martedì 2 giugno 2020

La casa occupata - Carolina Meloni González




Molto prima di sera
da te s’installa chi scambiò il saluto col buio.
Molto prima di giorno
costui si ridesta
e attizza, prima di partire, un sonno,
un sonno, risonante di passi:

tu l’odi misurare lontananze
e laggiù scagli la tua anima.
Paul Celan, “L’Ospite”

Uno strano disordine emotivo ha fatto il nido in noi. Come un impercettibile clinamen, un lieve tremore, in apparenza. Il corpo, la carne, la materialità più pura che ci dà forma, rimane isolata, murata, avvolta in mascherine, guanti e distilla i vapori alcolici di disinfettanti in gel. Mentre le dimensioni affettive, intuitive e percettive sembrano andar accumulando nelle loro reti tutte le esperienze esterne per trasformarle in simboli onirici. Come e cosa sogniamo durante le notti del COVID-19? Quali effetti iniziano ad avere sull’inconscio i mutamenti spaziali, sociali e corporali che stiamo vivendo? Quali incerte fragili fantasie staremo producendo nel profondo di ognuno di noi? A quali sconosciute e sotterranee soglie cominciamo ad affacciarci?
Per molti il confinamento ha portato con sé notti inquietanti, disturbanti e assurde. Man mano che i giorni si susseguono in una monotona litania, andiamo normalizzando l’isolamento quasi senza accorgercene. Va spegnendosi il fruscio del mondo, proprio quando una viscosa apatia comincia ad appropriarsi di corpi e menti. Tutto sembra aver assunto un’aura d’irrealtà, anzi, di fantasmagorìa. Un’aura anche soffocante, di malessere e impossibilità: fatichiamo a concentrarci, leggere, scrivere. Sarà che, come afferma Rolnik, “un’atmosfera sinistra avvolge il pianeta” e la nostra aria diventa satura di particelle tossiche, di ceppi minuscoli che ci impediscono di respirare.
Eppure le notti sembrano arrivare cariche di vita propria. I corpi, disciplinati e sedati, disinfettati e asettici, sembrano arrendersi agli sfrenati deliri schizofrenici di un tessuto onirico tanto ricco quanto nefasto. Viaggiamo, ci trasformiamo, ci trasferiamo in luoghi sconosciuti, tra le ombre notturne appaiono animali ed esseri assurdi. Come se un’incontrollabile macchina desiderante si fosse messa in moto siamo travolti da divenire e ansie, paure e traumi, desideri interrotti e fantasmi che ci visitano per sussurrarci enigmi onirici. Le notti del COVID-19 arrivano disseminate di morti, spettri di esseri amati che sembrano tornare a reclamare antichi lutti. Per caso “Il mondo è diventato un cimitero carico di energie funebri”, come ha osservato María Galindo?

L’uomo dei topi
Sei tornato a chiudere la porta
per sfuggire all’oscurità,
solo che è qui come bocca di lupo
in questo armadio.
Gloria Anzaldúa

Confino e isolamento hanno destabilizzato il mio sonno, i miei sogni. Ci sono notti in cui dormire diventa una missione quasi impossibile. A volte il sonno è effimero e fragile, altre volte profondo e complesso. Certi giorni è davvero difficile trovare un sonno ristoratore dopo monotone abitudini; certi altri, in compenso, mi sento come risucchiata dagli incubi notturni che mi svegliano avvolta in inquietudine, ansia e sudori. Mi invade la strana percezione, psichica e corporale, che i confini spazio-temporali tra la quotidianità e l’inconscio siano stati contagiati anch’essi, stravolti dallo stesso virus che si è installato tra noi. E mentre le frontiere tra l’intimo e il pubblico, tra la casa e la strada diventano ogni giorno più invalicabili, di notte diventa più viscosa e porosa quella porta che ci collega con la vita onirica. Come un verme o una larva, entro ed esco da questo mondo immaginario che il mio inconscio produce senza sosta; in esso scivolo, mi lascio catturare come dalla tela di un ragno.
Tra tutti i racconti fantasmagorici che il mio inconscio ha tessuto in quarantena, uno in particolare mi ha lasciato tanto confusa quanto perplessa, facendomi tornare più volte ai suoi simboli per meglio poterli comprendere e reinterpretare, nonostante molti di essi fossero chiari:
Ho sognato, ho sognato te, un incubo tanto disturbante e spaventoso che il ricordo ancora mi perseguitaDalla soglia che ci separa, il tuo fantasma mi assedia. Dormivo, a luce spenta, nella tua stanza, la stessa in cui trovarono il tuo corpo. Dal letto riuscivo a intravedere la porta d’ingresso, da cui si andava profilando la tua figura di fantasma. Lentamente, ti avvicinavi e scivolavi nel letto, sdraiandoti al mio fianco. Tu, spettro senza volto, fantasma silenzioso, spaventoso e intangibile che vieni ad assediarmi i sogni e le notti, che continui a disturbare il mio riposo. Nel tentativo di far luce, di affrontare la tua apparizione, accendevo la lampada sul comodino. Quando il mio sguardo si posava sul tuo lato del letto, non era più un fantasma ad attendermi ma il tuo corpo decomposto e putrefatto. In carne ed ossa, fradicio e inerte. Di fronte a una tale visione correvo terrorizzata, ma invece di dirigermi alla porta come via d’uscita, irrazionalmente aprivo un armadio sgangherato di fronte al letto dove avevo lasciato il tuo cadavere. Nell’aprire quelle ante, crollavano su di me mucchi di vestiti sporchi, e da lì sbucava un branco di topi che mi piombava addosso. Solo allora, in preda al terrore, mi sono svegliata, agitata e madida di sudore.
La prima volta che ho affrontato questo sogno pandemico, la mia lettura è stata abbastanza lineare, superficiale, perfino nei confini segnati dalla psicanalisi in puro stile freudianoMolti dei simboli si collegavano direttamente alla morte di mio padre, avvenuta in strane circostanze in quella stessa stanza che mi è apparsa in sogno. Ho provato a tranquillizzarmi cercando spiegazioni, relazionando l’incubo con lo spazio di lutto che si è aperto in questi giorni. Ho pensato fosse più che logico che lutti non elaborati e sospesi ci si presentino dopo molto tempo (mio padre morì quando avevo 18 anni), dato che nella crisi del coronavirus le frontiere tra vivi e morti stanno sfumando: ci svegliamo con cifre, con immagini di corpi, fosse, bare e camion pieni di cadaveri.
Cercando risposte, sono tornata su alcuni testi classici, che già avevo analizzato in altri contesti. Ho riletto l’inquietante articolo del 1915 in cui Freud distingue il lutto dalla melanconia.  Se il primo comporta uno stato di perdita, – non patologico, ma individuale -, la seconda è considerata uno stato morboso nel quale il soggetto resta intrappolato dall’apatia, dal disinteresse verso il mondo esterno, dall’incapacità di amare e dall’inibizione di tutte le funzioni. In definitiva, la relazione esistente tra lutto e melanconia non è altro che la conseguenza diretta di quando un lutto non è elaborato o risolto. La melanconia rinchiude il soggetto nella ripetizione compulsiva, lo insedia direttamente nel trauma, lo lega all’oggetto perduto all’infinito, rendendolo incapace di uscire dal morboso circolo del ricordo. Mi sono chiesta, allora, se lo spettro di mio padre, quale morto errante e vagabondo, non compianto né pianto al momento, riappariva perché si trovava lì, in una cripta della mia memoria più profonda, in quegli strati di inconscio tanto lontani a cui non siamo soliti accedere mai.
A quella morte si sommava, annodato in me, un altro lutto più reale e recente. Un altro strano ospite mi pulsava dentro, incistato e silenzioso. In piena pandemia avevo preso la decisione, la categorica risoluzione di metter fine a una storia d’amore difficile da cui non ero riuscita ad allontanarmi per mesi, nonostante il dolore e la vulnerabilità che mi aveva causato. Per la prima volta avevo avuto abbastanza forza e coraggio per bloccarne ogni possibile influsso, per neutralizzare il potere che questa persona aveva avuto su di me, riuscendo a smontarmi appena con uno sguardo. Così, come fossi stata contagiata dal virus, avevo seguito strettamente ogni protocollo di sicurezza e isolamento: avevo tagliato ogni possibile comunicazione e serrato minuziosamente ogni finestra virtuale che avrebbe potuto mostrargli qualcosa di me e viceversa. Poco a poco, come un paziente isolato nella sua capsula asettica, il corpo e l’anima si andavano trasformando in una specie di sarcofago, una cripta, sigillata contro ogni aggressione, evitando così ogni possibile fuga radioattiva che potesse sfiorarmi, seppur leggermente, la pelle.
La cripta: un nome estremamente bello e inquietante utilizzato da Abraham e Torok per descrivere, precisamente, quegli stati patologici di lutti negati, lasciati in sospeso e mai elaborati che ci fanno dimorare dentro il trauma e la melanconia. La cripta è un’enclave, secondo Derrida, una cisti o una tasca “invaginata” all’interno dell’Io che ospita quell’impossibilità di assimilare, di digerire completamente l’oggetto esterno. Dunque la cripta, in quanto corpo estraneo “invaginato” all’interno dell’Io, comporta sempre un “effetto fantasma” (Derrida, 1976). Una sorta di abitacolo, di casa occupata o covo di fantasmi nell’Io interiore in cui alloggia l’alterità.
Ho chiuso porte e finestre, mi sono isolata nell’intimo della mia tana, senza badare all’ospite che era ancora dentro, al fantasma che sempre ritorna. Ça revient (sta tornando, ndt) in un infinito effetto fort-da, (il gioco del rocchetto, citato da Freud, ndt) una sorta di rimanenza di ciò che scompare e riappare interpellandoci direttamente. Nachleben è l’enigmatica parola usata da Aby Warburg, tradotta con “sopravvivenza”, per descrivere quel ritorno del passato, di un residuo che si impegna a ritornare ancora e ancora, con una certa anacronistica e intempestiva urgenza (Didi-Huberman, 2009).
Potevo vedermi abitata, assediata, da quelle alterità inappropriabili, indigeribili, infestata e contaminata da quei vestiti sporchi e da quei topi, portatori di peste e malattie. E malgrado i miei goffi tentativi di chiudermi al mondo, un esterno minaccioso si apriva e incombeva su di me nell’aprire la porta di quell’oscuro armadio. Come in quell’inquietante racconto di Cortázar, la mia casa, fortezza e rifugio, la parte più recondita del mio essere veniva occupata da spettri e roditori infetti che si impadronivano di ogni stanza e angolo. Mi trovavo totalmente assaltata da un’alterità radicale, impossibile da accogliere, impossibile da introiettare. I miei fantasmi mai compianti ritornavano, all’infinito, come “morti-viventi”, invasori assoluti, pronti a scompaginare e calpestare il muschio del mio rifugio meticoloso.

Di lupi e roditori: chi? io, la mia psiche, la bestia-ombra?
Ho invocato i flagelli per soffocarmi nella sabbia, con il sangue.
La sventura è stata il mio dio. Mi sono disteso nel fango.
Mi sono asciugato al vento del delitto.
E ho giocato ottimi tiri alla pazzia.
Arthur Rimbaud

Disteso sul suo letto, il piccolo Sergei osserva con stupore che la finestra della sua stanza si apre lentamente. Preso dalla curiosità, è riuscito ad affrontare il suo timore iniziale e armato di coraggio s’è avvicinato al davanzale. La scena che lo attendeva è stata talmente terrificante che lo avrebbe perseguitato fino all’avanzata età adulta: arrampicati su un albero, sei o sette lupi, impassibili, lo guardavano fisso minacciosamente.
Da questo sogno infantile, apparentemente semplice, ha origine uno dei più famosi casi di psicanalisi. Analogamente dobbiamo a Deleuze e Guattari una delle più rivoluzionarie interpretazioni del famoso “uomo dei lupi”. Un anno dopo aver parlato del caso nella Storia di una nevrosi infantile, Freud pubblicava “L’inconscio” (1915), la cui tesi fondamentale poggia sulla scoperta della repressione come matrice di ciò di cui l’apparato psichico non permette accedere alla conoscenza. Nient’altro che la scoperta di un rizoma, ci dicono Deleuze e Guattari, Freud non fa altro che tornare allo schema delle radici, alle genealogie familiari arboree e gerarchiche. Tutta l’arte delle molteplicità molecolari che troviamo nell’inconscio è racchiusa in entità morali, in questioni familiari, negli sporchi segreti dell’alcova di mamma e papà. E il branco di lupi che, come corpo senza organi attraversato da deserti informi, linee di fuga creatrici, popolato di assurde molteplicità e intensità insospettate, assediava le notti di Sergei, finisce col ridursi all’antico dramma del triangolo edipico.
La grande scoperta della psicanalisi – secondo Deleuze e Guattari – fu quella della produzione desiderante, delle produzioni dell’inconscio”, produzione altamente rivoluzionaria e creatrice che è immediatamente rinchiusa tra le quattro mura della dimora borghese. “Edipo comporta una straordinaria repressione delle macchine desideranti”. Alla luce del caso dell’uomo dei lupi, Deleuze e Guattari ci presentano una cartografia dell’inconscio come quella di una tana con numerosi meandri dove nascondere i nostri più inconfessabili desideri, ramificata e con molteplici collegamenti. Mai arborea né gerarchica. Popolata da lupi, voragini e strani esseri, che non smettono di territorializzarsi in una primordiale matrice egemonica. Così, in un determinato momento, il branco di lupi può crescere in modo indiscriminato, come il deserto, senza una precisa direzione, potendo connettersi ad altre macchine desideranti o rizomi lontani o vicini, deterritorializzandosi, come una specie di linea di fuga di cui è impossibile individuare un punto di origine, un centro ordinatore da cui si dipartono le radici. L’interpretazione psicanalitica dell’uomo dei lupi, incentrata sulla castrazione e sul trauma infantile, ossessionata dalla figura di un padre autoritario, cerca sempre di ridurre le molteplicità selvagge del piccolo Sergei, per convertirlo in un cagnolino addomesticato.
Rinchiusi nelle nostre stanze, l’orda emancipatrice arriva a riscattarci da tutte le segmentazioni binarie che ci attraversano. Nel nostro inconscio si annidano branchi di topi che attraversano armadi, lupi che ci aspettano dietro una finestra, formiche, insetti e mostri che ci permettono in qualche modo di cambiare, trasformare i nostri desideri. Ci serve una vera visione zoologica del nostro inconscio in quanto macchina desiderante, emancipatrice e creatrice. Anche senza saperlo, bramiamo di trasformarci in tutti quegli animali kafkiani che con i loro canti, risate e tremori, fanno vacillare ogni macchina burocratica e dispotica. Dovremmo quindi lasciarci attraversare da quelle orde primitive e barbare, indomabili, senza possibile gerarchia, senza disciplina né legge.
E se avessi affrontato il mio sogno primordiale da una prospettiva trasformativa e radicalmente diversa da quella scelta in un primo momento? E se avessi rinchiuso io stessa il mio desiderio nello schema della mancanza, dell’assenza, del lutto di un padre assente o di un amore fallito? E se quell’armadio, aperto con tanta disperazione, fosse stato una porta verso un esterno impenetrabile, verso un immenso flusso che mi avrebbe permesso di abbandonare la stanza del lutto e della melanconia? Mentre ripensavo ancora alla forza irruenta dell’orda di topi, sono tornata con la mente agli splendidi scritti di Gloria Anzaldúa, erano i serpenti a perseguitare i suoi sogni notturni. Ci vollero anni prima che la scrittrice chicana capisse che il serpente dei suoi incubi era, ad ogni muta e cambiamento di pelle, nientemeno che lei stessa. Esiste un divenire-animale, un corpo e un’anima animale che, come indomabile bestia, dal mondo dei sogni ci scorre dentro. E quando l’ho compreso, ho deciso di andare oltre. Ho chiuso gli occhi, afferrato le redini del mio impulso vitale e mi sono lasciata portare da quel rizoma mostruoso. È stato allora che ho smesso di aver paura.

La grande mutazione: schizzi di un sogno politico
Dobbiamo imparare collettivamente
ad abitare nuove storie.
Donna Haraway
Ogni crisi porta con sé un certo turbamento dello spirito. Indipendentemente dalle sue caratteristiche, origini e genealogia, dai tratti  materiali, economici, politici o naturali che l’abbiano scatenata, la crisi di per sé presuppone un elemento fuori dagli schemi tanto di quelle strutture sociali e simboliche quanto delle nostre menti e anime precarie. In questo senso, risulta altamente chiarificatrice la definizione data da Freud di una “catastrofe sociale”, la quale, secondo l’autore, possiede un’evidente continuità con la catastrofe psichica che sopraggiunge quando i nostri muri che contengono i traumi diventano inefficaci, la negatività ci invade l’esistenza e non riusciamo a controllare il tracollo che si avvicina. In modo simile a questo crollo individuale, anche la catastrofe sociale comporta un annientamento, una profonda rottura, ma in questo caso nell’ordine dei sistemi simbolici, immaginari e politici che le istituzioni sociali hanno stabilito come egemonici. Entrambe le crisi o catastrofi, collettiva e individuale, finiscono per destabilizzare il mondo, quel nostro mondo costruito da una comunità o da un singolo individuo, che consente di riconoscersi nelle sue dimore e di sentirvisi accolti e protetti.
Molte sono le trasformazioni spazio-temporali che il COVID-19 ha portato con sé. Ecco perché Paul B. Preciado l’ha chiamato “la Grande Mutazione”. I nostri corpi isolati e rinchiusi nell’intimità domestica si sono visti attraversare da diverse mutazioni, alcune più visibili di altre, direttamente in relazione con la nostra ritirata dallo spazio pubblico. Restano, tuttavia, da analizzare quei mutamenti più silenziosi e nascosti che, come lievi tremiti o sussurri, cominciano a manifestarsi all’interno del nostro spirito. Quali formazioni e regimi dispotici germoglieranno nel nostro inconscio postpandemico? Saranno desideri di reazione a colonizzarlo e catturarlo? Quali strutture arborescenti arriveranno a disciplinare la nostra energia vitale? Saremo in grado di politicizzare il nostro disagio?
Negli anni dal ’33 al ’38 del secolo scorso, la giornalista Charlotte Beradt condusse una minuziosa raccolta di sogni, provenienti da persone con diverse condizioni sociali e di genere. Questa vasta cartografia onirica, dal titolo Il Terzo Reich dei sogni, confermava alcune delle tesi freudiane, riviste sulla scia della nevrosi traumatica provocata dalla Prima Guerra Mondiale in Al di là del principio di piacere, ma essenzialmente stabiliva una continuità con la teoria dell’inconscio junghiano, molto più storico-sociale di quello freudiano. Beradt arrivò anche a definire i sogni raccolti nel suo lavoro sul campo come “sogni politici” in cui paura, ansia e incertezza si ripetevano compulsivamente come effetti diretti di un regime totalitario sulla nostra percezione simbolica del mondo.
Freud riteneva possibile paragonare il nostro inconscio impenetrabile ai tentacoli di un polipo che sfiori lievemente il mondo esterno per ritirarsi immediatamente nella sua tana. Cosa toccherà l’animale interiore di questo mondo contorto e deformato?  Quali resti si attaccheranno alle sue estremità e in che forma arriveranno a noi? Affermava Jung che non possiamo ridurre la funzione onirica all’essere mera depositaria della nostra memoria, al cassonetto dove gettare traumi e peccati che preferiamo nascondere. Perderemmo così tutta la forza produttiva, creativa e perfino rivoluzionaria dei nostri sogni. In essi vi è “uno spirito che non è completamente umano ma piuttosto una emanazione della natura”. Di fronte ai dispositivi disciplinatori di coscienza, i sogni aprono una porta verso il desiderio, il corpo, l’animalità, la vita, radicalmente istintiva ed emancipatrice. Il sogno ci colloca letteralmente davanti alla soglia, davanti a questo fuori indomito che, come un branco di topi, ci assale all’improvviso.
È evidente che la pandemia ha aperto una qualche dimensione onirica. Il mondo, tanto quello esterno come quello più intimo, viene a bussare alle nostre porte e finestre. Abbiamo rinchiuso la potenza immaginativa ed emancipatrice del nostro tessuto onirico nella più pura individualità, nella crisalide di un io e dei suoi fantasmi, accogliendolo nelle nostre dimore segrete. Con i nostri sogni, aneliti, desideri e corpi impariamo invece a tessere storie collettive. Apriamo quegli armadi impenetrabili e lasciamo uscire le nostre orde indisciplinate. Ruminiamo insieme quel mondo esterno primitivo che ci abita, perché “le case degli uomini formano costellazioni in Terra” (G. Bachelard).

[Questo testo è il frutto di lunghe conversazioni, messaggi vocali, corrispondenza e telefonate di soccorso ad amici cari durante la quarantena. Se non avessi sentito vicine le loro voci, interpretazioni, saggi consigli e pensieri, malgrado la distanza, non sarei stata capace di affrontare i miei topi. Un ringraziamento infinito al Transcomando (María Galindo e Paul B. Preciado), a Sofía Ugena-Sancho e Mafe Moscoso, che mi hanno spinto, letteralmente, a scriverlo. Grazie anche a Darío Buñuel per avermi donato le sue illustrazioni ed essersi lasciato prendere dal rizoma].

Articolo uscito anche sul blog El Rumor de las Moltitudes di El Salto.
Titolo originale: Casa tomada: ¿y si nuestras pesadillas anuncian la revolución?
Traduzione per Comune-info: Leonora Marzullo


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