In questi giorni, molte persone colte che non
avevano visto niente di biasimevole nella distruzione o rimozione delle statue
di Marx e Lenin in Europa orientale si sono sentite offese dalla rivendicazione
(e dalla pratica) dei movimenti afroamericani negli Stati Uniti di rimuovere le
statue dei generali e degli uomini politici del Sud schiavista.
A
quanto pare, non avere più il monumento a Robert E. Lee nel centro di
Charleston o Richmond, sarebbe un’offesa alla memoria, una cancellazione della
storia, un insulto alla cultura.
Partiamo
da noi. Ogni volta che vado allo Stadio Olimpico rimpiango di non avere una gru
con cui rimuovere l’obelisco che in pieno terzo millennio proclama «Mussolini
Dux», o almeno qualcuno di quei tetragoni blocchi di travertino dedicati alle
conquiste del regime fascista che stanno lì come forche caudine (per non dire
dei mosaici con l’ossessiva scritta «Duce» che almeno mi metto sotto i piedi).
UNA STATUA, UN OBELISCO, il nome di una strada o di
una piazza non servono a ricordare che queste persone sono esistite ma a
celebrarle, segnando con la loro presenza lo spazio pubblico. Perciò è proprio
in nome della memoria e della storia che non sopporto quei blocchi di
travertino, che non sono storia ma una falsificazione, una menzogna di regime
scolpita nella pietra; e che non riconosco «memoria» in quell’obelisco: non è
certo per questo che ci ricordiamo di che cosa è stato Mussolini; e Robert E.
Lee gli afroamericani se lo sentono sul collo tutti i giorni anche senza
bisogno di intitolargli la strada principale di New Orleans. Come qualcuno ha
detto: non ci sono statue di Hitler in Germania. Eppure se lo ricordano
benissimo.
Un
monumento esiste perché qualcuno l’ha eretto, e l’ha eretto con qualche
intenzione: è un messaggio, un segno di quelle intenzioni. Così, quasi tutte le
statue dei gerarchi sudisti sono state erette a cavallo del ‘900 per sancire il
consolidamento della segregazione razziale, o ancora negli anni ’50 come
reazione al movimento per i diritti civili (allo stesso modo, intitolare oggi
strade a Giorgio Almirante non serve a ricordare un discutibile passato, ma a
proporne la continuità e il ritorno). Queste icone, lungi dallo svolgere una
funzione di storia e memoria, impongono una sola memoria su tutte le altre,
congelano la storia in un passato monumentale e negano tutta la storia che è
venuta dopo.
In
quanto segni, i monumenti, i nomi, le opere d’arte mutano di senso col mutare
dei tempi storici. Parte dello scandalo riguarda, per esempio, la rimozione di Via col Vento dal
catalogo della Hbo. Ora, a parte il fatto che la Hbo è un’impresa privata e non
possiamo obbligarla a trasmettere qualcosa se non gli va, per fortuna nessuno
ha proposto di bruciare in piazza le copie del film. Ci saranno sempre altri
distributori per farlo circolare, e cineteche per conservarlo. Negli anni ’30,
la sopravvivenza del Sud alla sconfitta nella Guerra Civile era anche una
metafora della capacità degli Stati Uniti di sopravvivere (con ogni mezzo:
«anche se dovessi rubare e uccidere», dice Scarlett) alla crisi economica.
Oggi, la domanda è semmai perché due epici capolavori del cinema americano –
l’altro è Nascita di una Nazione – siano dedicati alla nostalgia dello schiavismo e
del KuKluxKlan. Che cosa è stata Hollywood, e quanto è diversa, se lo è, oggi?
LA MEMORIA non è semplicemente il
deposito di un tempo passato, di un’epoca conchiusa, ma una forza attiva nel
presente. Nel piccolo dibattito nostrano, ho sentito dire che se «censuriamo» Via col Vento e
Robert E. Lee, allora dovremmo rimuovere anche le statue dell’imperialista
Giulio Cesare o la Colonna Traiana che racconta la conquista della Dacia. La
riduzione all’assurdo è sempre un segno di debolezza dell’argomentazione; ma io
direi che la differenza sta nel tempo – non nel tempo trascorso ma nel tempo
presente. Robert E. Lee e i suoi pari non sono pericolosi perché ricordano una
guerra dell’800 ma perché legittimano la centralità del razzismo nel terzo
millennio.
Di
Giulio Cesare e Traiano mi preoccuperei se qualcuno adesso progettasse di
invadere la Gallia o impadronirsi della Dacia (e infatti di loro si è
ampiamente servito l’Impero Fascista quando voleva rinnovare i fasti di Roma
Imperiale). Posso un po’ faticosamente convivere con Corso Regina Margherita o
piazza Vittorio perché nessuno pensa seriamente di far tornare il re; ma è più
difficile convivere con «Mussolini Dux» perché non solo serve a celebrare quel
passato, ma legittima adesso i fascisti che poi trovo dentro lo stadio, Forza
Nuova, Casa Pound, Fratelli d’Italia, ed è adesso che mi fa paura. Comunque
sono contento che Black Lives Matter induca qualcuno a ricordarsi di cosa c’è
su quella colonna.
IN OGNI FRATTURA culturale, come quella
che stiamo vivendo, non mancano ambiguità, confini sfumati. Sempre per partire
da noi: io non esito a schierarmi su Robert E. Lee o Mussolini, ma fatico di
più con Cristoforo Colombo. A differenza dei razzisti e dei fascisti, Colombo
non è «altro» da me; fin da bambino me l’hanno instillato come gloriosa storia
patria di mezzo millennio fa, parte della mia identità. Ma per i nativi
americani rappresenta una violenza attuale (l’oleodotto sulle terre sacre dei
Dakota), una discriminazione presente e in atto (sono percentualmente uccisi
dalla polizia anche più degli afroamericani). Guardare quella statua a Columbus
Circle con i loro occhi è faticoso, per un italiano, perché ci impone di
riconoscere che non siamo quello che ci hanno insegnato a credere di essere. Ma
va fatto comunque.
Anche
perché non siamo più gli stessi. Oggi anche l’Europa comincia a somigliare alla
multietnicità americana, con gli stessi problemi e conflitti. A Bristol si sono
sbarazzati della brutta statua di uno schiavista che deturpava la città. Forse
si potrà rimuovere o spostare le statue di Leopoldo II, uno dei peggiori
criminali della storia dell’umanità, dalle piazze di un paese nella cui
nazionale giocano cittadini belgi di nome Nainggolan e Lukaku. E forse la
Colonna Traiana può farci interrogare anche su come trattiamo quei discendenti
dei Daci che vengono in Italia a lavorare, e i loro figli a cui rifiutiamo la
cittadinanza.
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