Andrea De Lotto intervista Nicoletta Dosio
Stendendo
l’elenco delle persone alle quali possiamo fare le nostre due domande sul
“ritorno alla normalità” mi viene in mente Nicoletta Dosio; ci siamo visti più
volte in Val di Susa, sicuramente non si ricorderà di me, ma cerco il contatto
e lo trovo. Riusciamo a parlarci telefonicamente, le faccio vedere le altre
interviste, ci diamo appuntamento per un’intervista telefonica.
Le chiedo di
parlare lentamente perché io scrivo direttamente, ma non sono uno stenografo.
Viva voce tutti e due. Ma la sua non è solo viva, è vivissima. Più volte le
devo dire: “Piano Nicoletta! Piano!! Sto scrivendo, tu corri!!! Non riesco a
starti dietro.” Si fatica a starle dietro, in tutti i sensi. E’ letteralmente
un fiume in piena. Ha anni sulle spalle, di incontri, discussioni, presidi,
manifestazioni, lotte, battaglie. E poi come una ciliegia sulla torta: il
carcere. Nicoletta ha fatto BINGO: entra in carcere e dopo tre mesi scoppia la
pandemia. Drammi su drammi, è scesa negli Inferi. Nessun Virgilio l’ha
accompagnata, si è fatta spazio da sola, ma aveva un movimento con lei, al suo
fianco. L’hanno accompagnata, stretta. Quella macchina della polizia che la
portava via quella sera cercava di fare breccia tra la carne umana,
quando il distanziamento non c’era ancora, quando eravamo fitti. Ora ci hanno
stemperato.
Nicoletta ha
visto tutto dal buco della serratura. Come quando da bambini uno guardava cosa
succedeva nella sala dei grandi e gli altri chiedevano: “Allora?? Allora,
dai!!?? Cosa vedi?? Cosa succede??”
Così lei ha
visto un sacco di cose. E ora ce le racconta, si gira verso di noi e ci dice
tutto quello che ha visto, cose che pochi umani hanno visto con tanta
lucidità. Nicoletta ha fretta, vuole dire tutto. Salta dal micro al macro,
senza alcuna difficoltà, leggera. Parole che alternano poesia a pietre, ma sono
in grande armonia, nulla stride. E ora leggete. Grazie Nicoletta.
Come abbiamo
detto altre volte, grazie NO TAV, grazie della lezione, noi lo sappiamo, voi….
avete già vinto.
Voi siete
stati specchio e apripista di quello che avveniva nel mondo, eravate in un
osservatorio “privilegiato”, voi avete visto il “backstage”, il lato osceno
della scena, quello che sta dietro. Ora, quando la pandemia va lentamente
allontanandosi, sembra essersi dispiegato a tutti e tutte quello che era. Vi
sembra quindi un momento propizio verso quel cambiamento che già prima
anelavamo o è più la rabbia nel dire: “Noi lo abbiamo sempre saputo e sempre
detto, da buone Cassandre”?
E’
fondamentale questo, sono 30 anni che lo diciamo, che la perdita del rapporto
uomo-natura stava avvelenando la vita di tutti. Noi abbiamo fatto questa
esperienza sulla nostra pelle, il nostro territorio veniva devastato come il mondo.
I veri bisogni venivano surclassati dagli interessi di pochi, dalla
devastazione del pianeta, delle società. La malattia è il punto di crisi di un
sistema, la pandemia è chiaramente l’altra faccia della globalizzazione ed uno
dei suoi mali. Tutto arriva da lontano e va lontano, senza limiti e correttivi.
Il sistema di prevenzione è stato devastato, il prodotto della globalizzazione
capitalistica è la crisi ecologica, l’assenza del limite, l’avvelenamento del
pianeta. Calano le difese organiche, un sistema pubblico che era basato sulla
prevenzione è passato alla sua devastazione, perché abbandonato ai grandi
profitti privati.
La tragedia
del coronavirus l’ho vissuta dall’interno del carcere; da questo punto di vista
il mio punto di osservazione era doppiamente privilegiato, perché vissuto tra
chi è senza reti di protezione. E’ stato drammatico, lì non avevi nessuna
prevenzione, non c’era nessuna mascherina, comparse solo alla fine e non tanto
per i detenuti, ma solo per quelli che si ammalavano. E il numero dei detenuti
nel carcere già sovraffollato continuava ad aumentare
Disinfettavano
con una specie di pompa del verde rame che spruzzava qualcosa, cose serie non
ce n’erano, o erano in quantità ridicole. Eravamo malmessi. Nel frattempo le
notizie continuavano a piovere dagli apparecchi televisivi che non si possono
neanche spegnere: in cella non sei da sola, e se l’altra vuol vedere la TV (che
per tanti reclusi è l’unico strumento di evasione, anzi di “sballo”), non puoi
penalizzarla.
In una cella
di 2 metri per 4, le misure sono esattamente queste, la metà è occupata
dal letto a castello, nello spazio restante ci stanno due armadietti, due
sgabelli, un tavolino a muro, il tutto per due occupanti. Lo spazio
calpestabile è minimo, ti senti rinchiuso. Questa TV ti rovesciava addosso
l’epidemia che avanzava, generando angoscia e senso di totale impotenza. Non
potevi scappare, certo. La speranza era che anche le persone fuori forzatamente
rinchiuse in casa e limitate nei movimenti cogliessero il dramma dell’essere
reclusi. La nostra impressione è stata, da dentro, che ben pochi abbiano
capito… La speranza di poter uscire, indulto e amnistia sono state ben poco
considerate. La detenzione, in questo clima, era una doppia punizione. Si
aggiunga l’alimentazione inadeguata, non potevano venire i parenti, non
arrivavano i pacchi…. Per chi non aveva qualche soldo sul conto interno non
c’era possibilità di acquistare nulla… Prezzi aumentati, drammi nei drammi.
E le rivolte
di quei primi giorni?
Quelle
rivolte all’inizio hanno avuto qualche ripercussione, ma ben poca cosa. In
pochi siamo usciti, pochi, anziani e malati. C’è stato un semplice aumento dei
controlli. E paura di ripercussioni, dopo le rivolte, visto che ai detenuti
delle carceri dove c’erano state manifestazioni era negata la possibilità di
chiedere l’applicazione del decreto di scarcerazione per gravi rischi di
salute.
Le solite
pantomime italiane; nel nostro carcere, per esempio, c’è stata una commissione
presieduta dal direttore con due rappresentanti dei detenuti per sezione,
educatori, secondini etc. E’ stata inutile, anche perché i rappresentanti dei
detenuti non erano scelti dai detenuti stessi. Così da quegli incontri sono
uscite posizioni generiche e promesse… mai mantenute.
Poi
bisognerebbe parlare dei CPR, luoghi ancora più sconosciuti e senza tutele.
Questa pandemia ha messo in luce tutte le povertà, non sono quelle evidenti, ma
quelle di chi vive nella città nascosta, di chi si nasconde negli anfratti,
tutto un mondo migrante, di chi vive sotto i ponti, nei giardini. Pare che in
questi tempi di pandemia questo mondo sia aumentato: nuove povertà, nuovi
invisibili.
Rispetto a
tutto questo la pandemia ha mostrato le vecchie e nuove povertà, le nuove
precarietà di vita e di lavoro. Avremmo dovuto imparare che la ricchezza doveva
essere redistribuita. Io credo che la gente debba svegliarsi e non si è ancora
svegliata abbastanza. Il sistema nel quale siamo invischiati non è quello di un
benessere diffuso per tutti, ma quello del capitale, fondato su poche grandi
ricchezze e infinite grandi povertà. Invece di essere in crisi come dovrebbe è
ancora vivo e forte e il mondo soffre.
E ora a che
punto siamo?
Siamo in un
punto di non ritorno, c’è ancora molto da fare, bisogna risvegliarci. Ci vuole
una rivoluzione culturale nel nostro stare al mondo tra esseri umani e con la
natura. Scardinare il mondo della repressione, della guerra. Quali risposte
stanno dando i governi? Ora, per esempio, in Italia, il piano Colao che
risposte dà di fronte a questa crisi? Lavoro! Si, quello delle opere inutili,
dannose, che fanno ammalare. La storia della nostra valle lo insegna da tanti anni,
noi abbiamo una ferrovia internazionale che lavora al 12% e ancora sono qui a
martellare con questo folle progetto.
I bisogni
veri non trovano risposta e vengono calpestati. Vogliamo parlare di ferrovie?
La privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, nei primi anni ’90, ha ucciso la
ferrovia utile ai pendolari, al collegamento reale dei territori, ai trasporti
efficienti e sicuri. Allora è partito il mito dell’Alta Velocità, dei corridoi
di traffico da lontano a lontano, i corridoi Tent-T trasportistici,
informatici, energetici, incontrollabili dal basso, secondo l’imperativo
dell’Europa di Mastricht. E’ tutto un mondo che è stato devastato e che nessuno
cerca di ricostruire. Di nuovo, nello sbloccaItalia, si parla di cantieri delle
Grandi Opere, Tav etc…
Ora ci sono
anche gli eserciti, l’organizzazione dell’esercito europeo sotto l’egida della
NATO. E i corridoi delle merci e dei capitali devono anche rispondere
all’efficienza di mobilità degli eserciti e della guerra: i corridoi
transnazionali Tent-T , per cui l’UE ha previsto già ora un finanziamento di 6
miliardi di euro, finalizzati alla mobilità militare. Tutto questo lo
dice a chiare lettere il Centro Studi Internazionali nel rapporto di febbraio
2020 .
I corridoi
TENT-T costituiscono sempre più scopertamente lo strumento di penetrazione da
nord a sud e di ovest a est dell’imperialismo di sempre e del neocolonialismo
con cui il Nord del mondo cerca di tamponare la crisi irreversibile della
propria bulimia.
La realtà
che il Palazzo sta preparando con i decreti “Curaitalia” e col piano Colao non
ci fa sperare nulla di buono: solo privatizzazioni, deregolamentazione degli
appalti, abbattimento di regole sanitarie e di limiti di sicurezza, aumento
degli apparati di controllo poliziesco antisociale. Anche per quanto riguarda
la scuola pubblica, ecco un nuovo slogan: “Adotta una classe” e, per quanto
riguarda i beni artistici e culturali, “Adotta un museo” . Tutto in vendita….
Un’enorme tristezza.
E la
manifestazione antirazzista di piazza Castello a Torino? Non è un bel segnale?
Piazza
Castello e le manifestazioni nel mondo dicono che forse la misura è colma e che
c’è un grande dissenso, un grande bisogno di giustizia sociale, quindi bisogna
dare spazio a questo dissenso: questa è l’unica speranza per un futuro
possibile.
Il discorso
non può essere riformista, ma deve essere rivoluzionario. Una
rivoluzione sociale e culturale, che ci faccia ricordare come l’essere umano
non è il padrone del mondo, ma una componente minima di un ecosistema grande
come la Terra e vario come l’universo. Una rivoluzione che non espunga il
conflitto come parola impronunciabile e che non deleghi al virtuale quello che
non può non essere un conflitto reale, come reale è la vita calpestata.
Bisogna
recuperare il senso del limite, smetterla con il mito della crescita infinita.
Nessuno è una monade. Dobbiamo avere ben chiare le connessioni tra esseri
viventi, altrimenti il disastro è alle porte e rischia di essere irreversibile.
Una rivoluzione culturale sì, ma anche sociale. Insieme si può, questo lo
abbiamo imparato in valle. Tanti piccoli, insieme, abbiamo una forza infinita.
Certo la lotta sarà dura, i contendenti sono parecchi, il nemico c’è e non si
disperderà. Ma l’importante è avere ben chiaro chi si ha di fronte e non
accettare mediazioni, sulla salvaguardia della salute e dell’ambiente, sulla
qualità della vita e del lavoro, sui veri bisogni per la felicità.
L’assetto
del mondo capitalista fa dell’essere umano e del pianeta uno strumento usa e
getta, riduce tutto a oggetto, sfruttamento, discarica: un mondo brutto,
triste, pieno di dolore e di morte. E bisogna sfuggire alle secche
dell’informazione di regime, quella che chiama progresso la devastazione, che
criminalizza il dissenso e le istanze di chi lotta per il futuro vivibile per
tutti. E ricordare che la verità è rivoluzionaria e che c’è altro oltre ai mass
media di regime, c’è un mondo di controinformazione, lo stesso che attivammo e
praticammo dagli anni ’70 in poi e che fu messo a tacere dalle prigioni e dalle
menzogne del Palazzo.
Se vogliamo
uscire dalle sabbie mobili del presente, il primo errore da evitare è la
delega. La delega fa male a chi la dà e a chi la riceve, è indispensabile
continuare ad avere la forza dell’utopia. Ho vissuto la mia adolescenza e
la prima giovinezza negli anni ’60-’70 e di quei tempi non ho dimenticato
l’assalto al cielo, il senso della collettività conquistata nella dimensione di
un’uguaglianza eretica, che significava “ricevere da ognuno secondo le proprie
possibilità e dare ad ognuno secondo i suoi bisogni”, secondo l’antica regola
che, con la lotta NO TAV, sperimentammo nella libera Repubblica della
Maddalena, strozzata nel 2011 dall’esercito e dalla repressione poliziesca, ma
che ci permise di sperimentare concretamente un modello di vita altro.
Ci vuole
grande umanità, ma senza confondere oppressore e oppresso, nella chiarezza e
nella radicalità del conflitto; senza rompere le fila e trovando, nella lotta
concreta, i legami collettivi che sono la sola vera forza degli oppressi.
Crescere insieme nella lotta.
In molti
giovani di oggi vedo le vittime di tanto silenzio e diseducazione, frutto
dell’abbandono degli ultimi 30-40 anni e della mistificazione della memoria che
il potere ha sparso a piene mani sulle ceneri delle lotte passate. A loro è
stato offerto il mito del consumismo e l’egoismo individualistico, della
competizione che è guerra tra poveri, del “successo” che si conquista solo
calpestando la vita altrui.
Giovani
educati su falsi miti, ma che ora si stanno risvegliando. Ho molta fiducia nei
giovanissimi, i nostri nipoti, che si trovano in eredità un mondo morente, ma
che cercano aria e vivibilità per sé e per chi verrà dopo: la questione
climatica, la sensibilità nei confronti della natura, una precarietà che non
vogliono accettare come condanna ineluttabile.
Credo e
spero nel “mondo salvato dai ragazzini”, quei ragazzini che vediamo impegnati
là dove parrebbe esserci soltanto ingiustizia e nessuna rivolta, quelli che
respirano insieme a noi i lacrimogeni dell’aggressione del TAV e, come noi,
sono oggetto di repressione delle questure, dei tribunali e delle carceri.
Quelli che danno rifugio e appoggio a chi è in cammino sulle rotte dei
migranti, quelli che, come e meglio di noi, non hanno rinunciato all’utopia di un mondo diverso possibile.
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