Bernhard, la
trivella - Anna Ruchat
Per loro natura queste note devono in ogni caso sempre
essere scritte tenendo presente che verranno osteggiate e/o saranno oggetto di
procedimenti legali, o che semplicemente verranno considerate come le note di
un folle. […] Le lacune e gli errori fanno parte integrante di questo scritto
in quanto tentativo e approssimazione, esattamente come tutto ciò che in esso è
stato annotato. Ottenere la perfezione è impossibile, di qualunque cosa si tratti,
a maggior ragione dunque se si tratta di cose scritte, e più che mai è
impossibile in note come queste che sono costituite da migliaia e migliaia di
brandelli di possibilità e di ricordi. Qui vengono forniti dei frammenti dai
quali un lettore che davvero lo desideri può senz’altro ricostruire un tutto.
Nient’altro. Frammenti della mia infanzia e della mia adolescenza,
nient’altro
Il respiro, in Autobiografia, pp.
288-89
Il respiro di Thomas Bernhard è il primo
libro che ho tradotto: un vero e proprio dono per il lavoro e per la vita, che
devo a Renata Colorni. Bernhard è stato la mia scuola, il mio addestramento
all’ascolto, all’intuizione di un pensiero logico e surreale tutto calato nelle
parole, nel loro spessore, nel ritmo della sintassi. Ripetendomi le sue frasi e
cercando goffamente di renderle in italiano, ho capito mano a mano cosa mi
attirava in quella scrittura. Attraverso la ripetizione, gli strappi
sintattici, le paratattiche a perdifiato, Bernhard smonta certezze e luoghi
comuni e recupera la concretezza del frammento. E nel frammento mette in luce
l’imperfezione, che fa di ogni essere umano un dilettante: «Persino Goya è
rimasto impantanato nel dilettantismo» scrive Bernhard negli Antichi
Maestri, «quell’atroce, formidabile Goya che io metto al di sopra di tutti
i pittori che mai abbiano dipinto».
Questo
continuo interrogare le apparenze – dettato da un profondo bisogno di verità e
non da un astratto principio estetico – è il fondamento etico e filosofico che
ha guidato Bernhard fin dai primi suoi scritti, fin dalla poesia. La terribile
ironia che troviamo nei romanzi e nel teatro non è sarcasmo calato dall’alto,
ma sempre meccanismo corrosivo volto a smascherare l’ipocrisia e a far
emergere, tra verità e menzogna, la vita stritolata e schiacciata, calpestata.
La scrittura
di Bernhard non è mai dettata da scelte teoriche o da un’intuizione
intellettuale. Bernhard scrive i suoi testi, in particolare quelli
dell’autobiografia, per esigenze di sopravvivenza: «Nulla è più difficile», si
legge nell’Origine «ma anche più utile dell’autodescrizione.
Bisogna vagliarsi, dominarsi e collocarsi al posto giusto». Le pagine
dell’autobiografia sono concepite come una sorta di esercizio di
autodescrizione, volto a conoscere e a svelare la verità su se stessi. Un
esercizio che permette a Bernhard di abbattere il rancore e di accedere senza
ombra di autocommiserazione alle zone più desolate e dolorose del suo passato.
La lingua di Bernhard nell’autobiografia è una trivella che pratica fori nel
passato per estrarne una campionatura, frammenti utili ad abbozzare un tutto,
che rimane però sfuggente. La forza di questa lingua, l’energia cui traducendo
ci si deve abbandonare è la precisione dell’intento, la sua franchezza e
inesorabilità. La possibilità di riuscita della traduzione è tutta
nell’aderenza al ritmo serrato della frase, che vuol dire aderenza al mezzo,
alla trivella, ovvero all’intento.
Le pagine
che presentiamo per la prima volta qui in traduzione italiana sono tratte dal
volume di André Müller Im Gespräch mit Thomas Bernhard [Conversazioni
con Thomas Bernhard], pubblicato dalla Bibliothek der Provinz, in Austria, nel
1992, di cui auspichiamo la pubblicazione in Italia. André Müller presenta due
incontri con Thomas Bernhard, uno del 1971 e uno del 1979. Il libro è corredato
da foto in bianco e nero, riproduzioni di lettere, telegrammi e articoli di
giornale che riguardano gli scambi intervenuti tra lo stesso Müller e Bernhard.
Senza voyeurismi ma con grande determinazione e qualche astuzia, Müller entra nella
sfera privata di Bernhard e in un certo qual modo ne conquista la fiducia.
Addirittura durante il secondo incontro è presente al colloquio anche Hedwig
Stavianicek1, la cosiddetta «zia» di Bernhard, il
suo Lebensmensch, la persona della sua vita, che aveva 35 anni più
di lui. Il dialogo a tre risulta a tratti esilarante, ma è anche teneramente e
caparbiamente incentrato sul tema della morte.
1 Conosciutisi nel sanatorio di
Grafenhof, dov’erano entrambi ricoverati, nel 1950 (anno in cui muore la madre
di Bernhard) i due condivideranno i viaggi e in gran parte la vita fino al
1984: «Naturalmente ci abituiamo, col passare dei decenni a un essere umano e
lo amiamo per decenni, e alla fine lo amiamo più di tutto il resto e a lui ci
incateniamo, e quando lo perdiamo è davvero come se avessimo perso tutto. Ho
sempre creduto che fosse la musica a significare tutto per me, a volte anche la
filosofia e il prodotto letterario di alto, altissimo, di supremo livello, così
come ho creduto che fosse semplicemente l’arte in generale, ma tutto questo,
tutta l’arte, quale che sia, non è niente se paragonata al solo e unico essere
umano che abbiamo amato» dice Reger, protagonista degli Antichi Maestri,
il romanzo scritto da Bernhard subito dopo la morte di Hedwig Stavianicek.
L’ultima maschera è la maschera
mortuaria
Due conversazioni con Thomas
Bernhard - Andre Müller
Conversazione 1 (1971)
La prima volta che andai a trovare
Bernhard nella sua cascina di Ohlsdorf fu un’improvvisata. Lui non mi
aspettava. Il mio racconto di quell’incontro fu pubblicato su un quotidiano di
Monaco, la «Abendzeitung» , il 28 dicembre 1971 con il titolo Il mio corpo, la mia testa e nient’altro. Più tardi venni a sapere dal
regista teatrale Claus Peymann che Bernhard aveva letto più volte l’articolo e
che da una volta con l’altra la sua rabbia era diminuita. Lo scrittore stesso
aveva dichiarato di fronte a me durante il nostro secondo incontro, che nel
punto in cui avevo descritto il dondolìo del suo piede, avevo colto tutta la
sua malinconia. La Baronessa Agi Teufl, alla cui mediazione devo quell’intervista,
mi scrisse in una lettera poco dopo la pubblicazione dell’articolo: «Per averti
portato da Thomas posso prendermela soltanto con me stessa. Verrai ancora da
queste parti? La tua Agi»
La sua cascina, come dicono i
vicini, «è spesso sprangata, anche quando lui è in casa». Non ha il telefono, a
malapena risponde alle lettere, non gli piace farsi fotografare, parla di rado
davanti alle persone. Quattro anni fa ha ricevuto il Premio Nazionale Austriaco
per la letteratura e ha fatto arrabbiare il ministro della pubblica istruzione
attaccando duramente il Paese:
«Non c’è niente da elogiare, niente
da condannare, niente da denunciare, ma molte cose sono ridicole; tutto è
ridicolo se si pensa alla morte. […] Le epoche sono insensate, il
demoniaco in noi è una patriottica, ininterrotta galera, dove gli elementi
della stupidità e della spietatezza sono diventati una necessità quotidiana. Lo
Stato è una formazione condannata al continuo fallimento, il popolo è una
formazione incessantemente condannata all’infamia e all’insensatezza. La vita è
disperazione in cui trovano appoggio le filosofie, in cui tutto in fin dei
conti cede inevitabilmente il passo alla follia.
Noi siamo Austriaci, siamo apatici;
siamo la vita intesa come meschino disinteresse per la vita. Non abbiamo niente
da riferire, se non che siamo dei miserabili […]. Strumenti al servizio del
declino, creature dell’agonia, tutto si chiarisce davanti a noi, e noi non
capiamo nulla[…]. Non serve che ci vergogniamo, ma noi siamo davvero
niente, e non meritiamo niente se non il caos».
Nel 1970 ha ottenuto il Premio
Büchner.
Tubercolotico in gioventù, spesso
realmente vicino alla morte, Thomas Bernhard ha un tema ricorrente in tutto ciò
che scrive: la morte, o la vita come «scuola per la morte» o l’umanità come
«comunità di morenti».
Da dove nasce questa, che è la
letteratura contemporanea di lingua tedesca più priva di speranze? Come vive
Bernhard? Mi ero ripromesso di andarlo a incontrare, se possibile a Ohlsdorf.
Primo tentativo: una lettera,
piuttosto formale, “con la massima stima”. Nessuna risposta. Dalla Gesellschaft
für Literatur di Vienna vengo a sapere: «È stato qui, diceva di voler
andare a trovare sua zia». La zia*, in un soggiorno di cura sul
Semmering: «È ripartito, non dice mai dove va». L’editore Suhrkamp: «A volte
non risponde nemmeno alle nostre lettere. Provi a chiamare a Salisburgo».
Wolfgang Schaffler, editore Residenz, Salisburgo: «Ve lo metterei in grembo se
ce l’avessi sotto mano, ma lui non si muove». Comune di Ohlsdorf: «L’abbiamo
visto oggi mentre passava in auto». Un vicino: «Credo che sia a casa, ma non
apre».
A Vienna il
drammaturgo Peter Turrini mi dette il consiglio decisivo: «Prova a chiamare la
Agi!». Agi è Marie Agnes, Baronessa di Handel, vedova Teufl, figlia di un
ufficiale dell’impero austroungarico, discendente di Clemens Brentano. Vive con
la madre di 84 anni nel castello di Albmegg vicino a Ohlsdorf. Bernhard ogni
tanto la va a trovare. Al telefono dice: «Va bene, la accompagno io. Ma lei
deve darmi del tu dall’inizio. Lei è un mio amico». Elias Canetti, che avevo
incontrato per un’intervista a Vienna, mi consiglia: «Lo saluti da parte mia,
questo lo renderà più disponibile».
Il viaggio:
una splendida giornata mite d’inverno. Dove arriva il sole: tonalità di
marrone, ancora una traccia di verde. Dove c’è l’ombra: brina. Le donne,
avvolte nel nero, si muovono lentamente. I bambini giocano davanti ai cancelli
dei cortili come nei quadri fiamminghi. Uomini sui trattori. È molto silenzioso
qui, pacifico. Questo non può essere il mondo degli storpi di Bernhard, penso.
Al centro di
questo paesaggio c’è Albmegg. Uno stretto viale di castagni porta al cancello.
Un piccolo giardino, una torre tondeggiante, finestre in stile gotico. Agi si
trova all’inizio del viale.
«Servus,»
dice «quanti anni hai?». Ma è mai possibile? Questa donna non l’ho mai vista in
vita mia. Una persona robusta, con le spalle larghe, i fianchi larghi, una
risata larga e aperta.
«Andiamo
subito da lui!»
In auto
parla soprattutto di Turrini. Dice che è una così brava persona, così cordiale.
Con Bernhard lei fa più fatica: «Lui è contro la vita». È tutto così negativo
con lui, così privo di certezze, così deprimente. Si sente sempre la difficile
giovinezza che ha avuto. Che aveva perso i genitori molto presto e che già a
sedici anni aveva dovuto arrangiarsi da solo. Una cosa che sulle prime non penseresti
mai: è tagliato per gli affari. Per L’ignorante e il pazzo aveva
preteso una somma enorme.
«Amori?
Nessuno. La cascina è tutto il suo mondo».
Arriviamo
senza preavviso.
Agi:
«All’inizio probabilmente farà lo stupido. Fa sempre lo stupido. Si comporta
come se niente lo ferisse, come se non gli importasse niente di niente. Ma in
realtà è molto facile ferirlo».
La
Volkswagen giallo brillante di Bernhard salta subito all’occhio, un corpo
estraneo in quell’ambiente. La cascina, quasi quadrata, come una roccaforte,
sembra ristrutturata: pulita, quasi sterile. La stalla è vuota. Agi batte il
pugno sulla porta. «Thomas!» grida. Niente si muove. «Thomas, dai apri!». Poi
si sente finalmente uno strascicare di passi. Lei: «C’è una persona con me».
Lui: «Ma lo sai che non voglio».
Passando per
l’anticamera buia e spoglia, accanto a un locale di soggiorno con pochi mobili
e in un angolo un’asse da stiro, arriviamo nella “stanza delle visite”. Tre
sedie dure e dallo schienale alto, un camino senza fuoco, alla parete un
quadro, qualche mensola, un paio di libri. Il locale non è riscaldato. Vietato
fumare. Il sole sta tramontando. Bernhard non accende la luce.
Ha un’aria
malata. Capelli radi. Occhi non grandi, diffidenti. Comincia subito a parlare,
prende in giro Agi, non smette mai di parlare, la sbeffeggia, la colpisce con
un’ ironia mordace. Impossibile una vera conversazione. Tirare fuori un foglio
e una matita e scrivere mentre lui parla è impensabile.
Agi nomina i
suoi figli.
Bernhard:
«Bisognerebbe prendere misure drastiche per evitare che vengano al mondo tutti
questi bambini. Son tutti lì a lamentarsi perché ce ne sono troppi e poi
arrivano anche le sovvenzioni. Prima la gente fa i figli e poi continua a
lamentarsi delle preoccupazioni che danno. A tutte le persone che fanno i figli
bisognerebbe tagliar via le orecchie».
Agi parla
del pianoforte.
Bernhard:
«Una volta un tale voleva regalarmi un pianoforte, uno strumento sul quale in
precedenza avevano suonato Webern e Berg. Ma io non lo volevo. Allora l’ho mandato
a prendere con un furgone così piccolo che il pianoforte non ci poteva entrare.
E io lo sapevo. Li avevo già anche pagati e sono andato con loro e ho detto:
“Forse si potrebbe provare a metterlo di traverso”, ben sapendo che non ci
sarebbe mai stato. Quindi se lo sono dovuti tenere».
Mentre parla
continua a dondolare la gamba, così che ogni due minuti gli cade la pantofola
dal piede.
Alla fine ci
offre della grappa, accende la luce, si addolcisce un pochino. Gli porto i
saluti di Canetti. Bernhard: «Di cosa avete parlato?» «Soprattutto della morte,
che lui non accetta, la fatalità della morte». Bernhard: «La morte è la cosa
migliore che ci sia».
Con
l’automobile raggiungiamo un ristorante a Laakirchen. Bernhard, con un cappello
verde e i pantaloni alla tirolese, ha l’aspetto di un contadino. A vederlo
seduto lì, i gomiti appoggiati al tavolo, chino sulla sua carne al rafano, si
potrebbe pensare che faccia parte di quest’idillio rurale.
«Qui ci
vengo volentieri» dice. «Visto che io stesso sono sempre irritato e lacerato,
mi circondo di persone che hanno su di me un effetto distensivo. Per questo non
voglio domande. Nella realtà tutto è molto più terribile di quanto non sia nei
miei libri. Ma se vivessi come nei libri, diventerei pazzo. Le persone che ci sono
qui mi rendono più calmo. Di fronte a loro non sono per niente timido. Quando
in paese muore qualcuno, vado al funerale come tutti quanti. Ciò che mi succede
dentro non riguarda nessuno. Io vedo le cose per come le vedo. Un altro le vede
in modo diverso. Ognuno faccia quel che crede. »
Perché
scrive?
«Scrivo come
un altro fuma. E quello che succede poi non m’interessa. Il successo mi
irrita».
Perché
pubblica le sue storie?
«Quando uno
poi vede la cosa stampata, come libro, con la sua bella copertina, tutto
rilegato, allora mi piace. Ma in realtà è già tutto finito. Per me di ogni
libro dovrebbero stampare una copia sola: per me». […]
Bernhard:
«Non sono affatto un asociale. Sono io quello che dà la mancia più alta al
barbiere. Oggi gli sfruttatori sono gli operai. Tutto ciò che si scrive è
insensato. Per me è indifferente, che scrivano pure. A me interessa solo
il mio corpo e la mia testa e nient’altro.
Tutto il resto ci arriva addosso comunque».
Conversazione
2 (1979)
Come per la
prima intervista a Bernhard, anche in questo caso fu necessario un lungo
periodo di preparazione. All’inizio ci fu una mia lettera in cui gli dicevo che
avrei potuto prendere una stanza nelle vicinanze di casa sua per qualche
giorno, dopodiché avrei descritto quello che sarebbe successo. Non giunse
nessuna risposta. Quando Bernhard venne a Monaco nel novembre del 1978, per
tenere una lezione all’università, si ricordò della mia richiesta. Ci
accordammo per vederci davanti a una birra dopo la lezione. Ma la lezione non
ebbe luogo. Alcuni dimostranti di sinistra che protestavano contro il regime in
Iran, occuparono la sala. Bernhard riuscì a sfuggire alla folla attraverso
un’uscita di sicurezza. Bevemmo comunque una birra insieme. Mi disse che aveva
intenzione di farsi intervistare il 20 dicembre e mi diede appuntamento alle
nove del mattino nel caffè del municipio a Gmunden. Ma il 14 dicembre mi chiamò
dicendomi che partiva per la Jugoslavia. Rientrò alla fine di gennaio. L’8
febbraio 1979 mi scrisse: «Se dovessi sapere che lei vene da me a fine marzo ne
sarei contento, segretamente, si capisce. Acconsentirei a qualunque cosa Lei
volesse fare di me, anche se mi volesse uccidere. Non me ne importa granché
della mia esistenza. Ma il suicidio in questo momento mi appare ridicolo.
Tuttavia la mia opinione su questo tema cambia costantemente. Al momento sono
invaghito della povertà, ne sono addirittura pazzo. Ci vediamo verso la fine di
marzo, se siamo ancora vivi! Molto cordialmente, il suo Bernhard.» Presi alla
lettera quel “fine marzo” e gli scrissi che sarei arrivato da lui il 31, a
mezzogiorno. Il 29 di marzo ricevetti un telegramma: «La aspetto sabato 7
aprile. Cordiali saluti.» Due giorni prima di quel sabato, di mattino, arrivò
una telefonata: «Come sta? Devo andare a Vienna con la zia per una visita
medica, martedì però sono di ritorno. Venga mercoledì.» E quell’appuntamento
rimase. Alle undici del mattino iniziammo l’intervista. Dieci ore più tardi
avevamo finito. Poiché Bernhard parlava con un forte accento austriaco, al
momento della trascrizione è stato necessario limare un po’ il testo. In alcuni
punti, per mantenere un certo tasso di autenticità, ho conservato però le
coloriture dell’originale, così che a partire da quegli esempi si possa avere
un’idea del tutto. Per ciò che concerne il contenuto non ho modificato niente,
anche là dove Bernhard si contraddice. Le contraddizioni facevano parte della
sua natura. Del resto è lui che ci dà la chiave per capire: «È sempre vero
tutto e niente, al tempo stesso.»
Il portone è
aperto, ma non si sente nessun rumore. Di campanelli non ce ne sono. Dovrei
chiamare per segnalare la mia presenza. Già il fatto di essere lì mi sembra
un’indiscrezione. Mi siedo su una panca appoggiata al muro della casa e decido di
aspettare che Bernhard mi trovi. Ma poi, invece, non aspetto, guardo attraverso
le finestre del piano terra per vedere se riesco a scovarlo in una delle
stanze. Vedo la nuca di una donna e busso al vetro della finestra. Bernhard
apre il chiavistello. La donna è la zia. La stanza è quella in cui c’era l’asse
da stiro quando sono venuto qui la prima volta. La casa è surriscaldata.
Bernhard dice, come per scusarsi, di essere raffreddato. Quando mi vede, la zia
vuole subito andarsene. Dice che farà una passeggiata con l’ombrellino da sole.
Bernhard riprende la frase per coinvolgerla nella conversazione. La corregge,
dice che farà una passeggiata sotto il sole con un ombrellino da pioggia, come
se lei avesse confuso i due termini. Lei, però, continua a sostenere che
l’ombrello è un ombrellino da sole, perché ne possiede un altro per la pioggia.
Questo non dimostra nulla, dice Bernhard, sono due ombrelli da pioggia. La zia
si siede. Ed ecco che mi ritrovo spettatore di una scena teatrale. È, penso,
una scena erotica. Invece di toccarsi usano le parole, le parole sono arpioni.
Premo il tasto di accensione del mio registratore e, come se accendere fosse la
mia parola-chiave, dico la prima frase:
«La
questione è: in cosa un ombrellino da sole si distingue da un ombrello da
pioggia?»
«Nel colore»
risponde la zia. «Un ombrello nero è un ombrello da pioggia. Ai miei tempi era
così, sempre».
«Nel colore?
Ho sempre pensato che c’entrasse anche la plissettatura».
«Ma sì,
forse c’è stato un periodo in cui era di moda».
«Insomma
ragazzi,» dice Bernhard «la moda cambia ogni due anni, e quindi c’è stato
praticamente tutto nella vita…».
«No, senti»,
dice la zia «è sempre stato un fatto di colore. Lo saprò ben io cosa succedeva
sessant’anni fa nella mia vita».
Bernhard: «…
a Vienna per di più, a cavallo del secolo le persone lì saranno sicuramente
andate in giro con chissà quali ombrelli stravaganti».
Zia:
«Ombrellini da sole, sì, in questo ti do ragione».
Bernhard:
«Finiremo col farci fuori a vicenda per un ombrello».
Zia: «No, non
ne ho le forze, troverò qualcos’altro per cui valga più la pena di applicarsi».
Bernhard:
«Ma è possibile farsi fuori a vicenda?».
Io: «Sì, se
uno dei due è stato già colpito e in punto di morte spara all’altro».
Bernhard: «È
vero, a vicenda non significa per forza contemporaneamente. Ma se due si
strangolano nello stesso momento e muoiono insieme…».
Zia:
«Grazie, grazie».
Bernhard: «…
e la lingua esce nello stesso momento dalle due bocche, e poi arriva qualcuno
con una pinzatrice e attacca le lingue una all’altra e li trascina fuori …
sotto l’ombrello da pioggia».
Zia: «Ci sto
pensando… ma è possibile? Il più forte finisce prima».
Io:
«Infatti, la simultaneità è un problema in generale, anche nell’amore».
Bernhard:
«Nell’amore a volte capita».
Io: «Veramente?».
Bernhard:
«Be’, non al centesimo di secondo».
Zia: «Questa
roba non l’ho sentita».
Bernhard:
«Fa niente».
Ora sono in
ballo e devo ballare. Il registratore è acceso. Qual è il mio ruolo?
«Lei conosce
la signora Teufl?» chiedo alla zia. «C’era lei al suo posto quando sono venuto
l’ultima volta. Però eravamo nell’altra stanza.»
«Con la Agi
una volta siamo andati a Vienna» dice Bernhard «c’era anche Hilde Spiel e il
suo anziano marito, è stato molto divertente, Agi ha ordinato un consommé di
gulasch e poi è entrata con tutte e due le mani nel piatto e ha schizzato tutti
quanti. La Spie indossava un tailleur nuovo, un tailleur di seta e aveva
macchie di gulasch dappertutto. La cosa meravigliosa è stata che la Agi, pur
essendo sua la colpa, era offesa perché non commiseravamo lei che era piena di
gulasch dalla testa ai piedi, come gli altri.»
La zia
guarda fuori dalla finestra.
«In fondo»
dico io, «non si parla che di scempiaggini. Ma poi è così bello scrivere queste
scempiaggini. Mentre venivo qui mi chiedevo tutto il tempo: come farò a farlo
parlare? Ed ecco qui che lei parla senza domande.»
«Detto
questo io ammutolisco. Perché si drizzano le orecchie se Lei dice questo e poi
si tace e poi si mangia e poi si tace di nuovo, perché si è stanchi di aver mangiato,
e così passa il tempo.»
Dove sono
finite le mie domande? Penso. Erano tutte finte domande. Si sono volatilizzate.
La mia curiosità non si esprime più nelle domande. Sono oltre le domande.
«La ragione
per cui io sono venuto qui è che volevo ottenere da lei un testo, un testo
qualunque. Perché lei è l’ultimo…»
Bernhard:
«L’ultimo resto…»
«No, il
culmine. Ma di domande non riesco più a farne.»
Bernhard:
«Senza domande»
Zia: «Mi sto
chiedendo dall’inizio, cosa ne sarà di tutto questo. Un’intervista? Una
conversazione informale? O cos’altro?»
Bernhard:
«Niente è informale.»
Zia: «Ma se
tu concedi un’intervista sei tenuto a una certa formalità delle risposte.»
Bernhard:
«Chi lo dice?»
Zia: «È solo
un modo di dire: una conversazione informale.»
Bernhard: «I
modi di dire sono pericolosi per uno scrittore. Tutto quello che uno scrittore
dice, lo smaschera, ammesso che abbia una maschera.»
Zia: «Tutti
ce l’hanno.»
Bernhard:
«Certo, perché ricresce in un attimo. Solo quando si è morti non la si può più
mettere. L’ultima maschera è la maschera mortuaria. Ma bisogna avere a portata
di mano uno marmista, o come si chiamano quelli che le fanno? Un
mascheramortuarista? Dove si trova in giro qualcuno che ti prende l’impronta
della maschera mortuaria? Bisogna farlo in un secondo. Dev’essere quindi
presente qualcuno chiamato dall’infermiera che intuisce quando è finita. Lui è
già lì che lavora l’argilla, e quando l’interessato si mette giù e muore,
gliela schiaffa in faccia. Ci dev’essere ancora un soffio di vita nel morto.»
«Lei l’ha
visto?»
«Di maschere
mortuarie ne ho già viste tante.»
«Intendevo
il cadavere.»
«Mia nonna
mi portava sempre negli obitori quand’ero piccolo. Poi mi sollevava e diceva:
ecco, guarda, qui ce n’è un altro. Una volta mi raccontò che i cadaveri vengono
collegati con dei fili a un campanello, in modo tale che, se tornano in sé, il
custode della camera mortuaria viene allarmato. Squilla qualcosa. L’idea è
venuta perché una volta la moglie del proprietario del mulino, che era già
morta, si è risvegliata. Dunque la sua era solo una morte apparente. Poi lei,
nel suo abito di carta, è tornata a casa dal cimitero comunale e ha suonato
alla porta e il marito, il proprietario del mulino, ha guardato giù e vedendola
gli è preso un colpo ed è morto e la moglie ha continuato a vivere. Da allora
hanno messo un impianto di segnalazione.»
Zia: «Ti
ricordi la storia che ti ho raccontato una volta, di quel medico che non aveva
mai esercitato il suo mestiere e di quel corteo funebre in cui d’improvviso una
mano è uscita dalla bara e il medico l’ha presa subito e ha capito che c’era
ancora vita lì dentro, e un paio di settimane dopo ha ripreso a esercitare la
sua professione.»
Bernhard:
«Perché?, se non l’aveva mai esercitata non può riprenderla.»
Zia: «Non il
medico, il cadavere.»
Bernhard:
«Beh, un cadavere men che meno può esercitare una professione.»
Zia:
«Intendevo quel tale che era stato preso per un cadavere.»
Bernhard:
«Il presunto cadavere.»
Zia:
«Altrimenti non ci sarebbe stato nessun corteo funebre, se si fosse saputo che
quello era ancora in vita.»
Bernhard:
«Il presunto corteo funebre.»
Mi
meraviglio del fatto che la zia sopporti tutte queste storielle sulla morte.
Più tardi vengo a sapere che lei non è affatto la zia. Bernhard la chiama così,
ma non sono parenti. L’ha conosciuta in un sanatorio nel 1950. Aveva allora 19
anni. I medici dell’ospedale distrettuale di Salisburgo lo avevano appena dato
per spacciato. Nel suo libro autobiografico Il respiro descrive
quel momento assolutamente decisivo della sua esistenza. Lo avevano sospinto in
una stanza da bagno che ben presto si rivelò essere un trapassatoio, la stanza
in cui si muore. Bernhard stava a guardare mentre gli uomini venivano adagiati
nelle loro bare di zinco e spinti fuori dalla stanza. La suora entrava a
intervalli sempre più lunghi per sentire il polso: per vedere se fosse già
morto. In questa situazione senza speranza lui decise, mettendo in gioco tutte
le sue forze, ovvero contro ogni resistenza esterna, di sopravvivere. Fu quindi
portato in un sanatorio a Großgmain e infine a Grafenhof dove anche la zia era
ricoverata per una cura.
«Non le da
fastidio che lui faccia continuamente delle battute sulla morte?»
Zia: «Non mi
fa piacere. Quando siamo soli non lo fa. Ha dei riguardi nei miei confronti.»
Bernhard:
«Tengo a bada i miei morti. Non li faccio uscire dal sacco. Solo a volte, per
ricatto, tiro fuori un paio di teschi e minaccio un po’ chi sta intorno, poi li
rimetto via.»
«Queste
storie non ci riportano di continuo alla nostra morte?»
Zia: «Questo
non mi disturba, è il mio risveglio, ogni mattino.»
Bernhard:
«Ti svegli comunque in paradiso.»
Zia: «Questo
non lo so. Non so proprio dove mi sveglio.»
Bernhard:
«Magari a un incrocio dove ci sono dei cartelli che non si capiscono e non si
sa da che parte andare e intanto fischia un vento gelido.»
Zia: «Non
può succedere granché. O si va avanti o è finita.»
Bernhard: «E
se è finita è probabile che non lo si sappia e allora non si potrà nemmeno più
avere paura. Prima si è malati e poi si è morti, e un morto non è niente.
Tutt’al più un affare di plastica da buttare nella spazzatura.»
Io:
«Fintanto che parliamo della morte, la morte non può farci paura.»
Bernhard:
«Ma nessuno resiste a lungo a parlarne. Prima ne scappa uno, poi un altro, poi
sono di nuovo tutti da soli e si liberano del pensiero. Parlarne a lungo
funziona solo a teatro, ma anche il teatro dopo due ore è finito, poi scappano
tutti via, se non se ne sono già andati durante la pausa.»
«Ma la
questione è: dove si scappa?»
Bernhard:
«Da nessuna parte. Si scappa da qualcosa, ma la si porta con sé. La rabbia e la
disperazione e tutto, rimangono. Ci vuole un po’ perché la separazione fisica
diventi reale…Probabilmente non c’è nessuna separazione reale. In ognuno di noi
sono presenti tutti gli esseri umani con cui la persona è stata nella vita. Noi
stiamo lì e siamo il risultato di tutti quegli esseri umani. Tutto ciò che
incontriamo ci rimane dentro, e allo stesso modo noi rimaniamo negli altri.»
Zia: «Questa
è l’immortalità. Fintanto che c’è qualcuno che ti pensa e che parla di te sei
immortale.»
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