano giustamente il governo. Questo è stato un terreno fertile per i demagoghi che potevano dire: io sono il tuo salvatore e gli immigrati questo e quello…

D: Questa pandemia può cambiare il modo in cui ci relazioniamo con la natura?

R: Dipende dai giovani. Dipende da come reagirà la popolazione mondiale. Questo potrebbe portarci a stati altamente autoritari e repressivi che espandono il sistema neoliberista anche più di adesso. Ricorda: la classe capitalista non si autocorregge, anzi. Nel mezzo della pandemia negli Stati Uniti sono state eliminate le regole che limitavano l’emissione di mercurio e altri inquinanti … Ciò significa uccidere più bambini americani, distruggere l’ambiente. Non si fermano. E se non ci sono contro-forze, questo è il mondo che avremo.