venerdì 19 giugno 2020

Respirando respirando

«Non posso respirare»: in morte di George Floyd - don Andrea Bigalli
Un uomo muore e rantolando cerca di gridare i motivi per cui ciò accade. «Non posso respirare». Implora, chiama sua madre. Proiettandosi nella difficile immagine della nostra morte personale possiamo immaginare che potrebbe essere quanto noi stessi ci troveremo a dire o urlare.
Nella fattispecie l’uomo che muore è a terra e ha il ginocchio di un altro uomo che gli schiaccia la gola. Quest’ultimo ha l’uniforme da poliziotto. Dovrebbe custodire e proteggere. L’uomo a terra è innocente, non ha fatto niente di male: è nero, il poliziotto è bianco.
La memoria collettiva è sempre più tessuta di immagini, con le conseguenze del caso: restano in testa forse non quanto occorrerebbe per una sensibilità storica determinante. Ce lo chiediamo in molti, spesso: riusciremo a fare degli eventi che si succedono uno dietro gli altri una tessitura di significato? La foto di George Floyd che sta morendo sull’asfalto di una strada di Minneapolis segna un passaggio: sappiamo bene che raffigura un sopruso più volte ripetuto, denunciato senza che questo abbia mai del tutto cambiato le cose. Ma questa volta l’immagine ha colpito l’immaginario collettivo. Non sappiamo se farà storia, ma ha mosso indignazione, da qui si muove un ulteriore che non conosciamo.
«Non posso respirare». Un testo fondamentale del cristianesimo si può capire meglio proprio a partire da questo lamento. Nel vangelo di Matteo Gesù pronuncia un lungo discorso che inizia con un versetto famoso: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli». La beatitudine non indica una condizione di privilegio, una felicità esclusiva. Le condizioni delle beatitudini non lo fanno certo pensare. Siamo di fronte a un’armonia che sembra impossibile, ma è quella dell’essere amati, la coscienza del diritto che si afferma nonostante tutto. Un diritto che è quello fondamentale ad essere amati. Se nessun altro lo fa, Dio si. Una beatitudine che richiama alla fede: chi non ce l’ha, sa bene però che ciò è radicalmente vero. Infatti in verità non è questione di fede o no: è questione di coscienza. Per molti secoli si è chiosato su quel «in spirito»: si può essere poveri, in sintonia con Dio, anche se il portafoglio è gonfio, perché lo spirito colloca su di un piano diverso da quello della realtà, aliena dal mondo di tutti. La spiritualizzazione dei testi della Bibbia ha sottratto molto alla comprensione di un testo fortemente radicato nella concretezza, in un contesto estraneo alla metafisica.
Il Cristo si riferisce alla privazione dello spirito/respiro: il soffio di vita che prorompe dai polmoni è il segno dell’esistere e questo dimostra la presenza di Dio. Dove è presente il Vivente la vita è garantita. Il povero di fiato, incurvato dal peso del dolore secondo l’immagine anticotestamentaria, è schiacciato a terra, qualcuno gli spinge la faccia contro il suolo impedendogli di respirare. A chi è in questa condizione di annientamento è dichiarato il possesso del «Regno dei cieli»: questa espressione indica il governo che Dio vuol imprimere all’esistente, riconducendolo a quella tenerezza con cui Egli stesso l’ha creato. L’autorità della compassione contro il potere della forza. Al di fuori di una Parola incarnata nella povertà, Ella stessa fatta oggetto di ingiustizia e destinata a una morte che toglie il fiato come quella in croce, questo passaggio dell’autorità sul mondo ai poveri è incomprensibile. Quel che non si capisce secondo le logiche del mondo diviene credibile secondo l’intelligenza che ti consegna l’amore.
L’immagine del vangelo di Matteo è drammaticamente attualizzata dalle immagini di George Floyd, a cui spegne il motore del vivere un uomo che asseconda da servo le dinamiche peggiori del potere suprematista. Floyd appartiene a una popolazione impoverita, economicamente e nel diritto, nonostante sia parte della nazione più potente del mondo. Incarna il destino di chi è stato reso povero nella dignità per una catena storica di pregiudizio e di segregazione, le cui motivazioni, uscite dal novero delle leggi, vi rientrano dalla fogna di quella parte del sentire popolare che ha messo alla guida degli Stati Uniti un presidente esplicitamente appoggiato dal Ku Klux Klan. Genti a cui è sottratto lo strumento della cultura: che non sanno futuro, quindi.
Come rendere possibile quel legittimo governo della storia che spetterebbe a coloro che ne hanno il diritto? Qualcuno questo diritto lo fa scaturire dal Vangelo: altri dal senso della giustizia che ci fa pensare che chi è privo del potere dovrebbe esercitarlo, sperando che da questa condizione apprenda la capacità di farlo per tutti. Il come in realtà dovremmo conoscerlo, si chiama democrazia.
Le immagini, dicevamo. Nella marea di quelle che hanno seguito quella dell’assassinio di Floyd ne identifico una: il vescovo Mark Seitz, della diocesi di El Paso in Texas, che con i suoi preti si inginocchia nella posa di protesta degli afroamericani durante l’esecuzione dell’inno nazionale americano, gesto che sta assumendo una virtualità globale. Lo hanno fatto per nove minuti, tanto quanto è durata l’agonia di George. Molti pensano che troppi tra noi preti si inginocchiano di fronte ai poteri di questo mondo. I miei confratelli di El Paso sono tutti abituati a inginocchiarsi come me davanti ai segni della presenza del divino, presumo. Questa volta ciò coincide con la protesta per chi muore ingiustamente. Un gesto per noi usuale si riveste di una sacralità indiscutibile, e luminosa.
Possiamo essere tutti seme di qualcosa di nuovo, di qualcosa di diverso. Basta saper decidere se accanto a una persona che muore si sta in ginocchio in soggezione a chi lo sta uccidendo e alla sua forza o inginocchiati con pena e compassione, solidali.
In una citazione celeberrima dal suo Servabo, Luigi Pintor ci spiega bene in quale atteggiamento: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».
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Il diritto di respirare - Alessandra Ballerini
“Se pretendi che finiscano i disordini ma non credi che l’assistenza sanitaria sia un diritto umano, se hai paura di dire che le vite dei neri contano e hai paura di denunciare la brutalità della polizia, allora non stai davvero chiedendo che cessino i disordini: stai chiedendo che l’ingiustizia continui. L’unico modo per risolvere questa situazione e uscirne definitivamente è garantendo giustizia… Se volete che finiscano i disordini, chiedete che le cose cambino“: questo l’accorato e puntuale invito della parlamentare statunitense Ocasio-Cortez in occasione delle manifestazioni per l’uccisione di George Floyd.
Ghandi direbbe: “Siate voi il cambiamento che volete vedere nel mondo”.
Ma prima bisognerebbe chiarirsi cosa si vuole. Certamente le decine di migliaia di persone che manifestano in ogni forma, non solo scendendo in piazza, la propria indignata protesta per l‘agonia di un nero inerme soffocato da un poliziotto bianco immobile e sordo alla legge e alle suppliche, vorrebbero che a nessuno essere umano fosse negato il diritto di respirare. E questo ideale minimo di giustizia dovrebbe valere anche nei confronti di chi rischia continuamente di annegare in mare tentando di raggiungere la fortezza Europa.
Un amico con il quale siamo soliti fare scambi di letture mi ha regalato un libro di Yucatàn Noah Harari, Sapiens, da animali a dei, e tra le pagine avvincenti e spassose di questo testo sulla storia dell’umanità viene così sintetizzata l’evoluzione e il primato dell’uomo sapiens:
“La vera differenza tra noi e gli scimpanzé è il collante dei miti, che lega insieme grandi numeri di individui, di famiglie e di gruppi. Questo collante ci ha resi padroni del creato“.
E tra i miti Irrinunciabili che tengono insieme gli esseri umani, ai primi posti c’è quello della Giustizia. Per questo si protesta per l’uccisione del signor Floyd. Per questo volontari da Lampedusa a Ventimiglia tentano tra mille ostilità di offrire accoglienza a profughi e diseredati della terra mentre avvocati e attivisti presentano esposti e denunce chiedendo, appunto Giustizia, per i morti in mare.
E per questo, come dice la parlamentare statunitense, pretendiamo che le cose cambino. Di più, come ci ha insegnato Gandhi, dovremmo essere noi quel cambiamento.
Abbiamo avuto molte settimane per riflettere, gestire paure, coltivare ideali. Abbiamo visto intuito i danni delle cattive politiche sociali e ambientali, abbiamo capito quanto male fanno la corruzione, l’evasione fiscale, l’incompetenza, l’inquinamento, la discriminazione. Abbiamo compreso sulla nostra pelle che diritti e libertà possono essere individuali solo se rispettosamente condivisi e tutelati.
Ora abbiamo compreso cosa vuol dire essere impotenti, vulnerabili, soli. E quanto siano preziose e affatto scontate le nostre libertà e indivisibli i nostri diritti.
Ora non abbiamo davvero più scuse per non pretendere o meglio essere quella Giustizia alla quale dovremmo naturalmente tendere se l’evoluzione della specie è servita a qualcosa.
E proprio in questi giorni, finalmente, il Consiglio della Regione Liguria ha approvato la proposta (di legge dei consiglieri Gianni Pastorino e Francesco Battistini per l’istituzione) del garante delle persone private delle libertà anche in Liguria che era l’unica di Italia ancora rimasta priva di questa fondamentale figura di garanzia. La notizia che il tutto il Consiglio (tranne la Lega che si è astenuta) ha votato a favore, evidentemente consapevole che della necessità di vigilare affinché nessuno, neppure il peggiore degli assassini, nelle mani dello Stato e delle sue divise, subisca le violazioni di quei diritti inviolabili che lo Stato dovrebbe tutelare, lascia sperare che un primo timido ma fondamentale passo verso il cambiamento si stia compiendo. Una boccata di aria buona, anche con la mascherina.
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La catastrofe del respiro - Donatella Di Cesare
Forse ne verremo fuori con una patente di immunità che attesti i nostri anticorpi. Passeremo, quasi per abitudine, fra sofisticati termoscanner e fitti circuiti di videosorveglianza, in luoghi e non-luoghi sanificati, mantenendo la distanza di sicurezza, guardandoci intorno cauti e diffidenti. Le mascherine non ci aiuteranno a distinguere gli amici, e a venirne riconosciuti. A lungo continueremo a scorgere ovunque asintomatici che, ignari, annidano in sé la minaccia intangibile del contagio. Forse il virus si sarà già ritratto dall’aria, scomparso, dissolto; ma ne resterà a lungo il fantasma. E noi avremo ancora l’affanno, il fiato corto.
Potremo raccontare quell’evento epocale che abbiamo vissuto. Lo faremo da sopravvissuti – inconsapevoli, magari, dei rischi che ciò nasconde. Non solo per le insidie della rimozione; né solo per quell’impegno che la vita ha di portare con sé la vita che non c’è più, di riscattarla e indennizzarla, nel lavoro infinito del lutto. La sopravvivenza può inebriare, esaltare. Può diventare una sorta di piacere, una soddisfazione insaziabile, ed essere presa persino come un trionfo. Chi è vissuto oltre, chi è sfuggito alla sorte che si è abbattuta sugli altri, si sente privilegiato, favorito. Questa sensazione di forza, come ha osservato Canetti, prevale persino sull’afflizione. Come se si avesse dato buona prova di sé, e si fosse in un certo senso migliori. Bandito il pericolo, si avverte la prodigiosa, eccitante impressione di essere invulnerabili. Proprio questa potenza del sopravvissuto, la sua rinnovata invulnerabilità, potrebbe rivelarsi un boomerang, un danno di ritorno, spingendolo a credere di poter restare indenne anche in futuro.
Saremo dunque sopravvissuti sani e salvi, immuni e immunizzati, forse già vaccinati, sempre più protetti e assicurati, in lotta per indennizzi e indennità. Celebreremo una certa resistenza, lasciando indistinto il confine tra lotta politica e reattività immunitaria. Non potremo ritenerci reduci o scampati da un conflitto perché, anche se il gergo militare ha dominato la narrazione mediatica, sappiamo che non è stata una guerra. Immaginare così quel che è avvenuto sarebbe un errore reiterato, un ostacolo per ogni riflessione. Non è stata una guerra – nessuno ha vinto. Molti sono stati sopraffatti senza poter combattere; molti hanno perso tutto, integrità e proprietà. Proprio quelli che possedevano meno degli altri, i più indifesi, i più esposti.
Essere usciti indenni da quest’inedita e immane catastrofe del respiro non autorizza a credere di essere intatti e inaccessibili al danno. L’indennità non salva. E l’immunità, più che un successo, si capovolge nel contrario. È come quando il rimedio si rivela un veleno. Perciò fallisce il tentativo di evitare a tutti i costi il danno, di calcolare l’incalcolabile, di innalzare iperdifese. L’organismo che, nell’intento di tutelare la propria indennità, manda in giro la truppa dei suoi anticorpi per impedire l’ingresso agli antigeni stranieri, rischia di autodistruggersi. È quel che mostrano le patologie autoimmuni. Bisogna allora proteggersi dalla protezione. E dal fantasma dell’immunizzazione assoluta.
Il respiro è sempre stato il simbolo dell’esistenza, la sua metonimia, il suo sigillo. Esistere è respirare. Nulla di più naturale, nulla di più emblematico. Eppure, già a partire dal secolo scorso, il respiro è stato bersaglio sistematico. Basti pensare all’impiego sempre più esteso e sofisticato di gas e veleni: dal cloro, sul primo fronte bellico, all’acido cianidrico, nello sterminio, dalla contaminazione radioattiva alle armi chimiche. Anche in seguito sembra che la scienza delle nubi tossiche e la teoria degli spazi irrespirabili abbiano fatto progressi. Al punto che si può parlare, come ha suggerito Peter Sloterdijk, di «atmoterrorismo», dato che non si prende di mira la vittima designata, bensì l’atmosfera in cui vive. Non più colpi diretti, né responsabilità palesi. Chi muore cade sotto il proprio stesso impulso a respirare. Di chi sarà la colpa? La manipolazione dell’aria ha messo fine al privilegio ingenuo goduto dagli esseri umani prima della cesura novecentesca, quello di respirare senza preoccuparsi dell’atmosfera circostante.
Non è un caso che la letteratura abbia guardato a ciò con apprensione. È stato Hermann Broch a intuire che il respiro non sarebbe più stato naturale e a diagnosticare che, mentre l’aria avrebbe finito per diventare un campo di battaglia, la comunità umana sarebbe soffocata dai veleni impiegati contro se stessa. L’atmoterrorismo rivolto all’interno mostrava già caratteri suicidi. Nel suo saggio Il meridiano Paul Celan ha celebrato il respiro, ne ha denunciato lo sterminio, ha raccolto e articolato il rantolo delle vittime e promuovendone il riscatto nella poesia, che ha chiamato «svolta del respiro».

Nessuno avrebbe potuto immaginare questa catastrofe del respiro, provocata da un virus, che sembra però stagliarsi sullo sfondo di un’inquietante continuità. L’aria ha perso da tempo la sua innocenza. E dopo l’effetto serra l’alito dell’esistenza non è più libero, né naturale. La spaesatezza vuol dire anche questo: che l’atmosfera, pervasa da concorrenti microbici, è inabitabile e irrespirabile. S’impone tuttavia la convivenza. È in tale contesto che le nuove scienze scoprono i sistemi immunitari.
Cresce la diffidenza, aumenta il sospetto. A meno di non ricorrere a spazi sottovuoto, occorre vivere in un ambiente contaminato, infettato, avvelenato. L’integrità è un miraggio del passato. Per avere condizioni accettabili l’organismo deve votarsi a una veglia permanente, a una sorveglianza insonne. Virus e batteri sono tra noi. Questi nuovi coinquilini aggressivi invadono anche l’intimità, insidiano l’antica dimora, dove tentato di stanziarsi.
La società dell’igiene chiama a raccolta e l’immunità diventa un’ideologia. La cura ossessiva di sé e la medicalizzazione continua sono lo specchio della chiusura selettiva, del rifiuto convinto alla partecipazione, della conservazione caparbia. I sistemi immunitari sono i servizi di sicurezza specializzati nella protezione e nella difesa contro invisibili invasori, virus migranti che avanzano pretese di occupazione dello stesso spazio biologico. Il miraggio dell’immunità procede di pari passo con la globalizzazione.
Non si tratta solo di metafore allusive. L’edificazione dell’immunità – su cui ha riflettuto non per caso la filosofia più recente, a cominciare da Jacques Derrida – va ben al di là delle categorie biochimiche o mediche e mostra evidenti caratteri politici, giuridici, religiosi, psichici.
Nel globo epidemico la biopolitica, anziché perdere valore e rilevanza, si è potenziata diventando immunopolitica. La catastrofe latente, che attraversa e inquieta i decenni del nuovo secolo, non è un però un semplice rischio, che rientrerebbe nel calcolo governamentale dei rischi. Non si può minimizzarne la portata, sminuirne intensità ed estensione. La catastrofe è ingovernabile e mette allo scoperto tutti i limiti della governance neoliberale. È un’interruzione che segna il corso della storia, scalfisce l’esistenza, cambia habitat, abitudini, abitazione e coabitazione. Ha la tonalità dell’irreversibile e il timbro dell’irreparabile. Nulla sarà più come prima. Il mondo di ieri appare quello di un passato remoto, sfuggito, collassato. Nel presente, impoetico e luttuoso, il respiro è stato sconvolto.
Ma anziché indugiare in un rapporto catastrofico con la catastrofe, occorre considerare l’esigenza che la pandemia globale ha portato alla luce. Non è una lotta di confine quella che si verifica tra virus e anticorpi nell’organismo umano dove il sé e l’estraneo sono invece connessi in un gioco intricato; il sistema immunitario, che interviene con le sue volanti e le sue truppe di sicurezza, rischia di andare troppo a fondo. Nell’intento di eliminare l’altro, il sé finisce per uccidersi o esporsi a malattie autoimmuni. Il sé identitario e sovranista non se la cava bene. Anche perché presume un’integrità che non esiste: al suo interno si verificano sempre microscontri, piccole guerriglie. La cosiddetta «dose infettante» è indispensabile. Per funzionare gli anticorpi devono interpretare la parte degli estranei, senza ostentarsi come fieri autoctoni, e in quella parte – il teatro può aiutare! – riconoscersi stranieri residenti. Questa sarà la salvezza e la salute. La difesa poliziesca non giova neppure qui.
Sarà necessario convivere con questo virus e, forse, con altri. Il che significa coabitare con il resto della vita in ambienti complessi, che si sovrappongono e si incrociano, nel segno di una riscoperta covulnerabilità.
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Non posso respirare – Frei Betto

Sono state le ultime parole di George Floyd: “non posso respirare”. Neanch’io. Non posso respirare in questo Brasile gettato nell’ingovernabilità da militari che minacciano le istituzioni democratiche e esaltano il golpe del 1964, che ha instaurato 21 anni di dittatura; lodano torturatori e miliziani, praticano scambi di favori, un “ prendi là – dammi qua”, con i famigerati politici corrotti dell’ala centrista; imitano in modo ostentato i nazisti; danneggiano simboli ebraici; complottano in riunioni ministeriali per agire in contrasto con la legge; usano parolacce negli incontri ufficiali come se fossero in un covo di gente di malaffare; prendono in giro chi osserva i protocolli di prevenzione della pandemia e scendono in strada indifferenti ai 30.000 morti e alle loro famiglie come per festeggiare una così grande mortalità. “Non posso respirare” quando vedo la democrazia asfissiata; la Polizia Militare che protegge i neofascisti e attacca chi difende la democrazia; il presidente più interessato a rendere disponibili armi e munizioni più che risorse per combattere la pandemia; il Ministero dell’Educazione diretto da un semianalfabeta che minaccia di replicare “la notte dei cristalli” dei nazisti, afferma pubblicamente di odiare i popoli indigeni e propone di imprigionare i “vagabondi” del Supremo Tribunale Federale.
“Non posso respirare” nel vedere i comandanti delle Forze Armate restare in silenzio davanti a un presidente squilibrato che non nasconde di avere come priorità di governo la sicurezza propria e dei suoi figli, tutti sospettati di crimini gravi e di complicità con assassini professionisti. “Non posso respirare” davanti all’inerzia dei partiti cosiddetti progressisti, mentre la società civile si mobilita in potenti manifestazioni di indignazione e per la difesa della democrazia. “Non riesco a respirare” di fronte a questa comunità imprenditoriale che, con l’occhio ai profitti e indifferente alle vittime della pandemia, preme per l’immediata apertura dei suoi affari, mentre i letti d’ospedale sono pieni e le tombe raso terra si moltiplicano nei cimiteri come gengive sdentate di Tanatos.
“Non riesco a respirare” quando, in Brasile e negli Stati Uniti, i cittadini vengono picchiati, arrestati, torturati e assassinati per il “crimine” di essere neri e, quindi, “sospetti”. Mi manca il fiato quando vedo João Pedro, un ragazzo di 14 anni, che perde la vita in casa sua, colpito alla schiena da un fucile mentre gioca con gli amici. O i fattorini dei pacchi che vengono assassinati da agenti di polizia che ci considerano imbecilli nel provare a cercare una spiegazione per la morte di così tanti civili inermi.
“Non riesco a respirare” quando penso che il crimine barbaro commesso contro George Floyd si ripete ogni giorno e rimane impunito per non avere una macchina fotografica in grado di cogliere in flagrante simili omicidi. O nel vedere Trump, dall’alto della sua arroganza, reagire alle proteste anti-razziste minacciando di ridurre al silenzio i manifestanti con l’accusa di terrorismo e con l’intervento dell’esercito. Come posso dare ossigeno alla mia cittadinanza, al mio spirito democratico, alla mia tolleranza, nel vedermi circondato da imitatori del Ku Klux Klan; generali che si improvvisano ministri della salute nel pieno di una tragedia sanitaria; manifestanti che infrangono, impuniti, la legge sulla sicurezza nazionale; e la Borsa che sale, mentre migliaia di bare scendono nelle tombe che accolgono le vittime della pandemia? Ho bisogno di respirare! Non lasciare che soffochino la società civile, i media, la libertà di espressione, l’arte, i diritti civili, il futuro di questa generazione condannata a vivere in questo presente nefasto.
Respiro però quando leggo quello che lo stilista Marc Jacobs ha postato su Instagram dopo che uno dei suoi negozi è stato distrutto dalle proteste a Los Angeles: “Non lasciate mai che vi convincano che i vetri rotti o i saccheggi sono violenza. La fame è violenza. Vivere per strada è violenza. La guerra è violenza. Bombardare la gente è violenza. Il razzismo è violenza. La supremazia bianca è violenza. L’assenza di assistenza sanitaria è violenza. La povertà è violenza. Contaminare le fonti d’acqua per il profitto è violenza. Una proprietà può essere recuperata, le vite no”.
Faccio miei i versi di Cora Coralina: voglio “più speranza nei miei passi che tristezza nelle spalle”.
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Io che posso respirare - Alessandro Ghebreigziabiher
I can’t breatheio non posso respirare. Perché non ci riesco e perché qualcuno ha deciso, giudicato e sentenziato che la mia vita è giunta al termine.
Può accadere così, ora, ma non da un momento all’altro, poiché non v’è alcunché di estemporaneo e singolare, in tale misfatto legalizzato e generalmente tollerato.
I cannot breatheio non posso respirare, sono


state le ultime parole su questa terra di George Floyd.
Ma - ahi loro, tutti, nessuno escluso – non è stato il primo e non sarà di certo l’ultimo a venire ammazzato impunemente, in barba a ogni decenza umana, ancor prima che fondamento giuridico.
I can’t breatheio non posso respirare, è altresì un virale quanto appassionato hashtag del giorno dopo, #icantbreathe, con cui sfogare sdegno e reclamar giustizia sulla digitale lavagna collettiva.
I can’t breatheio non posso respirare - che diventa noi non possiamo subire ancora senza


reagire - è anche l’urlo rabbioso di una porzione di umanità dalla melanina sbagliata solo nel pallido occhio di chi guarda; cittadini come gli altri sulla carta bollata, i quali rovesciano il proprio rancore sullo Stato a cui appartengono, ma che insiste a violentarli istituzionalmente; cosa che peraltro fa ogni santo giorno da quando ne rapì gli antenati oltre oceano.
Tuttavia, I can’t breatheio non posso respirare, è anche l’inascoltato e straziante ultimo appello di un numero orrendamente enorme di nostri simili,


i quali vengono altrettanto assassinati sotto i nostri occhi, in tutti i disumani modi che una perversa immaginazione sia in grado di concepire.
Poiché pure nelle carceri a cielo aperto o posticcio che chiamiamo asetticamente centri campisommersi dai flutti o riversi su ammassi di legno marcio e illuse speranze, al riparo di rifugi che

non riparano affatto e rifugiati tra le grinfie di coloro che promettono riparo - e invece propinano il contrario - vi sono creature innocenti a cui viene tolto l’ultimo respiro; il più delle volte la sola naturale ricchezza sopravvissuta nel corpo.
Per queste e altri miliardi di ragioni, tante quante le vittime programmate che pure in questo momento si vanno ad aggiungere al triste elenco, mi sento in dovere di ricordare che io posso respirare.
can breathe, ovvero io posso respirare, e per questo motivo avverto l’urgenza di non sprecar fiato e al contrario far sentire la mia voce in ogni istante divento testimone, diretto o indiretto, di anche solo una delle sopra citate uccisioni.
A dirla tutta, io che posso respirare ho la possibilità e l’occasione di fare qualcosa ben prima che l’aria innocente venga sottratta dai prepotenti di questo mondo, assassini riconosciuti o camuffati sotto qualsivoglia uniforme.
Io che posso respirare potrei anche rammentarmi di restare in silenzio, talvolta, quando ogni parola è di troppo, e sarebbe già qualcosa.
Perché io che posso respirare ancora, e magari so per certo che domani e anche il dì seguente sarà lo stesso, potrei sfruttare questo tempo per riflettere e studiare una strategia a lungo termine che favorisca sul serio il cambiamento per chi paghi sulla sua pelle la violenza razzista in ogni singolo istante della propria vita; sia che termini bruscamente per l’abuso di un agente come per l’indifferenza di interi continenti.
Le conseguenze di tale improvvisa consapevolezza sarebbero incredibilmente virtuose. Per esempio, io che posso respirare potrei accorgermi finalmente di coloro i quali sono costretti vita natural durante a trattenerlo o anche solo a modularlo con estrema cautela, il respiro, per paura di venire travolti dalla furia del primo passante a portata d’odio.
Coraggio, quindi. Oggi arrestiamo pure i polmoni per unirci alla protesta, ma non dimentichiamo di dare un senso al privilegio della scelta quando il clamore si sarà placato e tutto tornerà sbagliato come prima…

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Immagini, commenti e lezioni dal movimento USA contro razzismo di sistema e violenza della polizia

 

Non chiamiamola “protesta”. Perché quando la protesta di massa si dà parole d’ordine e rivendicazioni comuni, e persegue i suoi obiettivi con pratiche altrettanto di massa, non e’ più una protesta senza “idee”. E’ un movimento che si organizza per realizzare delle rivendicazioni e che comincia a mettere a nudo cosa c’è sotto la punta dell’iceberg del razzismo della polizia, fino a esprimere momenti di lotta radicale contro quel lascito colonialista che è indissolubilmente legato alle origini e allo sviluppo del capitalismo e dello sfruttamento di classe.
La principale rivendicazione del movimento è, ora, “DEFUND THE POLICE” (togliere fondi alla polizia), condivisa dalla gioventù proletaria afroamericana, bianca e ispanica, che a dispetto della pandemia sta sfidando lo Stato americano.
Prima ancora che si chiarisca nei dibattiti pubblici chi sono, per il movimento, gli amici veri amici e quelli  finti (quelli del campo del partito democratico che vorrebbero ridurre il razzismo sistemico ad un problema di “mele marce” nella polizia, e ricondurre il movimento nell’alveo del processo democratico-elettorale), certi chiarimenti fondamentali stanno avvenendo nel vivo della lotta.
Sarebbe complicato ricondurre la richiesta di DEFUND THE POLICE ad una neo-obamiana riforma della polizia. Questa nuova rivendicazione, che nasce proprio dalla delusione per le ‘riforme’ della polizia, è un attacco ad una istituzione chiave dello stato capitalistico statunitense. Un attacco radicale, tant’è che si chiede alla AFL-CIO e agli altri organismi sindacali di espellere i sindacati di polizia dalla “casa comune” dei lavoratori americani.
New York zona di guerra
Ne sono consapevoli i sindacati di polizia, che il 10 giugno, attraverso Ed Mullins, leader di una delle principali organizzazioni del sindacato di polizia, dichiarano alla stampa e a Fox News che la città di New York è zona di guerra, ed invocano un immediato intervento delle istituzioni federali.
La stampa “liberal” e democratica critica questa richiesta sostenendo che la rappresentazione data dai sindacati di polizia su quanto accade a New York non corrisponde alla realtà – le proteste sono pacifiche. Ma la polizia, per mezzo dei suoi sindacati, avverte chiaramente di essere sotto attacco da parte del movimento di massa che richiede il suo smantellamento (sia pure progressivo) in quanto istituzione coercitiva e repressiva dello Stato di classe.
DEFUND THE POLICE non si attarda dietro le illusioni di un nuovo New Deal democratico e riformatore, marcia attraverso il CHAZ
Sebbene nel movimento di massa viva la speranza, e l’illusione, di poter raggiungere i propri obiettivi condizionando con la lotta la contesa elettorale di autunno, esso non sembra paralizzato da questa speranza. E sta cominciando a mettere in atto, attraverso azioni concrete e di massa, la cacciata della polizia dalle città – obiettivo che il movimento si prefigge attraverso la rivendicazione DEFUND THE POLICE. Cancellare i finanziamenti ai dipartimenti di polizia non è semplicemente richiedere una diversa destinazione dei soldi “pubblici”, toglierli alla polizia per destinarli ai “servizi sociali”. Significa immaginare una società dove la polizia sia estromessa dai quartieri proletari e dalle scuole perché la sua unica funzione è quella della repressione. Il messaggio è: le comunità degli sfruttati debbono e possono salvaguardarsi da sé.
A Seattle da alcuni giorni il movimento ha circondato il Dipartimento dipPolizia del distretto orientale. Ha chiuso l’edificio con barricate e ha costretto il corpo di polizia ad evacuare lo stabile. Ha occupato tutta l’area Est intorno, e l’ha dichiarata Capitol Hill Autonomous Zone (CHAZ), “zona libera”, libera dalla polizia.
Decisamente qualcosa di più della riedizione dell’assedio dei no global americani al WTO del 1999 o degli “Occupy Wall Street” del 2011,
Non è solo una azione simbolica; è la messa sotto scacco di un’istituzione chiave dello Stato (non certo solo negli States, ma lì in modo tutto speciale) da parte di un movimento che avverte il bisogno di sfrattarla dalla vita sociale.
L’intero distretto orientale di Seattle è stato dichiarato off limits alle forze di polizia, mettendo in pratica una auto-organizzazione della “società” che dichiara di non aver bisogno delle forze armate dello Stato per tutelarsi. Anzi, sostiene che la vita in sicurezza delle proprie comunità necessità proprio della messa al bando delle forze di polizia.
Si discute su come la società possa organizzare da sé per la “sicurezza” di tutti e di ciascuno. La difesa degli sfruttati afroamericani, bianchi e di ogni colore viene presa in mano da loro stessi, contro chi opera la “sicurezza” (dell’ordine del capitale) contro di loro.
Quindi non è la messa in scacco simbolica (comunque significativa, sia chiaro) delle istituzioni sovranazionali del capitalismo (WTO, G8, banche e borse), è la diretta presa di possesso di una parte di territorio metropolitano che, al di là di quello che pensano i giovani di tutti i colori che animano l’iniziativa, rappresenta una sfida al potere dello Stato. Non una zona autorganizzata nelle periferie desolate, ma una zona auto-organizzata nel cuore della città, costringendo all’inazione uno degli organi di repressione dello Stato del capitale.
La stampa democratica e liberal critica la presa di posizione dei sindacati di polizia che dipingono queste azioni come la creazione di “zone di guerra”, convinti di poter disinnescare dall’interno la “protesta”. In realtà i sindacati della polizia hanno colto la carica di esplosiva pericolosità sociale che questo movimento sta incubando.
E lo Stato di classe, lo stato del capitale?
In che cosa potrà tradursi questo ulteriore passo in avanti del movimento nato dall’assassioni di George Floyd non è facile da prevedere. Ma una cosa è certa: oltre la polizia – attraverso le dichiarazioni dei suoi sindacati – sono lo Stato federale, la Casa Bianca a lanciare l’allarme e dichiarare che questo esperimento va estirpato orasubito. Si tratta di terrorismo all’interno del paese, che richiede azioni militari immediate di risposta.
Trump, infatti, continua ad invocare il dispiegamento dell’esercito per riportare la legge e l’ordine, riprendere possesso delle 6 “zone liberate”  e, con esse, il pieno controllo della città.
Gli Stati Uniti d’America, leader del capitalismo e dello sfruttamento mondiale, per la prima volta nella loro storia, si confrontano con un movimento di massa, di fatto radicale, che pone, inconsapevolmente si dirà (e ci può stare), le premesse per una più generale battaglia, a venire, sulla questione del potere (Nel febbraio e nel novembre 1919 sempre la città di Seattle fu il teatro di potenti scioperi e manifestazioni di solidarietà con la rivoluzione russa; allora, però, la locomotiva era altrove, oggi è qui).
Ci saremmo aspettati che gli apparati statali statunitensi, con il proprio esercito, polizia e corpi di intelligence facessero piazza pulita in un battibaleno. E invece questi stessi apparati sono scossi da acute contraddizioni, e varie istituzioni sfuggono alle direttive del comandante in capo.
Il fatto più clamoroso è la polemica tra la Casa Bianca e i capi del Pentagono sull’impiego dell’esercito per sedare le rivolte. Una polemica che ha prodotto una (parziale) impasse dello Stato ad esercitare la repressione. Sappiamo bene che questo non fermerà la controffensiva del capitale, che potrà essere “legale” e democratica, o anche “illegale”, con le squadracce bianche che abbiamo visto agire nelle città americane durante le prime settimane della pandemia.
Questi scricchiolii cominciano a farsi sentire oltre oceano, e speriamo anche tra le sterminate masse sfruttate dall’imperialismo, in Africa e in Medio Oriente. E la cosa sta complicando maledettamente tutti i piani di azione e di ordine che il capitale USA stava prospettando per uscire dalla crisi: compattare un ampio fronte sociale nazional-popolare contro la Cina e gli “alleati” europei filo-cinesi. Questo movimento si erge anche come un ostacolo insormontabile contro i tentativi della destra trumpista di accorpare i proletari bianchi in un nuovo slancio nazionalista e popolare.
La crisi innescata dal nuovo coronavirus ha accelerato le dinamiche di polarizzazione sociale negli USA. La crisi  economica è precipitata disastrosamente, evidenziando l’oppressione di classe che il trumpismo e l’obamismo avevano tentato di nascondere sotto il tappeto. I giovani bianchi senza riserve e/o certezze hanno deciso di rompere il lock down a dispetto della pandemia. E non perché abbiano raccolto l’invito di Trump a difendere la propria “libertà individuale” sottomettendosi all’imperativo della produzione: il profitto. Tutto al contrario: hanno raccolto l’invito ad unirsi con gli afroamericani nella lotta contro un regime oppressivo e razzista, che colpisce doppiamente gli afroamericani, ma non offre alcuna salvezza nemmeno ai proletari bianchi. Un regime che di fatto è neo-colonialista anche al suo interno, perche’ le genti di colore e le nuove generazioni di latino americani immigrate negli USA subiscono tutti i giorni i meccanismi di un razzismo sistemico e di classe che ne fa carne da macello per i profitti del capitale. Una lezione che gli operai dell’agro-industria e della lavorazione delle carni, prevalentemente latino-americani, stanno imparando attraverso 20 giorni di scioperi e battaglie per la difesa della salute loro e delle famiglie, contro un sistema di produzione che non può essere fermato, costi quel che costi.
Il movimento di lotta contro il razzismo della polizia torna alle origini del razzismo, e rimette in discussione la storia e i suoi segni
Durante queste ultime giornate di lotta abbiamo assistito all’abbattimento delle statue dei mercanti di schiavi e dei generali confederali in tante città degli Stati Uniti. Con una partecipazione, questa volta, davvero di massa (non come il teatrino inscenato a suo tempo con l’abbattimento della statua di Saddam, dai commedianti del Pentagono e della CIA).
Questa azione è stata emulata in tante piazze della Gran Bretagna. Ed è tutt’altro che meramente simbolica. Esprime la convinzione che sotto la punta dell’iceberg della violenza razzista della polizia, c’è un’intera impalcatura politica, sociale ed economica che la riproduce di continuo. E viene da lontano: dal colonialismo storico, appunto. Non basta dunque fare piazza pulita ai vertici della polizia; è necessario riprendere le fila di una lotta radicale contro la società di classe e razzista, che ha prodotto e produce colonialismo e razzismo – schiavitù con catene metalliche e moderna schiavitù salariata -, e continua ad onorare i propri progenitori razzisti.
Viene ridiscussa e rivista la storia con gli occhi degli sfruttati, che si rifiutano di onorare i simboli dello schiavismo e del colonialismo.
Anche Cristoforo Colombo, il mercante di schiavi genovese che Leone XIII voleva beatificare e il cardinale Bagnasco addirittura, se possibile, santificare, il celebre “scopritore” del nuovo mondo, viene preso a bersaglio dalla molto razionale collera del movimento anti-razzista, come espressione di un sistema sociale che, sin dalle sue origini, ha fatto progressi  sulla rapina, sulla violenza, sull’oppressione e sulla più bestiale schiavitù delle popolazioni native e nere da parte di una minoranza di avidi colonizzatori bianchi (non singoli uomini “avventurosi”, ma pedine di ben identificabili stati e centri di interessi bancari e commerciali).
La critica di massa non risparmia nessuno, nemmeno gli “eroici” condottieri delle nazioni democratiche durante il macello del secondo conflitto mondiale imperialista: tutti strumenti di un comune sistema di classe e razzista.
In pochi giorni, questo movimento sta mettendo all’indice l’infame storia scritta dall’ideologia dominante. Churchill non è più “l’eroe” che “ha difeso il mondo libero” (come la propaganda borghese ufficiale pretende farci credere), ma un razzista a capo di uno dei più brutali Stati colonialisti della storia.
I simulacri dell’ideologia capitalista vengono giustamente profanati. Questa iconoclastia del movimento è già ora un’espressione radicale di opposizione al capitalismo mondiale, che le lotte negli USA stanno diffondendo al resto del mondo.
Potranno queste prime espressioni di radicale denuncia del colonialismo, come causa prima del razzismo sistemico che domina nelle cittadelle occidentali dell’imperialismo, rappresentare anche un primo passaggio verso il sostegno delle lotte nei pasi da esso dominati, dall’Africa al Medio Oriente all’estremo Oriente?
Certo governi borghesi e servi del capitale non dormono sonni tranquilli. E non gli sarà facile continuare le manovre di manomissione che Washington, Londra, Parigi, Roma, Berlino e Tokyo hanno potuto condurre “indisturbati” negli ultimi anni, ai danni di tutti gli sfruttati dall’imperialismo.
da qui

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