venerdì 26 giugno 2020

«Credo e spero nel mondo salvato dai ragazzini»


Andrea De Lotto intervista Nicoletta Dosio


Stendendo l’elenco delle persone alle quali possiamo fare le nostre due domande sul “ritorno alla normalità” mi viene in mente Nicoletta Dosio; ci siamo visti più volte in Val di Susa, sicuramente non si ricorderà di me, ma cerco il contatto e lo trovo. Riusciamo a parlarci telefonicamente, le faccio vedere le altre interviste, ci diamo appuntamento per un’intervista telefonica.
Le chiedo di parlare lentamente perché io scrivo direttamente, ma non sono uno stenografo. Viva voce tutti e due. Ma la sua non è solo viva, è vivissima. Più volte le devo dire: “Piano Nicoletta! Piano!! Sto scrivendo, tu corri!!! Non riesco a starti dietro.” Si fatica a starle dietro, in tutti i sensi. E’ letteralmente un fiume in piena. Ha anni sulle spalle, di incontri, discussioni, presidi, manifestazioni, lotte, battaglie. E poi come una ciliegia sulla torta: il carcere. Nicoletta ha fatto BINGO: entra in carcere e dopo tre mesi scoppia la pandemia. Drammi su drammi, è scesa negli Inferi. Nessun Virgilio l’ha accompagnata, si è fatta spazio da sola, ma aveva un movimento con lei, al suo fianco. L’hanno accompagnata, stretta. Quella macchina della polizia che la portava via quella sera cercava di fare breccia  tra la carne umana, quando il distanziamento non c’era ancora, quando eravamo fitti. Ora ci hanno stemperato.
Nicoletta ha visto tutto dal buco della serratura. Come quando da bambini uno guardava cosa succedeva nella sala dei grandi e gli altri chiedevano: “Allora?? Allora, dai!!?? Cosa vedi?? Cosa succede??”
Così lei ha visto un sacco di cose. E ora ce le racconta, si gira verso di noi e ci dice tutto quello che ha visto, cose che pochi umani hanno visto con tanta lucidità. Nicoletta ha fretta, vuole dire tutto. Salta dal micro al macro, senza alcuna difficoltà, leggera. Parole che alternano poesia a pietre, ma sono in grande armonia, nulla stride. E ora leggete. Grazie Nicoletta.
Come abbiamo detto altre volte, grazie NO TAV, grazie della lezione, noi lo sappiamo, voi…. avete già vinto.

Voi siete stati specchio e apripista di quello che avveniva nel mondo, eravate in un osservatorio “privilegiato”, voi avete visto il “backstage”, il lato osceno della scena, quello che sta dietro. Ora, quando la pandemia va lentamente allontanandosi, sembra essersi dispiegato a tutti e tutte quello che era. Vi sembra quindi un momento propizio verso quel cambiamento che già prima anelavamo o è più la rabbia nel dire: “Noi lo abbiamo sempre saputo e sempre detto, da buone Cassandre”?
E’ fondamentale questo, sono 30 anni che lo diciamo, che la perdita del rapporto uomo-natura stava avvelenando la vita di tutti. Noi abbiamo fatto questa esperienza sulla nostra pelle, il nostro territorio veniva devastato come il mondo. I veri bisogni venivano surclassati dagli interessi di pochi, dalla devastazione del pianeta, delle società. La malattia è il punto di crisi di un sistema, la pandemia è chiaramente l’altra faccia della globalizzazione ed uno dei suoi mali. Tutto arriva da lontano e va lontano, senza limiti e correttivi. Il sistema di prevenzione è stato devastato, il prodotto della globalizzazione capitalistica è la crisi ecologica, l’assenza del limite, l’avvelenamento del pianeta. Calano le difese organiche, un sistema pubblico che era basato sulla prevenzione è passato alla sua devastazione, perché abbandonato ai grandi profitti privati.
La tragedia del coronavirus l’ho vissuta dall’interno del carcere; da questo punto di vista il mio punto di osservazione era doppiamente privilegiato, perché vissuto tra chi è senza reti di protezione. E’ stato drammatico, lì non avevi nessuna prevenzione, non c’era nessuna mascherina, comparse solo alla fine e non tanto per i detenuti, ma solo per quelli che si ammalavano. E il numero dei detenuti nel carcere già sovraffollato continuava ad aumentare
Disinfettavano con una specie di pompa del verde rame che spruzzava qualcosa, cose serie non ce n’erano, o erano in quantità ridicole. Eravamo malmessi. Nel frattempo le notizie continuavano a piovere dagli apparecchi televisivi che non si possono neanche spegnere: in cella non sei da sola, e se l’altra vuol vedere la TV (che per tanti reclusi è l’unico strumento di evasione, anzi di “sballo”), non puoi penalizzarla.
In una cella di 2 metri per 4,  le misure sono esattamente queste, la metà è occupata dal letto a castello, nello spazio restante ci stanno due armadietti, due sgabelli, un tavolino a muro, il tutto per due occupanti. Lo spazio calpestabile è minimo, ti senti rinchiuso. Questa TV ti rovesciava addosso l’epidemia che avanzava, generando angoscia e senso di totale impotenza. Non potevi scappare, certo. La speranza era che anche le persone fuori forzatamente rinchiuse in casa e limitate nei movimenti cogliessero il dramma dell’essere reclusi. La nostra impressione è stata, da dentro, che ben pochi abbiano capito… La speranza di poter uscire, indulto e amnistia sono state ben poco considerate. La detenzione, in questo clima, era una doppia punizione. Si aggiunga l’alimentazione inadeguata, non potevano venire i parenti, non arrivavano i pacchi…. Per chi non aveva qualche soldo sul conto interno non c’era possibilità di acquistare nulla… Prezzi aumentati, drammi nei drammi.

E le rivolte di quei primi giorni?
Quelle rivolte all’inizio hanno avuto qualche ripercussione, ma ben poca cosa. In pochi siamo usciti, pochi, anziani e malati. C’è stato un semplice aumento dei controlli. E paura di ripercussioni, dopo le rivolte, visto che ai detenuti delle carceri dove c’erano state manifestazioni era negata la possibilità di chiedere l’applicazione del decreto di scarcerazione per gravi rischi di salute.
Le solite pantomime italiane; nel nostro carcere, per esempio, c’è stata una commissione presieduta dal direttore con due rappresentanti dei detenuti per sezione,  educatori, secondini etc. E’ stata inutile, anche perché i rappresentanti dei detenuti non erano scelti dai detenuti stessi. Così da quegli incontri sono uscite posizioni generiche e promesse… mai mantenute.
Poi bisognerebbe parlare dei CPR, luoghi ancora più sconosciuti e senza tutele. Questa pandemia ha messo in luce tutte le povertà, non sono quelle evidenti, ma quelle di chi vive nella città nascosta, di chi si nasconde negli anfratti, tutto un mondo migrante, di chi vive sotto i ponti, nei giardini. Pare che in questi tempi di pandemia questo mondo sia aumentato: nuove povertà, nuovi invisibili.
Rispetto a tutto questo la pandemia ha mostrato le vecchie e nuove povertà, le nuove precarietà di vita e di lavoro. Avremmo dovuto imparare che la ricchezza doveva essere redistribuita. Io credo che la gente debba svegliarsi e non si è ancora svegliata abbastanza. Il sistema nel quale siamo invischiati non è quello di un benessere diffuso per tutti, ma quello del capitale, fondato su poche grandi ricchezze e infinite grandi povertà. Invece di essere in crisi come dovrebbe è ancora vivo e forte e il mondo soffre.

E ora a che punto siamo?
Siamo in un punto di non ritorno, c’è ancora molto da fare, bisogna risvegliarci. Ci vuole una rivoluzione culturale nel nostro stare al mondo tra esseri umani e con la natura. Scardinare il mondo della repressione, della guerra. Quali risposte stanno dando i governi? Ora, per esempio, in Italia, il piano Colao che risposte dà di fronte a questa crisi? Lavoro! Si, quello delle opere inutili, dannose, che fanno ammalare. La storia della nostra valle lo insegna da tanti anni, noi abbiamo una ferrovia internazionale che lavora al 12% e ancora sono qui a martellare con questo folle progetto.
I bisogni veri non trovano risposta e vengono calpestati. Vogliamo parlare di ferrovie? La privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, nei primi anni ’90, ha ucciso la ferrovia utile ai pendolari, al collegamento reale dei territori, ai trasporti efficienti e sicuri. Allora è partito il mito dell’Alta Velocità, dei corridoi di traffico da lontano a lontano, i corridoi Tent-T trasportistici, informatici, energetici, incontrollabili dal basso, secondo l’imperativo dell’Europa di Mastricht. E’ tutto un mondo che è stato devastato e che nessuno cerca di ricostruire. Di nuovo, nello sbloccaItalia, si parla di cantieri delle Grandi Opere, Tav etc…
Ora ci sono anche gli eserciti, l’organizzazione dell’esercito europeo sotto l’egida della NATO. E i corridoi delle merci e dei capitali devono anche rispondere all’efficienza di mobilità degli eserciti e della guerra: i corridoi transnazionali Tent-T , per cui l’UE ha previsto già ora un finanziamento di 6 miliardi di euro, finalizzati alla mobilità militare.  Tutto questo lo dice a chiare lettere il Centro Studi Internazionali nel rapporto di febbraio 2020 .
I corridoi TENT-T costituiscono sempre più scopertamente lo strumento di penetrazione da nord a sud e di ovest a est dell’imperialismo di sempre e del neocolonialismo con cui il Nord del mondo cerca di tamponare la crisi irreversibile della propria bulimia.
La realtà che il Palazzo sta preparando con i decreti “Curaitalia” e col piano Colao non ci fa sperare nulla di buono: solo privatizzazioni, deregolamentazione degli appalti, abbattimento di regole sanitarie e di limiti di sicurezza, aumento degli apparati di controllo poliziesco antisociale. Anche per quanto riguarda la scuola pubblica, ecco un nuovo slogan: “Adotta una classe” e, per quanto riguarda i beni artistici e culturali, “Adotta un museo” . Tutto in vendita…. Un’enorme tristezza.

E la manifestazione antirazzista di piazza Castello a Torino? Non è un bel segnale?
Piazza Castello e le manifestazioni nel mondo dicono che forse la misura è colma e che c’è un grande dissenso, un grande bisogno di giustizia sociale, quindi bisogna dare spazio a questo dissenso: questa è l’unica speranza per un futuro possibile.
Il discorso non può essere riformista, ma deve essere rivoluzionario. Una rivoluzione sociale e culturale, che ci faccia ricordare come l’essere umano non è il padrone del mondo, ma una componente minima di un ecosistema grande come la Terra e vario come l’universo. Una rivoluzione che non espunga il conflitto come parola impronunciabile e che non deleghi al virtuale quello che non può non essere un conflitto reale, come reale è la vita calpestata.
Bisogna recuperare il senso del limite, smetterla con il mito della crescita infinita. Nessuno è una monade. Dobbiamo avere ben chiare le connessioni tra esseri viventi, altrimenti il disastro è alle porte e rischia di essere irreversibile. Una rivoluzione culturale sì, ma anche sociale. Insieme si può, questo lo abbiamo imparato in valle. Tanti piccoli, insieme, abbiamo una forza infinita. Certo la lotta sarà dura, i contendenti sono parecchi, il nemico c’è e non si disperderà. Ma l’importante è avere ben chiaro chi si ha di fronte e non accettare mediazioni, sulla salvaguardia della salute e dell’ambiente, sulla qualità della vita e del lavoro, sui veri bisogni per la felicità.
L’assetto del mondo capitalista fa dell’essere umano e del pianeta uno strumento usa e getta, riduce tutto a oggetto, sfruttamento, discarica: un mondo brutto, triste, pieno di dolore e di morte. E bisogna sfuggire alle secche dell’informazione di regime, quella che chiama progresso la devastazione, che criminalizza il dissenso e le istanze di chi lotta per il futuro vivibile per tutti. E ricordare che la verità è rivoluzionaria e che c’è altro oltre ai mass media di regime, c’è un mondo di controinformazione, lo stesso che attivammo e praticammo dagli anni ’70 in poi e che fu messo a tacere dalle prigioni e dalle menzogne del Palazzo.
Se vogliamo uscire dalle sabbie mobili del presente, il primo errore da evitare è la delega. La delega fa male a chi la dà e a chi la riceve, è indispensabile continuare ad avere la forza dell’utopia.  Ho vissuto la mia adolescenza e la prima giovinezza negli anni ’60-’70  e di quei tempi non ho dimenticato l’assalto al cielo, il senso della collettività conquistata nella dimensione di un’uguaglianza eretica, che significava “ricevere da ognuno secondo le proprie possibilità e dare ad ognuno secondo i suoi bisogni”, secondo l’antica regola che, con la lotta NO TAV, sperimentammo nella libera Repubblica della Maddalena, strozzata nel 2011 dall’esercito e dalla repressione poliziesca, ma che ci permise di sperimentare concretamente un modello di vita altro.
Ci vuole grande umanità, ma senza confondere oppressore e oppresso, nella chiarezza e nella radicalità del conflitto; senza rompere le fila e trovando, nella lotta concreta, i legami collettivi che sono la sola vera forza degli oppressi. Crescere insieme nella lotta.
In molti giovani di oggi vedo le vittime di tanto silenzio e diseducazione, frutto dell’abbandono degli ultimi 30-40 anni e della mistificazione della memoria che il potere ha sparso a piene mani sulle ceneri delle lotte passate. A loro è stato offerto il mito del consumismo e l’egoismo individualistico, della competizione che è guerra tra poveri, del “successo” che si conquista solo calpestando la vita altrui.
Giovani educati su falsi miti, ma che ora si stanno risvegliando. Ho molta fiducia nei giovanissimi, i nostri nipoti, che si trovano in eredità un mondo morente, ma che cercano aria e vivibilità per sé e per chi verrà dopo: la questione climatica, la sensibilità nei confronti della natura, una precarietà che non vogliono accettare come condanna ineluttabile.
Credo e spero nel “mondo salvato dai ragazzini”, quei ragazzini che vediamo impegnati là dove parrebbe esserci soltanto ingiustizia e nessuna rivolta, quelli che respirano insieme a noi i lacrimogeni dell’aggressione del TAV e, come noi, sono oggetto di repressione delle questure, dei tribunali e delle carceri. Quelli che danno rifugio e appoggio a chi è in cammino sulle rotte dei migranti, quelli che, come e meglio di noi, non hanno rinunciato all’utopia di un mondo diverso possibile.


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