Quando
Claudette Colvin, una teenager nera di Montgomery, Alabama, è stata arrestata
per non aver ceduto il suo posto su un bus urbano, furono in pochi ad aver dato
peso alla faccenda. Qualche mese dopo, quando Rosa Parks è stata arrestata per
lo stesso motivo, si è attivato un intenso movimento di boicottaggio degli
autobus.
Quando
Seymour Hersh ha rivelato i dettagli del massacro di My Lai, nel 1969, ha dato
il via alle investigazioni ma non a un’azione di massa. Quando, la primavera
dopo, il presidente Nixon annunciò che le truppe statunitensi avevano invaso la
Cambogia, i campus universitari, compreso quello del Kent State, s’infiammarono
in accese proteste.
La parziale
fusione del reattore nucleare in Michigan, nel 1966, ha catturato l’attenzione
dell’opinione pubblica. Dieci anni dopo, nel 1979, lo stesso episodio
sull’isola di Three Mile, ha scatenato manifestazioni contro l’atteggiamento
rialzista di Wall Street rispetto all’energia nucleare. (Nello stesso periodo
usciva uno dei must di Hollywood, “The China Syndrome”. Una coincidenza
inaspettata.)
Quando si
seppe la verità sull’omicidio di Ahmaud Arbery, ucciso dalla polizia in
Georgia, si scatenò un’ondata di indignazione. Ma solo due mesi dopo, quando i
video di George Floyd sono diventati virali, quell’indignazione è cresciuta,
raggiungendo livelli senza precedenti con il Black Lives Matter.
Secondo
il New York Times, le dimostrazioni hanno avuto luogo in 2.000 città,
con migliaia di partecipanti. È probabilmente un eufemismo e non prende nemmeno
in considerazione le manifestazioni in Messico, Gran Bretagna, Australia… Ma
nel frattempo, le leggi contro l’abuso di potere da parte della polizia
aumentano, come forma di disinvestimento dalla polizia e investimento nella
comunità.
Non si può
sapere in anticipo quale motivazione scatenerà il malcontento in modo più
acuto, alimentando i movimenti sociali e le proteste. Ma il semplice fatto che
questo accada riflette un andamento descritto 40 anni fa dall’attivista Bill
Moyer, in un opuscolo intitolato “The Movement Action Plan”. Vale la pena
leggerlo, o rileggerlo, oggi.
Moyer era un
attivista negli anni ’60 e ’70, e lavorava per la Fair Housing con la American
Friends Service Committee, a Chicago. Ha collaborato nell’organizzazione della
Poor People’s Campaign, nel 1968, e poi si è unito al Movement for
a New Society, a Philadelphia, mettendo in pratica tutte le sue
competenze nell’ambito della pace, dell’uguaglianza e dell’ambiente.
Dopo aver
attentamente analizzato i movimenti sociali per anni, Moyer ha individuato una
serie di fasi attraverso le quali sono passati solo i movimenti di successo.
Nella prima fase, che Moyer chiama “Normalità”, le persone non sono pienamente
consapevoli delle problematiche e tendono a dare il loro sostegno a chi detiene
il potere. Passando alla seconda fase, “Fallimento delle istituzioni
ufficiali”, si iniziano a formare i gruppi di opposizione. La fase tre,
“Maturità”, vede emergere un’opposizione pubblica significante rispetto ai
vertici del potere, ma non si tratta ancora di una maggioranza. La quarta fase,
il “Decollo”, corrisponde esattamente al vissuto del Black Lives Matter negli
ultimi tempi.
Nelle fasi
iniziali, problematiche come la violenza della polizia e il militarismo
potrebbero attirare l’attenzione da parte di studiosi, politici e quelle che
Moyer chiama “organizzazioni professionali di opposizione”, ma lui stesso dice
che quei gruppi sono troppo legati alla loro stabilità interna per scatenare un
movimento sociale di massa.
Poi, si
verifica un “evento scatenante”, come la diffusione virale del video di George
Floyd.
“In questi momenti”, scrivono Mark e Paul Engler nel loro libro This Is an Uprising, “i nuovi partecipanti sono travolti dall’entusiasmo della loro prima manifestazione, e i gruppi che si stavano lentamente costituendo si ritrovano immersi in una tempesta, circondati da un’urgente frenesia.”
“In questi momenti”, scrivono Mark e Paul Engler nel loro libro This Is an Uprising, “i nuovi partecipanti sono travolti dall’entusiasmo della loro prima manifestazione, e i gruppi che si stavano lentamente costituendo si ritrovano immersi in una tempesta, circondati da un’urgente frenesia.”
Gli eventi
scatenanti pongono un problema impossibile da ignorare e, come ha spiegato
Moyer, generano “un profondo senso di indignazione morale diffuso tra la
maggior parte dei cittadini. Questi eventi sono una specie di “call-to-action
per le nuove ondate di opposizione a partire da quei gruppi che si sono
lentamente formati nelle fasi precedenti.”
Con JoAnn
McAllister, Marylou Finley e Stevem Soifer, Moyer ha approfondito le sue ricerche,
esponendole nel libro Doing Democracy: the MAP Model for Organizing
Social Movements, pubblicato circa 20 anni fa. L’omicidio di George Floyd è
stato uno dei pochi episodi in cui la brutale violenza della polizia contro gli
afro-americani è stata portata allo scoperto e la fase di “Decollo” descritta
da Moyer rappresenta questo momento in modo piuttosto appropriatamente.
Moyer ha
affermato che durante questa fase, “chi detiene il potere assume una posizione
molto rigida nel difendere le sue politiche e nel criticare i nuovi movimenti,
che giudica radicali, pericolosi, d’ispirazione comunista, violenti e
irresponsabili.”
Comunque
sia, esiste anche il pericolo che gli attivisti, specialmente quelli che sono
stati coinvolti in manifestazioni radicali, tendano a confondere l’attenzione
pubblica con la vittoria. Il fallimento può generare frustrazione e
rassegnazione, o addirittura portare gli attivisti a scelte più “drastiche”,
spesso controproducenti.
Moyer ha
dato vita al “Movement Action Plan” dopo averlo presentato ai membri del
Clamshell Alliance nel 1978. Il “Clams” aveva appena condotto una memorabile
occupazione del sito nucleare nella piccola cittadina di Seabrook, New
Hampshire. Più di 1.400 persone furono arrestate, spedite nelle armerie della National
Guard sparse per il paese e trattenute lì per circa due settimane. La portata
della dimostrazione, la sua impostazione nonviolenta e la posizione
furiosamente pro-nucleare dello stato, hanno attirato una notevole attenzione.
Il movimento ha affermato che l’energia nucleare era troppo rischiosa, costosa
e non necessaria, dal momento che il sole splende alto nel cielo e il vento
soffia ancora.
Come gli
Englers hanno riportato nel loro libro, il movimento No Nukes “ha costruito un
modello innovativo e travolgente: dopo le azioni del Clamshell, iniziarono a
formarsi centinaia di gruppi in tutto il paese. La protesta di Seabrook ha dato
il via ad altre occupazioni, come quella della centrale nucleare del Diablo
Canyon, in California. Tutte le strategie adottate da ciascuna
organizzazione – l’affinità tra i suoi membri, i comitati, la condivisione
delle decisioni e i blocchi militanti nonviolenti – potrebbero costituire un
unico e influente modello per condurre l’azione negli Stati Uniti.”
Come ha poi
scritto, Moyer rimase “scioccato quando gli attivisti di Clamshell si arresero,
abbattuti e depressi, convinti che i loro sforzi erano stati del tutto inutili”
perché gli obiettivi a breve termine non erano stati ancora raggiunti.
La fase
successiva al “Decollo”, nella MAP di Moyer è chiamata “Percezione del
Fallimento”. È un momento in cui gli attivisti che hanno profondamente compreso
il problema in ballo, inclusa “l’agonizzante sofferenza delle vittime” e la
complicità tra quelli che detengono il potere, sprofondano nella disperazione
quando il cambiamento non avviene nell’immediato. Moyer vuole far capire loro
che stanno vincendo anche se non se ne rendono conto, e che non devono mollare
la presa.
È a questo
punto che emerge un altro elemento importante dell’analisi di Moyer. Gli attivisti possono ricoprire quattro ruoli, ciascuno dei quali è fondamentale
per raggiungere un risultato: il cittadino, il ribelle, l’agente di cambiamento
e il riformista. È possibile assumere questi ruoli in maniera efficace o meno.
Per esempio, agenti di cambiamento inefficaci potrebbero avanzare proposte
troppo tiepide o, al contrario, troppo ardite. I riformisti nel mondo delle
“organizzazioni professionali di opposizione” possono vedere nei ribelli un
problema, esattamente come in chi detiene il potere, e cercare di mantenere il
controllo sulle dinamiche del movimento. I cittadini possono essere un po’
ingenui circa la portata delle forze di resistenza al cambiamento. E i ribelli
possono essere così rigidi nel ruolo che hanno deciso di assumere che rischiano
di ostacolare il processo a cui hanno dato essi stessi inizio. Quelli che Moyer
chiama i “ribelli negativi” potrebbero anche vedere nel crescente supporto alle
attività del movimento un indicatore di eccessiva conformità allo status quo,
piuttosto che una prova del suo progresso.
Quando i
movimenti passano dalla fase di “Normalità” a quella di “Successo” e di
“Continua Battaglia”, la relazione tra i vari ruoli si inverte. Per esempio,
nessuno presterà troppa attenzione agli agenti di cambiamento prima della fase
di decollo, ma una volta che i ribelli abbiano attirato l’interesse dei vertici
del potere e del pubblico, la loro funzione acquisisce tutt’altro significato.
Chiaramente, alcune persone sono più “flessibili”, mentre altre restano ferme
in un unico ruolo.
Non è
possibile non riscontrare qualche cavillo nel progetto di Moyer, anche se si
tratta di piccolezze. La fase sei è quella che raggiunge, secondo lui, “la
maggior parte dell’opinione pubblica”. È vero che oggi a governare è la
maggioranza, ma quando la minoranza ha ancora una certa rilevanza ai vertici
del potere, come avviene nel nostro sistema elettorale intriso dalle dinamiche
economiche, i movimenti non possono contare esclusivamente sul supporto della
prima.
Nonostante
questo, vale ancora la pena prendere in considerazione il consiglio di Moyer
sulla fase sei. Le forze al potere potrebbero palesarsi in modo negativo e gli
attivisti devono essere pronti a raggiungere quante più persone possibile per
attivare delle campagne strategiche che indeboliscano quelle forze e
demoliscano status quo, intrinsecamente ingiusto. Le proteste nonviolente
possono comunque essere efficaci, ma non si può fare affidamento esclusivamente
su di loro come principali fonti del cambiamento.
È
interessante il riferimento di Moyer agli eventi “ri-scatenanti”, che definisce
come una sorta di “replay della fase di decollo.” È un
concetto che ben si adatta alle proteste del Black Lives Matter. Il fatto che
le comunità nere abbiano già vissuto episodi del genere, sviluppando nel tempo
una strategia per attuare il cambiamento, è una delle ragioni per cui questa
volta il movimento sta progredendo così rapidamente, passando velocemente dalla
fase quattro alla sei.
La protesta
non è il movimento. Per avere successo, i movimenti hanno bisogno di studio,
allenamento, organizzazione, strategie di comunicazione, risorse finanziarie e
umane, e la forza di volontà per procedere anche di fronte a imprevisti,
repressioni e contraccolpi. In ogni caso, senza la pressione generata dalle
proteste, i movimenti rischierebbero di rimanere immobili quando, in periodi di
crisi come quello che stiamo vivendo, è necessaria un’azione più forte e
radicale.
Nessun commento:
Posta un commento