domenica 7 giugno 2020

Il diritto universale al respiro - Achille Mbembe



Se il Covid-19 è l’espressione spettacolare dell’impasse planetaria nella quale si trova l’umanità allora ci toccherà ricostituire una Terra abitabile perché offra a tutti la possibilità di una vita respirabile, né più né meno. Saremo capaci di riscoprire la nostra appartenenza a una medesima specie e il nostro indivisibile legame con l’insieme del vivente? Questa è forse la domanda giusta, la domanda che va posta, l’ultima, prima che la porta si chiuda una volta per tutte.
Alcuni evocano sin da ora il «dopo-Covid». Perché no? Per la maggior parte di noi, tuttavia, soprattutto in quelle regioni del mondo dove i sistemi sanitari sono stati devastati da anni di abbandono organizzato – il peggio deve ancora venire. In assenza di letti negli ospedali, di respiratori, di test capillari, di mascherine, di disinfettanti  e di altri dispositivi di messa in quarantena per chi è già stato contagiato, sfortunatamente numerosi e numerose saranno coloro che non passeranno per la cruna dell’ago.

La politica del vivente
Qualche settimana fa, di fronte al tumulto e allo sgomento che si annunciavano, alcuni di noi avevano tentato di descrivere questi nostri tempi. Parlavamo di tempi senza garanzie e senza promesse, in un mondo sempre più dominato dall’ossessione della propria fine. Ma aggiungevamo che si tratta anche di un tempo caratterizzato da «una distribuzione diseguale della vulnerabilità» e da  «nuovi e rovinosi compromessi con forme di violenza a un tempo futuriste e arcaiche»[1] Per dirla tutta un’era di brutalismo.
Al di là delle sue origini nel movimento architettonico della metà del XX secolo abbiamo tentato di definire il brutalismo come il processo contemporaneo «grazie al quale il potere in quanto forza geomorfologica si costituisce, si esprime, si configura, agisce e si riproduce» grazie a  «frackinge fissurazione», grazie al «travaso degli inquinanti in mare», alla «trivellazione«, allo «scarico delle sostanze organiche» (p.11) , in breve grazie a quello che chiamavamo «lo svuotamento» (pp. 9-11).
Sottolineavamo la dimensione molecolare chimica, se non radioattiva di questo processo: «la tossicità, vale a dire la moltiplicazione delle sostanze chimiche e dei rifiuti tossici -non è forse questa una dimensione strutturale del presente?  Queste sostanze, questi rifiuti non attaccano solamente la natura e l’ambiente (l’aria, i suoli, le acque, le catene alimentari) ma anche i corpi esposti al piombo, al fosforo, al mercurio, al berillio ai fluidi refrigeranti.» (p.10)
Facevamo certamente riferimento ai «corpi viventi esposti alla spossatezza fisica e a ogni sorta di rischio biologico a volte invisibile». Tuttavia non citavamo i virus (mammiferi di ogni sorta ne trasportano fino a 600.000) se non metaforicamente nel capitolo consacrato ai «corpi frontiera». Ma per il resto, è proprio la politica del vivente nel suo insieme che ancora una volta viene messa in discussione. E il coronavirus è evidentemente il nome di questa politica.

L’umanità errante
In questi tempi di colore viola – se immaginiamo che il tratto distintivo di ogni tempo possa essere il suo colore – dovremmo forse cominciare con onorare  tutti quelli e quelle che ci hanno sinora lasciato. Una volta attraversata la barriera  degli alveoli polmonari il virus si è  infiltrato nella loro circolazione sanguigna. E ha successivamente attaccato organi e tessuti iniziando dai più fragili.
Segue un’infiammazione sistemica. Quelli e quelle che prima dell’attacco avevano già problemi cardiovascolari, neurologici, metabolici o soffrivano di patologie legate all’inquinamento hanno subito gli assalti più furiosi. Col respiro corto e senza respiratori, molti se ne sono andati alla chetichella, senza nessuna possibilità di  dire addio.  I loro resti sono stati subito inceneriti o seppelliti. In solitudine. Bisognava – ci è stato detto – sbarazzarsene il più presto possibile.
Ma già che ci siamo, perché non aggiungere a queste morti tutte le altre – e se ne contano a decine di milioni – le vittime dell’AIDS, del colera, del paludismo, dell’Ebola, del Nipah,  della febbre di Lasse, della febbre gialla, dello Zika, del chikunguya,  di tumori di ogni sorta, di epizootie di altre pandemie animali come la peste suina o la febbre catarrale ovina e di tutte le epidemie immaginabili e inimmaginabili che da secoli devastano popoli senza nome in paesi lontani senza contare le sostanze esplosive e altre guerre di predazione e di occupazione che mutilano e decimano decine di migliaia di esseri umani e ne gettano altre centinaia di migliaia sulla via dell’esodo, umanità errante.
Come dimenticare d’altronde la deforestazione intensiva, i grandi incendi, la distruzione degli ecosistemi, l’azione nefasta delle imprese inquinanti distruttrici della biodiversità e oggi – dato che  il confino fa ormai parte della nostra condizione – come non ricordare le moltitudini che popolano le prigioni del mondo, e  questi altri la cui vita si è sbriciolata di fronte ai muri e ad altre tecniche di frontierizzazione, che si tratti degli innumerevoli check pointsdisseminati su molti territori o dei mari, degli oceani dei deserti  e di tutto il resto?
Ieri e l’altro ieri non si parlava che di accelerazione di reti tentacolari, di connessioni che chiudevano l’insieme del globo nell’inesorabile meccanica della velocità e della dematerializzazione Si supponeva che fosse l’ambito digitale il contesto a partire dal quale pensare tanto il divenire degli insiemi umani e della produzione materiale quanto quello del vivente. Una logica ubiqua – supportata della circolazione ad alta velocità e della memoria aumentata – per cui sarebbe bastato «trasferire su un doppio digitale l’insieme delle competenze del vivente»[2]e il gioco era fatto. Stadio supremo della nostra breve storia sulla terra, l’umano avrebbe potuto essere finalmente trasformato in un dispositivo plastico. La via era apertaper realizzare così il vecchio progetto di un’ estensione infinita del mercato.
Nel cuore di quest’ubriacatura generale, è proprio questa corsa dionisiaca, descritta per altro in Brutalisme, che il virus viene a frenare senza tuttavia interromperla definitivamente, nella misura in cui l’ impianto complessivo resta immutato. L’ora è tuttavia sicuramente quella in cui si va verso il soffocamento, la putrefazione l’ingombro e la cremazione dei cadaveri, in una parola verso la risurrezione di corpi vestiti per l’occasione della loro più bella maschera funeraria e virale. Per gli umani la Terra  sarebbe dunque in procinto di trasformarsi in una ruota che mormora, in una necropoli universale? Fino a che punto giungerà il passaggio dei batteri dagli animali selvatici agli umani se di fatto, ogni 20 anni, circa 100 milioni di foreste tropicali – polmoni della terra – vengono tagliati?
Dall’inizio della rivoluzione industriale in occidente  circa l’85% delle delle zone umide sono state prosciugate. La distruzione degli habitat prosegue senza tregua e popolazioni umane in stato di salute precaria sono esposte quasi ogni giorno a nuovi agenti patogeni. Prima della colonizzazione gli animali selvatici che sono la principale riserva patogena, abitavano ambienti nei quali vivevano solo popolazioni isolate. E’ il caso per esempio degli ultimi paesi che vivono relativamente isolati come quelli del Bacino del Congo.
Oggi le comunità che vivevano e dipendevano dalle risorse naturali di questi territori sono state espropriate. Messe alla porta con la svendita delle terre a regimi tirannici e corrotti a con la concessione di vaste proprietà demaniali a consorzi agroalimentari esse non riescono più e mantenere le forme di autonomia alimentare ed energetica che avevano  permesso loro per secoli di vivere  in equilibrio con la foresta

Non abbiamo mai imparato a morire
In queste condizioni un conto è preoccuparsi della morte degli altri da lontano. Un’altra è prendere improvvisamente coscienza della possibilità di putrefarsi, di dover dove vivere nella prossimità della propria di morte, di contemplarla in quanto possibilità reale. È questo, almeno in parte, il genere di terrore che suscita il confino a molti, l’obbligo di dover infine rispondere della propria vita e del proprio nome.
Rispondere qui ed ora della nostra vita su questa Terra con altri (virus compresi) e del nostro nome in comune, è  pur questa l’ingiunzione che questo momento patogeno rivolge alla specie umana.  Momento patogeno ma anche momento catabolico per eccellenza, quello della decomposizione dei corpi, della selezione e dell’eliminazione di ogni sorta di scarti-d’umano, una «grande separazione» e un grande confino, come risposta alla propagazione sconvolgente del virus e come conseguenza della digitalizzazione pervasiva del mondo
Per quanto si cerchi di liberarsene tutto ci riporta finalmente al corpo. Avremo tentato di innestarlo su altri supporti, di farne un corpo-oggetto, un corpo-machina, un corpo digitale, un corpo ontofanico. Esso torna a noi sotto la forma stupefacente di un’enorme mascella, veicolo di contaminazione, vettore di pollini, di spore, di muffa.
Sapere che non siamo soli in questa prova o che potremmo essere in molti a dover sloggiare non può che provocare un vano conforto. Perché non abbiamo mai imparato a vivere insieme al vivente, a preoccuparci veramente dei danni causati dall’uomo ai polmoni della terra e al suo organismo. Di fatto non abbiamo mai imparato a morire. Con l’avvento del Nuovo Mondo e, qualche secolo più tardi, con l’apparizione delle «razze industrializzate», abbiamo fodnamentalmente  scelto – con una sorta di vicariato ontologico – di fare dell’esistenza stessa un grande pasto sacrificale.
Orbene tra poco non sarà più possibile delegare la morte ad altri. L’altro non potrà più morire al nostro posto. Saremo condannati ad assumerci senza mediazioni il nostro proprio trapasso. Non solo:  di possibilità di dirsi addio ce ne saranno sempre meno.  L’ora dell’autofagia si avvicina, e con essa la fine della comunità poiché non vi è comunità degna di questo nome là dove dirsi addio, vale a dire celebrare la memoria del vivente, non è più possibile.
La comunità o piuttosto ciò che è in-comunenon poggia semplicemente sulla possibilità di dirsi arrivederci,auspicando e impegnandosi ad onorare un successivo appuntamento personale  con qualcuno. Ciò che è in-comune poggia anche sulla possibilità di una condivisione senza condizioni da riscoprire ogni volta in qualcosa di assolutamente intrinseco, vale a dire di incalcolabile, senza rendiconto, senza condizioni e dunque senza prezzo.

Il digitale, nuovo cratere scavato nella terra da un’esplosione
Il cielo evidentemente non smette di oscurarsi. Costretta nella morsa dell’ingiustizia e delle inuguaglianze, una buona parte dell’umanità è minacciata da questo grande soffocamento e dal crescente sentimento secondo cui il nostro mondo vive uno stato di sospensione di pena. Se in queste condizioni un giorno ci sarà un day after non potrà più essere alle spese di alcuni, e sempre degli stessi, come nella Vecchia economia.Dovrà necessariamente valere per tutti gli abitanti della terra senza distinzione di specie, di razza, di sesso, di cittadinanza, di religione  o di altri criteri di differenziazione, In altri termini non potrà avvenire che al prezzo di una gigantesca svolta, frutto di una immaginazione radicale.
Una nuova mano di intonaco non basterà. Nel mezzo del cratere tutto sarà da inventare a partire dalla dimensione sociale. Perché quando lavorare, approvvigionarsi, informarsi, mantenere il contatto, nutrire e conservare i legami, parlarsi e scambiare, bere insieme, celebrare il culto o organizzare funerali non possono più aver luogo se non per interposto schermo, è ora di rendersi conto che siamo circondati da ogni parte da cerchi di fuoco. In ampia misura la dimensione digitale è il nuovo buco scavato nella terra dell’esplosione. Al contempo trincea,viscere e paesaggio lunare è il bunker dove l’uomo e la donna isolati sono invitati ad accucciarsi.
Grazie alla dimensione digitale il corpo in carne ed ossa, il corpo fisico e mortale verrà sgravato del proprio peso e della propria inerzia. Alla fine di questa trasfigurazione si potrà finalmente intraprendere il viaggio attraverso lo specchio sottratti alla corruzione biologica e restituiti all’universo sintetico dei flussi È un’illusione perché non vi può essere umanità senza corponé libertà senza società o alle spese della biosfera.

Guerra contro il vivente
Bisogna tuttavia ripartire, e, per i bisogni della nostra sopravvivenza, è imperativo ridare a tutto il vivente (biosfera compresa) lo spazio e l’energia di cui hanno bisogno. Nel suo versante notturno la modernità sarà stata dall’inizio alla fine un’interminabile guerra condotta contro il vivente. Ed è lungi dall’essere terminata. Il dominio digitale costituisce una delle modalità di questa guerra. Essa conduce senza scampo all’impoverimento del mondo e alla desertificazione di grandi parti del pianeta
Bisogna temere che nel day after, ben lungi dal fare santuario di tutte le specie viventi, il mondo torni sfortunatamente a un nuovo periodo di tensioni e di brutalità. Sul piano geopolitico, la logica della forza e della potenza potrebbe continuare a prevalere. In assenza di infrastrutture comuni si accentuerà una partizione feroce del globo e le linee di segmentazione si intensificheranno. Molti Stati penseranno a rafforzare le frontiere nella speranza di proteggersi da ciò che viene da fuori. Cercheranno anche di occultare  quella violenza costitutiva che scaricheranno come sempre abitudine sui più vulnerabili. Vivere dietro uno schermo e nelle enclavi protette da imprese di sicurezza private diventerà la norma.
In Africa, in particolare, e in molte regioni del Sud del mondo, l’estrazione energetica, le forme di espansione agronomica e la predazione sulla base della svendita delle terre e della distruzione delle foreste continueranno, dato che sono necessarie all’alimentazione e al raffreddamento dei supercalcolatori . L’approvigionamento e la distribuzione delle risorse e dell’energia necessarie all’infrastruttura della digitalizzazione planetaria si faranno a spese di una ulteriore grande limitazione della mobilità umana. Mantenere il mondo a distanza diventerà la norma, per espellere rischi di ogni sorta. Ma poiché non è legata alla nostra precarietà ecologica, questa visione catabolica del mondo ispirata alle teorie dell’immunizzazione e del contagio non ci permetteranno di uscire dall’impasse planetaria nella quale ci troviamo.

Il diritto fondamentale all’esistenza
Delle guerre condotte contro il vivente si può dire che la loro prima proprietà sarà stata di togliere il respiro.
In quanto ostacolo di fondo al respiro e alla rianimazione dei corpi e dei tessuti umani il Covid-19 si inscrive nella stessa traiettoria.  In effetti in che cosa consiste la respirazione se non nell’assorbimento di ossigeno e nell’espulsione di anidride carbonica o ancora in uno scambio dinamico tra sangue e tessuti? Ma per come sta procedendo la vita sulla Terra e considerando ciò che resta della ricchezza del pianeta vien da chiedersi se non ci avviciniamo a un’epoca in cui ci sarà più anidride carbonica da inalare che ossigeno.
Prima di questo virus l’umanità era già minacciata di soffocamento. Se guerra ci deve essere, dev’essere non contro un virus in particolare ma contro tutto ciò che condanna la maggior parte dell’umanità all’arresto prematuro del respiro, contro tutto ciò tutto ciò che attacca le vie respiratorie, contro tutto ciò che nella lunga durata del capitalismo avrà confinato ampi segmenti della popolazione  e razze intere a una respirazione difficile, affannata, a una vita pesante. Ma per uscirne bisognerà iniziare a comprendere la respirazione al di là dei suoi aspetti biologici, come ciò che ci accomuna e che per definizione, sfugge a ogni calcolo.  In tal modo stiamo evocando un diritto universale al respiro.
Nella misura in cui è al contempo extra-territoriale e suolo comune il diritto universale al respiro non è quantificabile. Non sarebbe possibile appropriarsene. E’ un diritto in termini di universalità non solo di ogni membro della specie umana ma del vivente nel suo insieme. Bisogna dunque comprenderlo come un diritto fondamentale dell’esistenza. In quanto tale non può essere confiscato e sfugge di fatto a ogni sovranità poiché ricapitola in sé il principio sovrano. Ed è in ogni caso  un diritto originario d’abitazionedella Terra,un diritto proprio alla comunità universale degli abitanti della terra umani e non[3].

Coda
Il processo è stato intentato mille volte. Si possono recitare a occhi chiusi i principali capi d’accusa. Che si tratti della distruzione della biosfera, della messa in quarantena dello spirito da parte della tecnoscienza, della disintegrazione delle resistenze, degli attacchi ripetuti contro la ragione, del rimbecillimento degli spiriti, del trionfo dei determinismi  (genetici, neuronali, biologici, ambientali), i pericoli per l’umanità sono sempre più esistenziali.
Di tutti questi pericoli il più grande è costituito dalla possibilità che ogni forma di vita venga resa impossibile. Tra coloro che sognano di caricare digitalmente la nostra coscienza su delle macchine e quelli che sono persuasi che la prossima evoluzione della specie consista nella liberazione dalla nostra matrice biologica, lo scarto è insignificante. La tentazione eugenetica non è scomparsa, al contrario, è alla base dei progressi recenti delle scienze e della tecnologia.
Su questi antefatti sopravviene questo brusco colpo d’arresto, non della storia, ma di qualcosa che è ancora più difficile da cogliere. In quanto forzata questa sospensione non dipende dalla nostra volontà. Da più punti di vista  è a un tempo imprevista e imprevedibile. Ma è di una sospensione volontaria, consapevole pienamente accettata di cui abbiamo bisogno, in mancanza della quale non ci sarà un futuro. Non ci sarà che una serie ininterrotta di eventi imprevisti.
Se, di fatto, il Covid-19 è l’espressione spettacolare dell’impasto planetario nel quale l’umanità si trova allora la sfida è quella di ricomporre una terra abitabile che offra a tutti la possibilità di una vita rispettabile. Né più né meno. Si tratta dunque di ripensare le istanze del mondo per costruire nuovi territori. L’umanità e la biosfera sono interdipendenti. Non vi è avvenire per questa senza quella.
Saremo capaci di riscoprire la nostra appartenenza alla stessa specie, il nostro inscindibile legame con l’insieme del vivente? Questa è forse la domanda giusta, l’ultima prima che non si chiuda una volta per tutte la porta.


[1]Achille Mbembe et Felwine Sarr, Politique des temps, Philippe Rey, 2019, p. 8-9
[2]Alexandre Friederich, H+. Vers une civilisation 0.0, Editions Allia, 2020, p. 50
[3]  Sarah Vanuxem, La propriété de la Terre, Wildproject, 2018 ; et Marin Schaffner, Un sol commun. Lutter, habiter, penser, Wildproject, 2019

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