martedì 30 giugno 2020

Non si può sapere in anticipo quando emergeranno i nuovi movimenti, ma una cosa è certa: stanno già percorrendo la strada verso il successo - Arnie Alpert



Quando Claudette Colvin, una teenager nera di Montgomery, Alabama, è stata arrestata per non aver ceduto il suo posto su un bus urbano, furono in pochi ad aver dato peso alla faccenda. Qualche mese dopo, quando Rosa Parks è stata arrestata per lo stesso motivo, si è attivato un intenso movimento di boicottaggio degli autobus.
Quando Seymour Hersh ha rivelato i dettagli del massacro di My Lai, nel 1969, ha dato il via alle investigazioni ma non a un’azione di massa. Quando, la primavera dopo, il presidente Nixon annunciò che le truppe statunitensi avevano invaso la Cambogia, i campus universitari, compreso quello del Kent State, s’infiammarono in accese proteste.
La parziale fusione del reattore nucleare in Michigan, nel 1966, ha catturato l’attenzione dell’opinione pubblica. Dieci anni dopo, nel 1979, lo stesso episodio sull’isola di Three Mile, ha scatenato manifestazioni contro l’atteggiamento rialzista di Wall Street rispetto all’energia nucleare. (Nello stesso periodo usciva uno dei must di Hollywood, “The China Syndrome”. Una coincidenza inaspettata.)
Quando si seppe la verità sull’omicidio di Ahmaud Arbery, ucciso dalla polizia in Georgia, si scatenò un’ondata di indignazione. Ma solo due mesi dopo, quando i video di George Floyd sono diventati virali, quell’indignazione è cresciuta, raggiungendo livelli senza precedenti con il Black Lives Matter.
Secondo il New York Times, le dimostrazioni hanno avuto luogo in 2.000 città, con migliaia di partecipanti. È probabilmente un eufemismo e non prende nemmeno in considerazione le manifestazioni in Messico, Gran Bretagna, Australia… Ma nel frattempo, le leggi contro l’abuso di potere da parte della polizia aumentano, come forma di disinvestimento dalla polizia e investimento nella comunità.
Non si può sapere in anticipo quale motivazione scatenerà il malcontento in modo più acuto, alimentando i movimenti sociali e le proteste. Ma il semplice fatto che questo accada riflette un andamento descritto 40 anni fa dall’attivista Bill Moyer, in un opuscolo intitolato “The Movement Action Plan”. Vale la pena leggerlo, o rileggerlo, oggi.
Moyer era un attivista negli anni ’60 e ’70, e lavorava per la Fair Housing con la American Friends Service Committee, a Chicago. Ha collaborato nell’organizzazione della Poor People’s Campaign, nel 1968, e poi si è unito al Movement for a New Society, a Philadelphia, mettendo in pratica tutte le sue competenze nell’ambito della pace, dell’uguaglianza e dell’ambiente.
Dopo aver attentamente analizzato i movimenti sociali per anni, Moyer ha individuato una serie di fasi attraverso le quali sono passati solo i movimenti di successo. Nella prima fase, che Moyer chiama “Normalità”, le persone non sono pienamente consapevoli delle problematiche e tendono a dare il loro sostegno a chi detiene il potere. Passando alla seconda fase, “Fallimento delle istituzioni ufficiali”, si iniziano a formare i gruppi di opposizione. La fase tre, “Maturità”, vede emergere un’opposizione pubblica significante rispetto ai vertici del potere, ma non si tratta ancora di una maggioranza. La quarta fase, il “Decollo”, corrisponde esattamente al vissuto del Black Lives Matter negli ultimi tempi.



Nelle fasi iniziali, problematiche come la violenza della polizia e il militarismo potrebbero attirare l’attenzione da parte di studiosi, politici e quelle che Moyer chiama “organizzazioni professionali di opposizione”, ma lui stesso dice che quei gruppi sono troppo legati alla loro stabilità interna per scatenare un movimento sociale di massa.
Poi, si verifica un “evento scatenante”, come la diffusione virale del video di George Floyd.
“In questi momenti”, scrivono Mark e Paul Engler nel loro libro This Is an Uprising, “i nuovi partecipanti sono travolti dall’entusiasmo della loro prima manifestazione, e i gruppi che si stavano lentamente costituendo si ritrovano immersi in una tempesta, circondati da un’urgente frenesia.”
Gli eventi scatenanti pongono un problema impossibile da ignorare e, come ha spiegato Moyer,  generano “un profondo senso di indignazione morale diffuso tra la maggior parte dei cittadini. Questi eventi sono una specie di “call-to-action per le nuove ondate di opposizione a partire da quei gruppi che si sono lentamente formati nelle fasi precedenti.”
Con JoAnn McAllister, Marylou Finley e Stevem Soifer, Moyer ha approfondito le sue ricerche, esponendole nel libro Doing Democracy: the MAP Model for Organizing Social Movements, pubblicato circa 20 anni fa. L’omicidio di George Floyd è stato uno dei pochi episodi in cui la brutale violenza della polizia contro gli afro-americani è stata portata allo scoperto e la fase di “Decollo” descritta da Moyer  rappresenta questo momento in modo piuttosto appropriatamente.
Moyer ha affermato che durante questa fase, “chi detiene il potere assume una posizione molto rigida nel difendere le sue politiche e nel criticare i nuovi movimenti, che giudica radicali, pericolosi, d’ispirazione comunista, violenti e irresponsabili.”
Comunque sia, esiste anche il pericolo che gli attivisti, specialmente quelli che sono stati coinvolti in manifestazioni radicali, tendano a confondere l’attenzione pubblica con la vittoria. Il fallimento può generare frustrazione e rassegnazione, o addirittura portare gli attivisti a scelte più “drastiche”, spesso controproducenti.
Moyer ha dato vita al “Movement Action Plan” dopo averlo presentato ai membri del Clamshell Alliance nel 1978. Il “Clams” aveva appena condotto una memorabile occupazione del sito nucleare nella piccola cittadina di Seabrook, New Hampshire. Più di 1.400 persone furono arrestate, spedite nelle armerie della National Guard sparse per il paese e trattenute lì per circa due settimane. La portata della dimostrazione, la sua impostazione nonviolenta e la posizione furiosamente pro-nucleare dello stato, hanno attirato una notevole attenzione. Il movimento ha affermato che l’energia nucleare era troppo rischiosa, costosa e non necessaria, dal momento che il sole splende alto nel cielo e il vento soffia ancora.
Come gli Englers hanno riportato nel loro libro, il movimento No Nukes “ha costruito un modello innovativo e travolgente: dopo le azioni del Clamshell, iniziarono a formarsi centinaia di gruppi in tutto il paese. La protesta di Seabrook ha dato il via ad altre occupazioni, come quella della centrale nucleare del Diablo Canyon, in California.  Tutte le strategie adottate da ciascuna organizzazione – l’affinità tra i suoi membri, i comitati, la condivisione delle decisioni e i blocchi militanti nonviolenti – potrebbero costituire un unico e influente modello per condurre l’azione negli Stati Uniti.”
Come ha poi scritto, Moyer rimase “scioccato quando gli attivisti di Clamshell si arresero, abbattuti e depressi, convinti che i loro sforzi erano stati del tutto inutili” perché gli obiettivi a breve termine non erano stati ancora raggiunti.
La fase successiva al “Decollo”, nella MAP di Moyer è chiamata “Percezione del Fallimento”. È un momento in cui gli attivisti che hanno profondamente compreso il problema in ballo, inclusa “l’agonizzante sofferenza delle vittime” e la complicità tra quelli che detengono il potere, sprofondano nella disperazione quando il cambiamento non avviene nell’immediato. Moyer vuole far capire loro che stanno vincendo anche se non se ne rendono conto, e che non devono mollare la presa.
È a questo punto che emerge un altro elemento importante dell’analisi di Moyer. Gli attivisti possono ricoprire quattro ruoli, ciascuno dei quali è fondamentale per raggiungere un risultato: il cittadino, il ribelle, l’agente di cambiamento e il riformista. È possibile assumere questi ruoli in maniera efficace o meno. Per esempio, agenti di cambiamento inefficaci potrebbero avanzare proposte troppo tiepide o, al contrario, troppo ardite. I riformisti nel mondo delle “organizzazioni professionali di opposizione” possono vedere nei ribelli un problema, esattamente come in chi detiene il potere, e cercare di mantenere il controllo sulle dinamiche del movimento. I cittadini possono essere un po’ ingenui circa la portata delle forze di resistenza al cambiamento. E i ribelli possono essere così rigidi nel ruolo che hanno deciso di assumere che rischiano di ostacolare il processo a cui hanno dato essi stessi inizio. Quelli che Moyer chiama i “ribelli negativi” potrebbero anche vedere nel crescente supporto alle attività del movimento un indicatore di eccessiva conformità allo status quo, piuttosto che una prova del suo progresso.
Quando i movimenti passano dalla fase di “Normalità” a quella di “Successo” e di “Continua Battaglia”, la relazione tra i vari ruoli si inverte. Per esempio, nessuno presterà troppa attenzione agli agenti di cambiamento prima della fase di decollo, ma una volta che i ribelli abbiano attirato l’interesse dei vertici del potere e del pubblico, la loro funzione acquisisce tutt’altro significato. Chiaramente, alcune persone sono più “flessibili”, mentre altre restano ferme in un unico ruolo.
Non è possibile non riscontrare qualche cavillo nel progetto di Moyer, anche se si tratta di piccolezze. La fase sei è quella che raggiunge, secondo lui, “la maggior parte dell’opinione pubblica”. È vero che oggi a governare è la maggioranza, ma quando la minoranza ha ancora una certa rilevanza ai vertici del potere, come avviene nel nostro sistema elettorale intriso dalle dinamiche economiche, i movimenti non possono contare esclusivamente sul supporto della prima.
Nonostante questo, vale ancora la pena prendere in considerazione il consiglio di Moyer sulla fase sei. Le forze al potere potrebbero palesarsi in modo negativo e gli attivisti devono essere pronti a raggiungere quante più persone possibile per attivare delle campagne strategiche che indeboliscano quelle forze e demoliscano status quo, intrinsecamente ingiusto. Le proteste nonviolente possono comunque essere efficaci, ma non si può fare affidamento esclusivamente su di loro come principali fonti del cambiamento.
È interessante il riferimento di Moyer agli eventi “ri-scatenanti”, che definisce come  una sorta di “replay della fase di decollo.” È un concetto che ben si adatta alle proteste del Black Lives Matter. Il fatto che le comunità nere abbiano già vissuto episodi del genere, sviluppando nel tempo una strategia per attuare il cambiamento, è una delle ragioni per cui questa volta il movimento sta progredendo così rapidamente, passando velocemente dalla fase quattro alla sei.
La protesta non è il movimento. Per avere successo, i movimenti hanno bisogno di studio, allenamento, organizzazione, strategie di comunicazione, risorse finanziarie e umane, e la forza di volontà per procedere anche di fronte a imprevisti, repressioni e contraccolpi. In ogni caso, senza la pressione generata dalle proteste, i movimenti rischierebbero di rimanere immobili quando, in periodi di crisi come quello che stiamo vivendo, è necessaria un’azione più forte e radicale.

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