La
civiltà del ginocchio sul collo - Alessandro
Portelli
C’è qualcosa
di mitologico nell’immagine del poliziotto col ginocchio sul collo della
vittima a Minneapolis – San Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la
divinità purissima che schiaccia il serpente, il cacciatore bianco
sull’elefante o il rinoceronte ucciso in safari… Figure della vittoria della
virtù sulla bestia, dello spirito sulla natura, della civiltà sul mondo
selvaggio … E del bianco sul nero.
Così deve
essersi sentito il poliziotto Dereck Chauvin, domatore sul corpo prostrato di
George Floyd in mezzo alla strada davanti a tutti. Ma in questa immagine il
senso si capovolge: l’animale è quello che sta sopra e calpesta, e la vittima
calpestata è quella che invoca il più umano e il più simbolico dei diritti: il
respiro, vita del corpo e soffio dello spirito. A Minneapolis, la civiltà è la
bestia, l’ordine è selvaggio, la legge è l’arbitrio, l’umanità è soffocata e
soppressa. Jack London lo chiamava il Tallone di ferro.
Stavolta è
un ginocchio, a New York al collo di Eric Garner era un braccio; ma la sostanza
è la stessa. Anche per questo in strada non sono scesi solo i fratelli e le
sorelle afroamericani, i più prossimi alla vittima, ma anche tanti di quelli –
bianchi e latini, uomini e donne – che sempre più si sentono sul collo il
ginocchio mortale della disuguaglianza crescente, della precarietà della
sussistenza, della perdita dei diritti, dello svuotamento della democrazia.
Come il drago, il rettile, la selvaggina nelle icone, questi esseri umani non
hanno diritto di parola nell’agiografia vittoriosa del potere. Il respiro
spezzato di George Floyd e di Eric Garner è anche una figura della loro voce
negata.
È una parte
di America senza diritto di parola, senza voto e senza rappresentanza quella
che è esplosa in tutto il paese. Lo stato è in mano a forze che lo pensano come
potere di dominio senza responsabilità di governo; quando il paese diventa
ingovernabile sanno solo minacciare sparatorie ed evocare «cani feroci» da
scagliare addosso ai manifestanti – salvo nascondersi nel bunker come un dittatorello
spaventato dai suoi stessi sudditi.
Peraltro, la
vigliaccheria è funzionale anche a un consapevole disegno politico:
drammatizzare la situazione, accentuare il conflitto, radicalizzare le aree di
consenso su cui si basa il sostegno elettorale di Trump, far dimenticare la
disastrosa gestione dell’emergenza sanitaria, cogliere l’occasione per
criminalizzare il dissenso. C’è un’intenzionale parallelismo fra il gesto di
Trump di scendere nel bunker e quello del vicepresidente Cheney dopo l’11
settembre: come dire che questa crisi è la stessa di allora (e i «terroristi»
sono gli «antifa») e legittima la stessa politica securitaria, le stesse
violazioni e sospensioni della democrazia di allora.
Né
l’alternativa possono essere le parole flebili, convenzionali, di prammatica (e
soprattutto: parole, in un momento che avrebbe bisogno di azioni, di gesti
significativi) che sono venute da Biden e del partito cosiddetto democratico,
che peraltro di scheletri nell’armadio ne ha fin troppi.
Fino a una
settimana fa, la più plausibile candidata democratica alla vicepresidenza era
Amy Klobuchar, ex pubblico ministero della contea di Minneapolis, che in quanto
tale aveva lasciato correre, e anzi appoggiato, l’aggressività endemica della
polizia ed era perfino accusata di aver lasciato indenne in un caso precedente
lo stesso Derek Chauvin. Anche se è ormai chiaro che non sarà lei la prescelta,
l’avere solo pensato a lei per la vicepresidenza (e quindi in futuro anche per
una possibile candidatura presidenziale) ci dice quanto questi temi fossero
estranei alla visione della leadership democratica.
La sola
opposizione in questo momento sta nelle strade. La «violenza» non piace a
nessuno; ma se i senza parola non avessero alzato la voce Dereck Chauvin
l’avrebbe fatta franca come sempre e come tutti gli altri; e se non avessero
parlato con il fuoco nelle strade, le istituzioni si sarebbero limitate a
licenziarlo ma non l’avrebbero, troppo tardi, incriminato. Tutti applaudivano
quando un grande scrittore come James Baldwin, sugli echi biblici di un grande
spiritual, ammoniva: la prossima volta il fuoco.
Bene, la
prossima volta è questa, il commissariato di polizia a Minneapolis brucia
davvero. E ora che le parole di Baldwin diventano fatti, tutti a stigmatizzare
la violenza come se non li avessero avvertiti prima, invece di domandarsi che
cosa potevamo fare perché non fosse ancora una volta inevitabile e che cosa
dovremo fare, quando i fuochi sembreranno spegnersi, perché non sia necessario
che divampino un’altra volta.
Per fortuna,
nelle strade d’America c’è stato anche il gesto concreto di un’altra
opposizione, che segna davvero una novità storica – e viene da gruppi
imprevisti di lavoratori. Hanno cominciato gli autisti degli autobus di
Minneapolis, rifiutandosi di potare in carcere i manifestanti arrestati. Ma il
messaggio più potente viene propria da dentro quello che sarebbe il campo
avverso: sono i poliziotti che si uniscono ai cortei dei manifestanti, che
solidarizzano con la protesta, che dicono basta alla solidarietà a priori con i
propri colleghi picchiatori e assassini.
Mi colpisce
che gli episodi più clamorosi vengano da realtà con un forte potere simbolico:
Camden, New Jersey (città di Walt Whitman, poeta della democrazia, e periferia
disastrata), Flint, Michigan (la città operaia della General Motors e Michael
Moore, avvelenata dagli scarichi industriali nelle acque col silenzio del
governo federale), e soprattutto Ferguson, Missouri, la città dove l’assassinio
di Michael Brown e la repressione militare della protesta hanno aperto nel 2014
una nuova fase che culmina (per ora) con gli eventi di oggi.
A Ferguson,
la polizia era armata come un esercito di occupazione, e addestrata a pensare
ai manifestanti, letteralmente, come «nemici». Che poliziotti di Ferguson si
inginocchino in omaggio a un afroamericano ammazzato da uno come loro significa
che c’è un limite a tutto, che questo limite è stato oltrepassato, e che
qualche coscienza comincia a cambiare. Forse non basta, ma non era mai successo
prima. Forse, adesso che il drago si scuote, anche San Giorgio comincia ad avere
qualche dubbio.
George Floyd, ho letto la perizia dell’autopsia: certi referti sono cortine fumogene - Andrea Bocconi
Come psicologo devo stare molto attento non solo a
quello che dicono le parole, ma anche a quello che celano, e al sottotesto, ovvero a tutti gli impliciti
del discorso. Sono andato a controllare il testo in inglese dell’autopsia
preliminare di George Floyd. La traduzione apparsa
sui giornali italiani mi sembra fedele.
Il medico legale scrive che non ci sarebbero evidenze fisiche che possano supportare una diagnosi
di strangolamento o asfissia traumatica. È una formula anodina, che non esclude del tutto, ma sottolinea che non
ci sono prove. La domanda che sorge è: se non è morto per quel ginocchio sul
collo per nove minuti, che gli faceva dire “non respiro”, di che è morto?
La risposta è ricca di ipotesi. La combinazione
di tre elementi: essere
fermati dalla polizia, patologie pregresse, una sostanza intossicante presente
nel corpo di Floyd. La prima mi preoccupa particolarmente: se mi ferma la
polizia effettivamente provo un certo batticuore, anche se ho tutto in regola.
Immagino di non essere l’unico. Se poi uno soffre di ipertensione (e qua non si
dice se Floyd ne soffriva, come tanti dopo i quaranta in forma lieve, media,
gravissima) la situazione si aggrava: il mio batticuore potrebbe diventare un
infarto. Quanto poi alla sostanza intossicante, quale era? Aveva bevuto un
whisky? Si era fatto una canna? Aveva preso anfetamine? Dove è la perizia
tossicologica?
Qua le parole sono state scelte con cura, per non
dire, per suggerire la disgrazia, il
caso sfortunato, per spacciare per rilievi scientifici, tatti, quelle che sono
solo ipotesi, le più favorevoli per la polizia. Certi referti sono cortine fumogene, lo abbiamo visto anche in Italia,
vedi il caso Cucchi.
Peccato per il poliziotto che ci siano i video,
altrimenti si poteva sostenere che era morto di spavento: questi neri son molto
emotivi, si sa. Ci sta, perché la polizia americana tende
ad avere il grilletto facile con i neri. Ne uccide un numero sei volte
superiore a quello dei bianchi. Chi non si spaventerebbe ad essere fermato
dalla polizia di Minneapolis, che ha una pessima reputazione di razzismo?
Lo dice Marlon James,
scrittore vincitore del Booker Prize che
in quella strada di Minneapolis ha vissuto, nell’intervista su Republica di sabato. Ma è afroamericano. Mi
piacerebbe sapere qualcosa di più del medico legale. Tiro a indovinare: non è
nero.
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