Le
lodi delle magnifiche sorti e progressive
della didattica a distanza le lascio fuori da questo spazio, perché a essere
larghi, di tutte le considerazioni possibili, quelle a favore sono al massimo
il 5%.
Sento
già gli entusiasti della dad (sempre minuscola) fremere, chi si contenta frema
e goda.
Mi
ricordano quei chirurghi che, alla domande dei parenti del malato, rispondono
che l’operazione è andata bene, ma il paziente è morto.
Per
la dad è lo stesso, l’operazione, per chi voleva guadagnare, in tutti i sensi,
è andata bene, peccato che la scuola è morta, per quest’anno.
Ho
avuto accesso ai risultati di un questionario inviato alle studentesse e
studenti delle scuole superiori.
Indico
alcune risposte significative.
Alla
domanda che cosa ti piace di più della dad le risposte più frequenti sono
state: non devo uscire e sto a casa in
pigiama, e poi si studiano molte meno
cose che a scuola.
Chiunque
può capire perché qualcuno ami la dad, motivi chiaramente di ordine culturale,
non ci sono dubbi.
Alla
domanda se è più facile imbrogliare i
docenti a scuola o con la dad, il 99% delle studentesse e degli studenti
(senza mettersi d’accordo) risponde che con la dad è più facile imbrogliare (quale
docente non ha visto ombre di genitori, gli occhi verso il telefonino o il
libro, se la videocamera era accesa?)
Alla
domanda se si impara più a scuola o con
la dad, il 99% delle studentesse e degli studenti (senza mettersi
d’accordo) risponde che si impara più a scuola.
Alla
domanda se valgono di più i voti a scuola
o con la dad, il 99% delle studentesse e degli studenti (senza mettersi d’accordo) risponde che valgono di più i voti a scuola.
Certo,
le domande erano troppo chiare, e anonime, ma se fossero state più
ingarbugliate e non anonime, i risultati sarebbero stati ben diversi, sostiene il
dott. Mangiafuoco, nuovo direttore magnifico del settore Comunicazione e
Propaganda del Ministero della Scuola (appena arrivato, con un curriculum
strepitoso, dal diplomificio Il paese dei
Balocchi).
E
mi torna in mente una frase di Frank
Zappa, sempre più vera, a causa anche della dad:
Se volete
diventare pigri e stupidi andate al college o all'università. Ma se volete farvi
un'educazione andate in biblioteca.
Alcune
domande:
Tutti
promossi vuol dire, per pochi o molti non importa, che l’anno prossimo si potranno
fare due anni in uno (il prossimo anno scolastico e questo), il messaggio è che
anche i ragazzi più deboli potranno fare due anni in uno.
E quando il prossimo anno il Ministero della Scuola rilascerà una nota, firmata dal dott. Mangiafuoco, chiedendo, suggerendo, spingendo, consigliando, raccomandando di non penalizzare troppo i promossi ex Covid-19 di quest’anno?
Peggio di una bocciatura c'è solo una promozione ex Covid 19.
E quando il prossimo anno il Ministero della Scuola rilascerà una nota, firmata dal dott. Mangiafuoco, chiedendo, suggerendo, spingendo, consigliando, raccomandando di non penalizzare troppo i promossi ex Covid-19 di quest’anno?
Peggio di una bocciatura c'è solo una promozione ex Covid 19.
Al
Ministero sanno cosa sono gli hikikomori (qui, qui e qui)? Ragazze e
ragazzi che amano stare chiusi in casa non sono un campanello d’allarme
evidente? Per loro, come per tutti la scuola deve avere e ha anche un effetto
terapeutico, e li si lascia chiusi in casa, con qualche psicofarmaco, a volte? Che effetto avrà su di loro la dad?
Ps:
ascolto certi studenti (novelli hikikomori) tentati dall’Università a distanza,
ho provato a dissuaderli, così:
in Italia fino a pochi anni fa le università a distanza erano luoghi come
il recupero anni delle superiori, spesso un imbroglio. negli ultimi anni anche
alcune università pubbliche hanno iniziato, e fanno cose decenti, ma non potrà
mai essere la stessa cosa.
ci sono dei casi in cui le università a distanza possono essere utili, per chi ha problemi fisici, per
i carcerati, per chi ha un lavoro, per chi è troppo povero per vivere fuori (ma
ci devono essere le borse di studio, almeno per i capaci e meritevoli).
il valore aggiunto che dà l'università vera (nel senso non a distanza) è
molto alto, si conoscono altre persone, si vede il mondo, si apre il cervello
(non nel senso delle autopsie).
Forse sono riuscito a dissuaderli, per ora, ma se uscirà un regolamento che semplificherà gli esami se a distanza?
Mi
sembra che siamo a uno snodo importante, un salto
di specie, per la scuola e l’università, che era sottotraccia, neanche tanto, ma la dad ha
reso evidente (alcuni articoli sotto riportati lo segnalano chiaramente).
Associazione
Nazionale Presidi: fine della scuola della Costituzione e pieni poteri al capo
- Giovanni
Carosotti, Rossella Latempa
Il documento pubblicato il 25 maggio scorso
dall’Associazione Nazionale Presidi (ANP) più che un elenco di proposte per la
riapertura delle scuola è un progetto politico di riforma del sistema di
istruzione del paese, che potremmo sintetizzare così: fine della scuola della
Costituzione.
Il pregio
dell’Associazione di dirigenti è quello di parlar chiaro. Alcuni lettori forse
ricorderanno l’illuminante locuzione di “docenti contrastivi” con cui all’epoca
dell’introduzione dell’organico di potenziamento -ex legge 107/2015 –
l’Associazione definì quegli insegnanti di cui i dirigenti avrebbero potuto
“sbarazzarsi” legittimamente, destinandoli ad attività differenziate dal
semplice orario di cattedra, perché non allineati o non desiderosi di
sottomettersi alla logica autoritaria che la Buona Scuola intendeva imporre
alla vita collegiale degli istituti. Anche in questa circostanza, i dirigenti
ANP non perdono occasione per rilanciare e imprimere un’accelerazione al
processo di trasformazione della forma-scuola. L’intenzione è chiara fin dalle
prime righe: mettere a profitto l’emergenza e la didattica a distanza
ormai in via di consolidamento per riconfigurare giuridicamente il profilo dei
lavoratori della scuola su base gerarchica.
La “riorganizzazione
delle modalità operative della scuola”, da cui prende avvio la loro
proposta parte dunque da una precisa definizione di scuola: “servizio
da erogare capace di produrre apprendimento”, integrato nel “sistema
Italia”. È questa l’idea di scuola dei dirigenti ANP. E coerentemente a
tale idea deve procedere la sua riorganizzazione.
Il progetto
è ambizioso, esposto in vari punti, a partire dagli aspetti di gestione e
organizzazione del personale, fino a quelli didattico-metodologici.
1) E-government della scuola
I dirigenti
ritengono sia questa “un’esigenza primaria”, per gestire efficientemente
gli aspetti organizzativi, in linea con gli altri enti pubblici. La Scuola,
dunque, ente tra gli enti, deve poter “servire i cittadini e le imprese nel
miglior modo possibile”. Soprattutto quando l’emergenza sarà passata e
saremo in piena crisi economica. Significativa, in tal senso, è l’affermazione
per cui la scuola svolga “una funzione generativa
all’interno del welfare generale, “facendo rete” con tutti i
soggetti portatori di interesse”, che conduce ad una vera e propria
distorsione del concetto stesso di welfare, inteso come nuovo
scenario di partenariato pubblico-privato.
2) Pieni poteri
La scuola “non
potrà replicare il modello precedente all’emergenza” e il dirigente
scolastico non potrà più avere lacci e lacciuoli, ovvero quei “vincoli e
costrizioni che nulla hanno a che fare con il principio costituzionale del buon
andamento”[1].
Dopo lo “scudo penale” chiesto in materia di
sicurezza (anche qui) , ora i dirigenti vogliono pieni
poteri, in nome dell’efficienza e della funzionalità.
Si legge infatti che in futuro sarà necessaria una:
Si legge infatti che in futuro sarà necessaria una:
“Valorizzazione
del ruolo dei dirigenti scolastici in materia di scelte organizzative e
gestionali, sull’esempio di quanto avvenuto durante la fase emergenziale (..). Si devono
quindi eliminare, quanto più possibile, i vincoli burocratici e gli
ostacoli organizzativi che impediscono ai dirigenti di assumere con la dovuta
celerità le decisioni inerenti alla gestione delle risorse umane,
economiche e logistiche.”
Una
richiesta che evidenzia il totale disprezzo per il confronto democratico
all’interno dell’istituzione scolastica, tra le diverse categorie di lavoratori
che vi partecipano.
3) Il Middle Management
Vecchio
cavallo di battaglia dei dirigenti ANP è la differenziazione di carriera,
professionale, salariale dei docenti e la loro riorganizzazione gerarchica. Gli
“expert teacher”, come li
chiama il Presidente dell’Associazione, saranno quei “docenti
evoluti” che lavoreranno “in collaborazione più marcata con la dirigenza”,
scelti discrezionalmente. Dovrà essere possibile, nella scuola post Covid,
individuare tali “figure quadro” (middle management) il cui ruolo di
supporto al “capo” è “non più rinviabile”. Si tratta, di fatto, di
differenziare il grado più o meno elevato di collaborazionismo tra i docenti,
per minarne la solidarietà interna; prevedendo diverse scale stipendiali a
seconda del grado di fedeltà, in nome di possibili incentivi salariali
assegnati per tutta una serie di funzioni che nulla avranno a che fare con
l’attività e la cura dell’insegnamento.
4) Rimodulazione della professionalità docente
e dei gruppi classe
I non
prescelti all’interno delle figure di quadri intermedi dovranno dedicarsi
soltanto ad “agevolare il processo di formazione in uno scenario orientato
alla cultura della competenza”. In maniera inequivocabile si invoca
qui la definitiva trasformazione della professionalità docente, il cui profilo
culturale e politico va annientato in nome dello pseudo-concetto di competenza,
ovviamente spacciato dall’ANP quale «apprendimento autentico», in contrasto con
quello evidentemente impressionistico degli insegnanti d’esperienza. Concetto
tanto inconsistente teoricamente quanto concretamente utile a riprogettare
l’intero impianto scolastico, come sarà chiaro anche dai punti successivi. In
quest’ottica va letta la “rimodulazione oraria delle relazioni
classi-gruppi-docenti”. L’idea che il gruppo classe non sia necessario per
lo svolgimento di un percorso di crescita culturale, è connessa a quella per
cui ciascuno debba essere messo in grado di perseguire obiettivi individuali di
competenza. Surreale che questo venga proposto proprio in epoca di riscoperta
del carattere prezioso e insostituibile dell’interazione collettiva, mancata in
questi mesi.
5) Contratti snelli
La
necessaria riorganizzazione interna delle autonomie scolastiche richiederà
“interventi
di sistema che aggiornino lo sfondo normativo” e che “eliminino le numerose
incongruenze e contraddizioni che hanno impedito all’autonomia di svilupparsi
appieno”.
Il personale
ATA, amministrativo e tecnico ausiliario, dovrà “agire in sinergia alla
riprogettazione”, i docenti dovranno “superare la rigida delimitazione a
18 ore della tradizionale cattedra”, i dirigenti dovranno gestire “fondi
a (loro) disposizione per compensare il lavoro straordinario del personale”.
Tradotto in
termini concreti: smantellare il Contratto Collettivo Nazionale.
Ridotte al minimo le relazioni sindacali e assegnati al capo i pieni poteri
salariali, in qualità di datore di lavoro, l’autonomia scolastica potrà
finalmente, e in pieno stile confindustriale, dare i suoi frutti. Scuole aperte
8-10 ore al giorno, lavoratori flessibili, definizione di costi-standard per
alunno. Un modello ben noto, di tipo privatistico, votato alla soddisfazione
degli utenti-clienti e dei vari stakeholders che ha trovato finora applicazione
nelle scuole private, con risultati evidenti e
ben giudicabili da tutti.
6) Superamento dei Decreti Delegati
Il retaggio
novecentesco degli organi collegiali, le cui competenze, secondo l’Associazione
Nazionale Presidi sono “anacronisticamente ferme a disposizioni
legislative emanate nel lontano 1974 e .. in stridente contrasto con le
prerogative dirigenziali” va regolato una volta per tutte, aggiornando
“la governance” della scuola ai nuovi profili di alleggerita
funzionalità verticistica, come preteso dai dirigenti.
7) Dante o i Beatles?
Di pari
passo con la riorganizzazione interna (tempi, profili contrattuali, competenze
distribuite) dovrà essere attuata l’essenzializzazione dei percorsi culturali.
Sul portale La letteratura e noi Daniele Lo
Vetere testimoniava qualche settimana fa quanto affermato proprio dal
Presidente Giannelli dell’Associazione Nazionale Presidi ai microfoni di sky
tg24. Studiare i Beatles o Dante, non fa differenza ai fini di un certo
obiettivo di apprendimento. I contenuti contano meno della motivazione. Se la
finalità è la competenza del sapere argomentare, tanto vale guadagnarla
attraverso un testo ben più coinvolgente per gli studenti, come una canzone dei
Beatles, sacrificando il noioso Dante. Poco importa che gli studenti possano
concludere il loro ciclo di studi senza neanche sapere chi fosse costui, e non
averne letto neanche una riga. Non è questo ciò che sarà loro richiesto dal
mercato del lavoro. Accettare l’ignoranza come effetto collaterale della
crescita, in fondo, è un fardello sopportabile. E dovrà esserlo ancor più in
piena crisi post Covid. E si ha l’ardire di chiamare tale distruzione di
cultura “apprendimento autentico”.
Tra le
proposte leggiamo “la necessità di selezionare efficacemente i contenuti da
trattare, di proporre le azioni in grado di sostenere la motivazione degli
alunni e la partecipazione ai processi non più solo degli attori, ma anche
di soggetti che siano portatori di risorse utili in termini di
competenza (esperti, produzioni fruibili di musei/biblioteche/enti di
ricerca/reti televisive…)”
Bisogna
dunque concentrarsi su pochi nodi concettuali, dare spazio a soggetti altri
dagli attori scolastici, (“portatori di risorse utili” ) e
conseguentemente scardinare il sistema di valutazione degli apprendimenti per “integrare
i voti in decimi con livelli di competenza e relative certificazioni” . Per
i dirigenti ANP infatti la valutazione “non ha solo lo scopo di misurare le
conoscenze apprese, ma anche e soprattutto quello di certificare le
abilità e le competenze acquisite dall’alunno”.
Quest’ultimo
aspetto, dal sapore a prima vista vagamente progressista (abbasso i voti, largo
alla valutazione “formativa”) cela una più retriva volontà di destrutturazione
dell’attuale impianto culturale e istituzionale (vedi titoli di studio e relativo
superamento in favore di certificazioni individuali delle competenze)
dell’istruzione pubblica e del suo compito e orizzonte egualitario di
promozione sociale (come più volte sottolineato: qui, e qui, qui ad esempio). Inoltre, il termine
“certificazione”, ossia un’ attestazione analitica delle
abilità dello studente, non potrà che chiamare in causa il rafforzato
ruolo dell’Istituto Nazionale di Valutazione INVALSI, a cui oggi è
stata “appaltata” l’unica forma di valutazione dichiarata “attendibile” , dalla sua
stessa Presidente, Anna Maria Ajello, in spregio alla funzione della
valutazione professionale dell’insegnante, ossia della sua capacità di
esprimere e sostenere un giudizio contestualizzato, soggettivo e – proprio per
questo – significativo.
8) DAD (or alive?)
La didattica
a distanza (DAD) e lo smart working, “indispensabili supporti formativi e di
organizzazione” potrebbero diventare una “componente curricolare”
alla ripresa. L’uguaglianza di opportunità, riformulata in chiave digitale,
prevede che sia fornito a ciascuno studente un “device adeguatamente
performante con relativa connessione veloce”, come “precondizione
per l’accesso all’istruzione a distanza”. Occorrerà poi un intervento
centrale per garantire connessione e digitalizzazione, tramite finanziamenti
europei. Non ultima, la formazione docenti, che richiederà “una
completa rivisitazione delle metodologie didattiche e dei relativi strumenti”
e sarà “il cardine di tutta la struttura curricolare gestita con la DAD”.
Una formazione “indispensabile e doverosa”. In una parola: obbligatoria
contrattualmente, oltre che ben incardinata metodologicamente.
9) Design thinking e visioni multiprospettiche
Nella parte
conclusiva del documento, dedicata al punto più delicato, ossia
l’organizzazione didattica, si ricorre alla consueta retorica di mascherare la
propria inconsistenza teorica attraverso l’uso di un lessico falsamente
specialistico, con l’obiettivo di ammantare di scientificità un impianto di
potente torsione autoritaria, per nulla fondato sul piano epistemologico. Da
una parte, in una scuola totalmente asservita alla logica di mercato, con un comando
di carattere verticale che riduce i docenti a semplice manodopera che deve
applicare procedure decise da altri, parlare di «visioni multipropsettiche»
risulta alquanto grottesco. Sul piano stilistico, tuttavia, lasciamo, in questo
caso – laddove si illustra la metodologia del design thinking –
alla voce dell’ANP pieno spazio e al lettore le conclusioni del caso:
“pianificare
una formazione “su misura” del singolo, inserito nel proprio contesto
scolastico, familiare e socioculturale, impegnandosi in una riprogettazione
dinamica dell’architettura formativa che sia collegata alle svariate
possibilità della didattica digitale, attraverso l’attenta orchestrazione delle
situazioni comunicative, dei contesti relazionali in cui si fa scuola, della
garanzia di inclusione, multidisciplinarità, intercultura”.
La proposta
politica dell’Associazione Nazionale Presidi è estremistica: fa a pezzi il
tessuto collettivo-culturale e professionale dell’istruzione pubblica in nome
dell’efficientamento del “servizio da erogare”, reinterpretato come diritto
costituzionale, capovolge lo spirito stesso del disegno costituzionale,
sostituendo ai principi di pluralismo e libertà di insegnamento quelli della
concorrenza (più autonomia!) e della fedeltà al capo. La Scuola dell’Associazione
Nazionale Presidi non è un’istituzione, né tanto meno un organo costituzionale.
E’ un’impresa. E l’istruzione è semplicemente un “segnale”, un fatto
individuale, da acquisire e rivendersi nel mercato del lavoro, in perfetta
linea con il pensiero economico prevalente.
[1] Principio, sancito dall’articolo 97, letto secondo criteri che lo
portano a confliggere con gli articoli 33 e 34.
Teledidattica
in assenza - Davide Viero
L’educazione si caratterizza per il suo particolare dislocamento tra piani
diversi: tra presente e futuro, tra visibile ed invisibile, tra ancora e non
ancora. Proprio in virtù di questo fatto l’agire educativo non può procedere in
modo automatico, bensì deve essere la risultante di un soggetto che tiene
presente una molteplicità di fattori. In particolar modo, deve tenerli tutti
presenti nella mediazione col fine di ogni insegnamento, ovvero con l’infinito
compimento dell’allievo. Di ogni allievo.
Se già Marx aveva intuito che le trasformazioni avvengono sempre su base
materiale, si tratta oggi di dover decidere se subire le trasformazioni che la
realtà ci mette di fronte, oppure se creare nuove condizioni materiali
rispondenti al fine coincidente con questo compimento dell’uomo. Insegnare, in
questo caso, non vuol dire dare risposte immediate alle domande, ma capire le
condizioni che hanno fatto sorgere queste domande e rispondere a quelle. L’insegnante
è quindi colui che attiva una mediazione utopico/ideale.
Parimenti, se risulta importante considerare le condizioni materiali che
generano la realtà presente, altrettanto rilevante è la considerazione delle
conseguenze che questa realtà produce.
L’oggetto che sottoporrò attraverso questo prisma è la didattica a distanza
(DaD) o teledidattica in assenza. Essa non è che l’epitome delle
trasformazioni che hanno inondato la scuola nelle ultime decadi. Mi soffermerò
in modo sommario sulle condizioni di esistenza che l’hanno resa possibile e
fatta accettare senza riserve dalla maggior parte dei docenti, ovvero un
adeguamento della scuola e degli studenti al contesto epocale, tanto che esso è
affermato spudoratamente quasi fosse naturalmente coincidente col bene di ogni
soggetto, che così viene individuato attraverso canoni stabiliti a priori dalla
razionalità dominante. La sua sempre maggiore astrazione/oggettivazione
generale accresce l’importanza del raggiungimento di obiettivi demarcati ed
esterni al soggetto, con l’inversione mezzi-fini già individuata da oltre un
secolo dai più illuminati pensatori. Mezzi divenuti centrali perché permettono
il raggiungimento degli obiettivi così posti. Questi diventano un criterio di
selezione anche se, per lavarsi la coscienza in un’epoca dove l’inclusione è il
velo di Maya, si nasconde l’incuranza verso gli unfitness con
sigle quali DSA, BES, ADHD con le quali vengono dispensati o compensati con
ulteriori strumenti oggettivati e pratiche standardizzate nell’indifferenza verso
il ragazzo. Quando l’adeguamento all’esterno assume sempre più valore, la
scuola passa da istituzione collettiva ad istituzione elitaria, con una
somministrazione dell’educazione dispensata per coorti.
In questo scenario la mediazione informatica epocale diventa quella che
Baudrillard chiama matrice (con conseguenze performative e
preformatrici), nuovo sacro Graal che attira orde di feticisti, tali perché
invece dell’uomo essi mettono al centro l’oggetto, il mezzo, ovvero la
sinestesia.
Per quanto concerne le condizioni di esistenza, ci bastino queste molto
sommarie riflessioni. Diventa ora centrale analizzare le conseguenze della DaD
attraverso la mediazione utopico/ideale. Che scuola ne esce? Chi è
privilegiato? Chi sono gli oppressi? Vengono prodotti degli scarti?
Importante rilevare preliminarmente che, nella DaD, la scuola pubblica non
è più tale, dato che è la risultante di una commistione pubblico-privato.
Infatti in tale didattica si fa affidamento su dispositivi privati, quali
computer, tablet, telefoni, reti di connessione che, per quanto la scuola si
sforzi di dotare le famiglie con il comodato d’uso di tali strumenti, essi non
saranno mai sufficienti per tutti.
Inoltre è importante rilevare come il Ministero dell’Istruzione non sia sia
dotato di una piattaforma su cui attivare la DaD, per cui è costretto a fare
affidamento a servizi offerti dai grandi della Silicon Valley, con Google a
fare la parte del leone; con la conseguente raccolta dati quali la velocità di
esecuzione, gli interessi, gli argomenti trattati, il livello di bravura etc.
Tutti dati che, nonostante l’informativa privacy, vengono raccolti e, anche se
non ceduti a terzi o solo aggregati in forma anonima, vengono utilizzati (è
esplicitamente affermato) per scopi di implementazione della piattaforma. Che
cosa sia questa implementazione nessuno lo sa, anche se è facile intuirlo vista
qual è stata la strategia vincente di Google sul mercato della pubblicità.
Fare affidamento sul privato è oltretutto fonte di enormi differenze tra
chi vive in città e chi in frazione. Questo perché, data la diversa redditività
dei servizi, gli investimenti si concentrano dove c’è addensamento di
popolazione, tralasciando le periferie. Qui le reti di connessione sono perciò
molto più scadenti che nei centri urbani, con conseguenze didattiche rilevanti.
Inoltre, delegando gran parte dell’azione didattica alle famiglie, gli
effetti di questa sui ragazzi non possono che essere la conseguenza delle
caratteristiche delle stesse famiglie, in un movimento confermativo e non
emancipante. I figli di genitori con titoli di studio più elevati avranno
maggiori vantaggi, al pari di chi avrà genitori a casa dal lavoro; diversamente
svantaggiati saranno quei ragazzi senza colpa figli di genitori che lavorano o
che sono affidati a nonni poco tecnologici o chi per essi.
Inoltre ogni famiglia deve disporre di tanti strumenti quanti sono i figli
e, in caso di connessione, essa va divisa tra coloro che la usano, penalizzando
le famiglie con più figli e meno abbienti.
Altro punto critico è dovuto all’annullamento dei confini nell’era
telematica dove tutto si equivale sullo stesso piano, e ciò è riscontrabile a
diversi livelli. Il primo è la perdita del controllo da parte della scuola
rispetto alle condizioni di fruizione e ricezione della lezione a distanza, che
come abbiamo visto varia enormemente in relazione ai fattori contestuali.
Inoltre la lezione, una volta mandata nell’etere, può essere fruita dal mondo
intero, registrata, modificata e ripetuta ad libitum per
qualsiasi scopo, con quello che Baudrillard chiama “il delitto perfetto”,
ovvero la perdita della referenza ad un qualcosa di reale, con il conseguente
svanimento della verità.
Tale perdita di controllo la si ha anche nella valutazione, dal momento che
la misura stessa non è più controllabile, perché infinite sono le variabili che
la condizionano: dal genitore che suggerisce fino a tutti gli altri escamotage
verso cui il docente rimane cieco. Inoltre, grazie all’enorme influenza della
famiglia nella didattica, la valutazione cade sotto i colpi della misura
stessa, inverando l’acuta riflessione di don Milani secondo la quale “non
c’è cosa più ingiusta che fare parti uguali tra disuguali”.
La perdita di confini con il conseguente appiattimento su di una
monodimensione la si riscontra anche nel rapporto col tempo. A tutte le ore ci
sono comunicazioni da parte dei docenti, con la conseguenza che salta la
distinzione tra le temporalità diverse che caratterizzano la giornata.
L’appiattimento su di un’unica dimensione si verifica anche grazie all’uso
di dispositivi connessi e potentissimi nelle mani di ragazzi/bambini che non
posseggono ancora una struttura propria attraverso la quale attribuire senso a
ciò in cui si imbattono. Col pericolo di una formazione immediata o diversamente
mediata, senza più filtri di educatori consapevoli che possiedono cultura e
sapere. Inutile rimarcare come l’opera della scuola dovrebbe essere soprattutto
un’opera di mediazione, attraverso il passaggio tra più dimensioni, proprio per
superare l’immediatezza dello stato di natura.
Un altro aspetto che la DaD chiama in causa, contrariamente alla vulgata
riferita al suo carattere inclusivo verso quegli alunni con particolari
problematiche, è proprio l’elevato tasso di oggettivazione e standardizzazione con
cui essa si presenta. Infatti la lezione è uguale per tutti, tanto più se essa
è registrata così da non permettere la modulazione e le interazioni
maestro-allievo sul contenuto. Essa non rende giustizia all’allievo, di cui non
coglie i disagi, gli entusiasmi, le difficoltà e le passioni, ovvero ciò che
Simmel chiama la base di ogni lezione. Ma questa ingiustizia si propaga anche
dall’altra parte del filo, ovvero il versante dell’insegnante che non può
suscitare aspettative e curiosità anche solo con un’inflessione della voce o
con la sola presenza, controllate con la maestria dell’esperienza; tutte
possibilità significative di risveglio negate per ogni singolo in quel preciso
istante.
Se queste sono solo alcune riflessioni quasi immediate, se ne possono fare
anche di relative alla sfera epistemologica. Infatti la DaD non è solo una
didattica diversa: è un diverso modo di intendere l’educazione e
l’insegnamento, frutto di una razionalità strumentale dove, all’accresciuto
peso dell’esterno in forma di obiettivo da raggiungere, primeggiano i concetti
di efficacia ed efficienza, al di là o ben prima di ogni demarcazione frutto
del senso centrato sull’uomo. Questa didattica non fa che assumere, senza più
remore e diventandone anzi un vettore, la razionalità che produce il modello
liberista ormai tralignante in tutti gli ambiti della vita. Un modello
incurante nel rimuovere gli ostacoli al compimento di sé,
perché incentrato su obiettivi specifici esterni e sull’individualismo con cui
ci si relaziona ad essi. Il liberismo non si interroga mai sull’uomo e sulla
sua situazione di partenza, ma volge il suo sguardo solo sui punti di arrivo e,
in questa corsa iper competitiva e selettiva, nessuna attenzione è rivolta
verso chi è rimasto indietro per molteplici cause; al contrario la soluzione
proposta da parte di tale razionalità alle difficoltà, sembra essere quella di
un’ulteriore liberizzazione e competitività al di fuori di lacci e lacciuoli
che non fa altro che accrescere la malattia con un’ulteriore inoculazione di
virus.
Nella DaD, quindi, il discorso educativo ratifica ed accentua le disparità
già presenti, allargando il fossato tra i sommersi e i salvati. Ciò
preclude il compito dell’educazione nel sovvertire l’ordine della natura,
fondato sulla selezione del più adatto, a favore di un ordine umano in cui ci
sia il compimento di tutti. Nelle parole di un dirigente scolastico (o forse
solo un venditore sotto mentite spoglie) ascoltate a distanza, tutto si
esaurisce con: “L’importante è che noi offriamo un servizio”; ovvero la DaD,
indipendentemente dal fatto se essa sarà fruibile da tutti (e perciò selettiva)
e in che modo verrà recepita, evidenziando un’autoreferenzialità che annulla
ogni spirito di servizio, in una colpevole dimenticanza dell’uomo che nella scuola
assume il volto di ogni studente.
La DaD è perciò un debole surrogato di un servizio verso tutti, perché è
relativamente semplice celebrare il rito della video lezione, altro discorso è
quello relativo alla fruizione di tale lezione nelle sue condizioni contestuali
nelle quali viene recepita.
A livello epistemologico non si può non rilevare lo slittamento
dell’educativo da ambito umano a paradigma comunicativo: freddo, indifferente e
ratificante il dato; con le parole di Eliot a ricordaci tutto quel che si perde
nel passaggio dalla conoscenza all’informazione. Questa, infatti, può esser
arricchita solo da chi ne ha la possibilità. E non tutte le famiglie hanno
questa possibilità. Benjamin scrisse che “il fascismo vede la propria
salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i
propri diritti)”[1];
ora questo avviene attraverso il livello individuale e la DaD “permette di
mobilitare tutti i mezzi tecnici attuali, previa conservazione dei rapporti di
proprietà”[2].
Concludo con alcune riflessioni propositive: su dieci anni di
scolarizzazione, perdere 2-3 mesi non lascia strascichi che non siano
recuperabili. Se la scuola non è possibile attivarla, bisogna prenderne atto ed
agire considerando la mediazione dell’ideale, come discrimine tra ciò che che
va fatto e ciò che non va fatto. Continuare imperterriti con attività ad altro
tasso di oggettivazione è delirante. Piuttosto sono infinite le possibilità
altre per procedere sulla via del compimento di sé negli allievi, proprio al di
fuori dei limiti della scuola fin qui attivata. La lettura, la scrittura
libera, l’ascolto di buona musica; tutte attività che accrescono la capacità di
osservazione, di riflessione, di immaginazione e sensibilità. E tutto questo al
di fuori di quello che Simmel chiama lo spirito del denaro, ovvero
la quantificazione del valore e la misurabilità di tutto in vista dello scambio
e della proprietà.
Una scuola che propone senza chiedere un ritorno in termini valutazione,
può essere una possibilità di risveglio per un altro ordine del
discorso. In fondo, le esperienze più significative, sono con quello che
Agamben chiama l’inappropriabile.
Bibliografia.
Agamben G., Arte e anarchia, Neri Pozza, Vicenza, 2017.
Baudrillard J., Il delitto perfetto, Cortina Raffaello, Milano,
1996.
Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, Einaudi, Torino, 1966
Eliot T. S., Cori da La rocca, Rizzoli, Milano, 1994.
Foucault M., L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 1972.
Levi P., I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986.
Simmel G., Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma,
1995.
L’educazione in quanto vita, Il Segnalibro, Torino, 1995.
Denaro e vita, Mimesis, Milano, 2010.
[1]W.
Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,
Einaudi, Torino, 1966, p.46
[2]Ivi,
p. 47.
La didattica
a distanza ha avuto un indubitabile merito: mettere a nudo la reale natura
della scuola italiana. Molto è stato già scritto sulla diseguaglianza digitale,
sulla discriminazione sociale e sull’esclusione delle fasce più deboli di
studenti. Per colmare il divario tecnologico, cosa fa il MIUR? Stanzia 85
milioni per l’acquisto di dispositivi. Per cercare di raggiungere un milione e
seicentomila allievi ancora dispersi ai primi di aprile, qual è stata la mossa
strategica del MIUR? Stabilire l’obbligatorietà della didattica a distanza e
della relativa valutazione espressa in decimi. È stato sottolineato come la
didattica a distanza non sia democratica[1],
pochi, tuttavia, hanno sollevato dubbi di costituzionalità sull’obbligatorietà[2] di
una modalità didattica che non riesce a raggiungere la totalità di studenti (in
particolare negli ordini della scuola dell’obbligo).
Geremiadi
sono state intonate per l’assenza di digitalizzazione della scuola, per
l’arretratezza degli strumenti e del corpo docente, solo alcuni però si sono
soffermati a riflettere sul fatto che il divario digitale è solo l’ultimo,
estremo, superficiale riflesso di una condizione direi ontologica della scuola
italiana, incancrenitasi negli ultimi decenni: la scuola italiana è, in
massima parte, classista e divisiva. Questa fotografia impietosa ce la
restituisce l’INVALSI ogni anno. Ma, secondo il costume dell’Istituto di
valutazione, le disparità dei risultati tra le varie scuole vengono sempre
implicitamente e anche esplicitamente imputate ai dirigenti, ai docenti. In
dodici anni di rilevazioni INVALSI sembra quasi che nessun ricercatore
dell’Istituto né alcun direttore si sia mai preso la briga di analizzare nel
dettaglio e nel complesso il peso specifico dei dati significativi[3],
ovvero la composizione sociale delle classi; le particolari situazioni
economiche e culturali delle famiglie; le difficoltà linguistiche, soprattutto
per ciò che concerne la prova di italiano, di allievi non italofoni, a cui il
Ministero ha sbrigativamente incollato la targhetta BES (Bisogni Educativi
Speciali) per esonerare se stesso e i vari governi da interventi mirati e da
investimenti adeguati di personale. Gridare oggi che la didattica a
distanza è divisiva è un atto ipocrita, utile se e solo se dovesse finalmente
condurre ad una presa di coscienza forte. In questo spaccato
emergenziale abbiamo assistito in effetti all’affannosa attivazione della
didattica a distanza da parte di tutte le scuole, non perché necessariamente
afflitte da sindrome da prestazione, bensì perché nella maggior parte dei casi
essa costituiva l’unica risorsa per poter riallacciare il dialogo formativo con
gli studenti.
All’interno
di questo frenetico gran galà, tuttavia, sono emerse macroscopiche differenze.
Le scuole che vantano le posizioni migliori nelle classifiche di Eduscopio
(Fondazione Agnelli) e che ‘casualmente’ sono frequentate dai ceti medio-alti
hanno proceduto come panzer nella replica a distanza della didattica in
presenza affliggendo gli studenti con orari settimanali estenuanti (20-22 ore
settimanali); con consegne e riti valutativi nella peggior tradizione della
didattica trasmissiva, frontale e punitiva. Accanto a queste, si sono subito
prodigate con consigli e impositive buone pratiche le scuole dirette da
dirigenti iperallineati al diktat della didattica per competenze[4] (processo
di Lisbona), i quali, da anni lanciati verso le «magnifiche sorti e
progressive» delle nuove tecnologie, hanno trasformato gli strumenti digitali
in fine, perseguendo lo smantellamento della scuola della riflessione e della
profondità a profitto di meccaniche abilità atte a modificare l’individuo in un
essere plasmabile e prono alle istanze del mercato. Nell’uso del lemma ‘scuole’
intendo ricomprendere tutte le componenti di quelle comunità, quindi dirigenti,
docenti e famiglie che condividono la medesima Weltanschauung. E se
la prima tipologia di scuola, che potrebbe essere in maniera semplicistica
identificata con la scuola della tradizione, a cui una spolverata di digitale
consente di fregiarsi del titolo di eccellenza, sembrerebbe contrapporsi, nella
percezione dell’opinione pubblica, alla seconda, incentrata sull’innovazione,
solo nominale, della didattica per competenze, ad uno sguardo più acuto ci si
accorge che la posizione antipodale è pura illusione. Entrambi i modelli di
scuola soggiacciono alla medesima logica esclusiva e classista. Perché? È
semplice, perché rispondono banalmente ad una divisione della manodopera e
degli individui sulla base delle provenienze sociali. La prima
riservata ai rampolli delle future classi dirigenti, conserva l’aura ammuffita
della scuola del ‘rigore’ e delle rigide nozioni; la seconda smantella spesso i
contenuti e li semplifica, impastandoli con i mirabolanti e scintillanti
nastrini del digitale, per formare soggetti inabili al pensiero. In
mezzo, tutte le scuole che provano a resistere, tentando di non cedere,
scommettendo, soprattutto quando la maggior parte degli allievi proviene da
contesti svantaggiati, su un’idea di scuola democratica, che possa fungere,
come è stato per un breve periodo (dal 1970 ai primi anni Novanta del
Novecento), da reale ascensore sociale, consentendo anche ai Gianni di Barbiana
di raggiungere, proprio con lo studio (nel suo pregnante significato
etimologico) lo stato sociale dei vari Pierino[5].
A fronte di questa constatazione stona e infastidisce ulteriormente lo sguaiato
accusare la didattica a distanza di non favorire lo sviluppo del pensiero
critico e di non essere fruibile da tutti.
La scuola
italiana sembra aver abdicato al suo profondo dovere costituzionale dal lontano
1997, anno della controversa riforma sull’autonomia (l. 59). L’autonomia non è
mai stata realizzata se non in direzione negativa, ovvero di diminuzione di
fondi dalle istituzioni centrali; dell’apertura alle munifiche donazioni di
privati[6];
della creazione dei mostruosi ircocervi che sono gli istituti comprensivi;
dell’abolizione, per il segmento della scuola dell’obbligo, del bacino di
utenza. La ‘liberalizzazione’ della scelta delle famiglie si è tradotta nella
fuga dalle scuole di quartiere dove nel frattempo si assisteva ad una
trasformazione sociale imperniata sullo stanziamento di famiglie non italiane,
le quali affiancavano i ceti marginali autoctoni oppure subentravano a
sostituire le fasce operaie e popolari che in precedenza occupavano le case di
edilizia residenziale pubblica. Questo fenomeno, particolarmente visibile nelle
grandi città del Nord, ha condotto alla creazione graduale di scuole ghetto.
La situazione
scolastica della città Milano rappresenta, rispetto alle riflessioni
precedenti, l’avanguardia di un esperimento sociale e politico le cui linee
confluiscono nell’ideologia della meritocrazia-valutazione-competenze, già
ampiamente analizzata e sviscerata in una serie innumerevole di articoli.
Riprendiamone per sommi capi le linee portanti: la meritocrazia è intesa come
successo del singolo che deve essere misurato con strumenti illusoriamente
obiettivi per consentire l’affermazione di cittadini abili e ‘competenti’.
Applicata all’universo della scuola e alla sua missione formativa, la triade si
traduce in una micidiale miscela di colpevolizzazione del singolo (anche quando
si tratta di bambini, preadolescenti e adolescenti le cui possibilità tanto
dipendono dal contesto); di misurazione standardizzata degli apprendimenti
secondo la modalità della somministrazione di test che azzerano i percorsi
divergenti e soggettivi; di smantellamento degli edifici epistemologici delle
discipline[7] e
infine dell’imposizione di una metodologia didattica che nell’esaltazione della
competenza avulsa dalla conoscenza azzera la scoperta, la riflessione, il
pensiero creativo[8].
La scuola si erge sempre più come un’istituzione totale, direbbe Foucault[9],
autoritaria che reprime le potenzialità dei soggetti. All’interno del sistema
scolastico milanese è interessante studiare l’inesistente mobilità sociale
degli studenti, al contrario condannati dalla propria provenienza sociale ad
una rigida divisione degli istituti scolastici. Stando ai dati INVALSI, i
peggiori risultati nelle prove di italiano e matematica nella classe terminale
della scuola secondaria di I grado, contrassegnano una linea di istituti
geograficamente e sociologicamente connotati: aree periferiche e
semiperiferiche, all’interno delle quali preponderante è la presenza di
famiglie con svantaggio economico e culturale, su cui insiste inoltre un alto
tasso di flusso migratorio straniero[10].
Nelle scuole delle zone centrali o attigue, invece, i risultati delle prove
INVALSI sono eccellenti. Confrontando il numero di iscritti, il dato che emerge
è la numerosità di studenti nelle scuole del centro-città a fronte
dell’inferiorità numerica caratterizzante gli istituti periferici[11].
Se volessimo utilizzare questi dati in direzione contraria alla lettura fornita
dall’Istituto di valutazione e all’uso proposto da fondazioni che esprimono una
visione aziendalista-‘meritocratica’ della scuola, potremmo facilmente
evidenziare come nessuna azione sia mai stata intrapresa per superare questo
gap che certifica semplicemente l’immobilismo sociale e culturale delle fasce
svantaggiate. Nonostante i risultati siano pubblici, non sembra che essi
abbiano apportato una maggiore cognizione di causa ai dirigenti politici: non è
stato pianificato nessun intervento per favorire la creazione di zone
residenziali miste, sottraendole alla pura gentrificazione (come accaduto negli
ultimi quindici anni a Milano in molte zone ex-popolari), di conseguenza
nessuna strategia reale di rimozione delle differenze economiche è stata
adottata. Ma, decisamente più grave, è il fatto che nei confronti delle scuole,
al di là della sponsorizzazione di mille progetti da ostentare in vetrina, è
mancata, da parte delle istituzioni, una pianificazione efficace per
certificare i successi degli allievi, successi conseguiti all’interno di
percorsi più complessi che esulano dai test Invalsi. Non paghe, le pensanti
menti dell’amministrazione hanno proceduto al taglio delle risorse per
potenziare il tempo pieno, per aumentare gli interventi di alfabetizzazione, in
poche parole per mettere gli studenti e le scuole nelle reali condizioni di
progettare itinerari didattici in grado di ridurre i dislivelli e quindi di
garantire maggiore mobilità culturale. L’Invalsi semplicemente registra e,
fissando standard di comprensione del testo che espellono altre forme di
acquisizione linguistica, punta il dito contro l’inefficienza delle scuole e
implicitamente condanna gli allievi all’esclusione. Lo stesso discorso può
essere esteso agli istituti superiori dell’ambito tecnico, ma soprattutto
professionale. Per le fasce svantaggiate delle zone semiperiferiche e
periferiche, lo Stato mette dunque a disposizione scuole che pur nello sforzo
immane di promuovere lo sviluppo delle conoscenze e di colmare i divari,
restano condannate dalle rilevazioni Invalsi e dalle classifiche di Eduscopio a
restare nell’inferno delle scuole di serie b, da cui solo pochi, a fatica,
riusciranno a emergere. La crescita democratica che all’interno del sistema
basato sull’obbligatorietà del bacino di utenza consentiva la formazione e la
frequentazione di gruppi sociali eterogenei, favorendo lo sviluppo del
confronto, della permeabilità dei ceti, risulta in buona parte distrutta dalla
libera scelta delle famiglie. Si giunge così alla paradossale situazione tale
per cui gli alunni non italofoni delle aree periferiche o popolari non possono
contare pienamente sul contesto scolastico per una profonda acquisizione della
lingua italiana, dal momento che il gruppo classe è spesso composto in massima
parte da bilingui o allofoni. Il destino degli alunni appartenenti alle fasce
deboli resta quello di essere travolti all’interno dei corsi di formazione
professionale (privati) o degli istituti statali ad indirizzo professionale che
dopo la riforma Gelmini scimmiottano i tecnici e i licei, avendo subito il
depotenziamento dei laboratori e la limitazione della stessa possibilità di
apprendere in classi composte da 30/32 allievi difficili e spesso demotivati.
In alcuni rari casi, l’accesso agli ambiti tecnici e/o liceali, potrebbe,
invece, comportare il fallimento a fronte di un’impostazione didattica
iper-performante, tutta incentrata sulla clava della valutazione sommativa.
Se la facies reale
della scuola è dunque emersa con forza proprio in virtù della didattica a
distanza, bisogna riconoscere che essa si è consolidata grazie ad una serie di
riforme che hanno via via smantellato, nell’aporia tutta contemporanea del
discorso ‘a una dimensione’[12] imperniato
sulla centralità dello studente e del suo sviluppo armonico, i timidi tentativi
che hanno sostanziato alcune riflessioni della pedagogia democratica,
soppiantata dalla retorica burocratizzante dei piani didattici personalizzati e
dell’inclusione affidata a circolari e regolamenti spesso autoreferenziali.
Sono tutti
tasselli che vanno a comporre il medesimo puzzle: una concezione della scuola
che nella sua pervasività e nella sua incapacità di incidere sulle differenze
sociali e di attenuare le discriminazioni è perfettamente funzionale e organica
all’attuale organizzazione sociale e economica. Una scuola insomma classista e
divisiva, di cui la didattica a distanza costituisce l’ipostasi.
[1] A.
Cortazzoli, «Scuole chiuse, la didattica a distanza non è democratica», Il
Fatto quotidiano, 3 aprile 2020.
[2] D.L. 22, 8 aprile 2020, art. 2, comma 3.
[3] Il discorso merita una precisazione: l’INVALSI ha in realtà
analizzato tutti i dati, tanto da individuare e distinguere i parlanti nativi;
i neoarrivati; i bilingue, così come nel monitoraggio si avvale di tutti i dati
socio-economici. Eppure non ha modificato di una virgola il tipo di prova, né
si è interrogato se la prova di italiano così strutturata costituisca una
modalità efficace per misurare gli apprendimenti degli studenti non
perfettamente italofoni. A peggiorare il quadro, negli ultimi anni l’Invalsi ha
aggiunto l’effetto-scuola, un modo per ribadire che se gli allievi non
raggiungono risultati eccellenti la colpa è dell’istituto, ovvero del suo
dirigente e del suo corpo docente. Potrebbe anche essere parzialmente vero, ma
come commentare il fatto che un istituto che sorge in un contesto ad alto
flusso migratorio, nel formulare le proposte per l’organico potenziato
dell’autonomia (l. 107/2005, La buona scuola), richiede insegnanti di italiano,
magari con specializzazione nell’insegnamento di italiano Lingua2 e si vede
invece assegnare un docente di pianoforte (in una scuola dove l’indirizzo
musicale non è attivo) e un docente di inglese?
[4] Le famose competenze-chiave elaborate all’interno del processo di
Lisbona (2000) e fissate dalle Raccomandazioni del Consiglio europeo (2006),
tra le quali spicca una delle massime competenze metacognitive da acquisire nei
vari gradi di istruzione, ‘imparare ad imparare’, ovvero quella competenza la
cui maturazione maggiormente dipende da estrazione sociale e da benessere
economico.
[5] Don L. Milani, Lettera a una professoressa, Firenze,
Libreria Editrice Fiorentina, 1967.
[6] Controversa questione che ha acuito le differenze: una scuola
frequentata dai ceti abbienti può contare sull’elargizione generosa di famiglie
benestanti, attirando anche l’interesse delle fondazioni private; al contrario
gli istituti popolati da un’utenza appartenente ad un ceto sociale
economicamente svantaggiato certo non può disporre della munificenza delle
famiglie, né attrarre le fondazioni. Indi l’abisso risulta incolmabile.
[7] Si vedano a questo proposito le dettagliate e lucide analisi di
Giorgio Israel in risposta alle proposte avanzate da Cesare Cornoldi, C.
Cornoldi ; G. Israel, Abolire la scuola media?, Bologna, Il Mulino,
2015.
[8] Un corollario di questa concezione aberrante della meritocrazia e
della valutazione sarà costituito dall’emanando decreto sulla valutazione ai
tempi della didattica a distanza. Il Ministro ha affermato che si ricorrerà
alla valutazione sommativa in decimi in barba alla dispersione di milioni di
allievi, la maggior parte dei quali non raggiunti dalla modalità didattica
telematica per problemi strutturali e in barba, tra l’altro, ad una
considerazione effettiva del periodo eccezionale all’interno del quale gli
studenti e le studentesse si sono ritrovati/e catapultati/e.
[9] M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 2005
(ed. or. 1975); Id. Storia della follia nell’età classica, Milano,
BUR, 2011 (ed. or. 1961).
[10] Consultando i Rapporti di autovalutazione delle scuole collocate nella
cerchia periferica milanese, si evincono i seguenti dati: scuole con simili
composizioni socio-culturali svantaggiate riportano i medesimi esiti negativi
nelle prove Invalsi. I Rapporti di autovalutazione si possono consultare
navigando in Scuola in chiaro,
https://cercalatuascuola.istruzione.it/cercalatuascuola/.
[11] Basti come esempio significativo l’analisi della numerosità della
popolazione dei singoli istituti del Municipio 4, un municipio che comprende
zone periferiche e semi-periferiche di edilizia residenziale pubblica,
integrata, tuttavia, in un contesto di piccola-media borghesia fino all’area
attigua al municipio 1, in Porta Romana, ovvero in pieno centro città. Nelle
scuole secondarie di I grado più distanti dal centro il numero medio di
iscritti è di 190-200 per arrivare ai 766 dell’istituto centrale più blasonato.
La densità abitativa della zona in cui sorge quest’ultimo non giustifica affatto
la numerosità della popolazione scolastica.
[12] Parafrasando il noto Uomo a una dimensione di H.
Marcuse, Torino, Einaudi, 1999 (ed. or. 1964).
Liberare
la scuola - Paolo Mottana
Anzitutto calma (senza gesso). Non c’è fretta. O meglio,
non ci deve essere fretta. Si sa che bisogna rinchiudere al
più presto i bambini a scuola affinché i genitori possano tornare a fare il
loro dovere di bravi lavoratori. E tuttavia i bambini non richiedono soluzioni
raffazzonate e accelerazioni furiose. La scuola, o meglio,
l’educazione, non è un’azienda che deve far profitto e il suo
profitto non è comunque il numero di ore che i suoi allievi trascorrono
parcheggiati in essa. Se si conoscesse minimamente qualcosa di apprendimento si
saprebbe bene che il numero di ore trascorse all’interno di un posto come la
scuola (almeno per come è oggi nella maggioranza dei casi) è inversamente
proporzionale all’avanzamento dell’apprendimento autentico di ogni bambino o
ragazzo su questa terra.
Prendiamo
il tempo necessario e cogliamo l’attimo. L’attimo che questo stop ci ha dato
per capire una serie di cose.
Innanzitutto
che non sono bambini e ragazzi ad aver bisogno di noi ma noi di loro (noi
intendo educatori, insegnanti e compagnia cantando).
In
secondo luogo che occorre prestare la massima attenzione con quel
bizzarro caravanserraglio della didattica a distanza, che si è
rivelata un completo buco nell’acqua, non solo per la grottesca strutturazione
operativa che le è propria ma anche perché né insegnanti né ragazzi (i famosi
nativi digitali) sanno utilizzare tecnologie spesso complicate quanto invasive
e inattendibili. Abbiamo visto che molti allievi non si collegano, che altri
sono disturbati dal viavai domestico, i video vengono fatti girare come oggetti
di scherno ecc ecc. Se proprio la si vuole fare che si predisponga una corretta
formazione per entrambe le categorie.
Occorre
essere seri e pensare ad un’educazione seria, sensata, che procuri
apprendimento e non un po’ di loisir per famiglie annoiate e
ragazzi che pur di vedere facce diverse si accontentano anche degli insegnanti.
Quindi: ridurre al minimo la didattica a distanza, già una panzana in sé ma
ancor peggio quando le tecnologie disponibili sono scadenti e per di più mal
utilizzate.
I
bambini e i ragazzi han bisogno di incontrarsi e di vivere carnalmente il mondo. Quindi fuori il
più presto possibile chiarendo bene con questi benedetti esperti e scienziati
(se se ne trova qualcuno che ci abbia capito qualcosa), quali rischi effettivi
corrono anzitutto loro e poi i loro parenti. Io mi auguro che ora di settembre
molti dei timori (talora non si capisce quanto fondati) che minano oggi la
fiducia in una ripresa in carne ed ossa della vita sociale siano scomparsi
(sempre che qualcuno non abbia interesse a mantenerli tali, e possiamo
immaginare chi).
Detto
ciò, posto poi che davvero una didattica a distanza sia necessaria,
occorrerà aumentare il più possibile le attività all’aria aperta,
per tutti e non solo per i più piccoli. Dividere il più possibile i gruppi, con
alternanza di attività motorie e attività cognitive da svolgersi in piccoli
gruppi in spazi ampi e distanziati dove necessario (liberare le
aule dai banchi potrebbe essere un primo espediente, poi utilizzare spazi più
grandi come palestre, giardini, campi sportivi interni alla scuola o altri
spazi agibili nelle vicinanze).
Insegnare
per progetti, per percorsi e per esperienze articolate, come predicato dall’educazione
diffusa in
tutti quegli ambiti vitali che stimolano l’interesse e l’entusiasmo dei ragazzi: servizi (i
ragazzi proprio ora potrebbero far molto per chi è più in difficoltà, dal fare
la spesa, portarla a casa a altri piccoli servizi di pubblica e domestica
utilità); lavoro (allo stesso modo potrebbero
prendersi in carico piccoli lavori di riparazione e anche di recupero
all’interno delle stesse scuole o all’esterno dove sia possibile e abbia senso,
dalla cicloriparazione, ai giardini, agli orti, ai parchi robinson, ai sentieri
(dove ci sono) ecc ecc.
Poi
produrre una grande centratura sui corpi, i veri avviliti da questo tragico
periodo: avviando a costruire percorsi di arti marziali (quelle a distanza se
occorra, o le forme esercitative di quelle corpo a corpo), bioenergetica,
meditazione, sport, corse campestri, giochi senza
frontiere (anche da inventare), educazione sessuale (con
modelli plastificati antivirus) ecc. ecc..
Ancora
naturalmente e più che mai la natura. Assolutamente, a
tutti i livelli anagrafici e psicoaffettivi, avviare attività nella natura, in
cui esplorare, osservare, vivere insieme alle forme della vita vivente e non a
quelle mummificate sui libri e lì inscenare la ripresa dei propri corpi e
dell’ambiente non cementificato.
Infine
tutto il grande ambito delle espressioni artistiche:
dalla pittura alla scultura, dalla danza al teatro, dal cinema alla fotografia
alla composizione poetica. Se non si potrà farli toccare tra loro (ahinoi),
reciteranno e danzeranno distanziati o “mascherati”!
La
didattica disciplinare deve sempre più essere al servizio di
attività complesse, di progetti, di iniziative di cui sia alimentazione e
strumento piuttosto che ingombrare di ore di lezione smorte e avvilenti (e poco
funzionali all’apprendimento). L’utilizzo di materiali video,
di lezioni (anche videoregistrate ma ben fatte) ma soprattutto di quell’enorme
risorsa di documentari ormai disponibile a tutti deve servire solo da innesco
per discussioni, interpretazioni, messe in scena, processi giudiziari ecc. in
cui gli argomenti culturali siano finalmente vissuti come fonti di
appassionamento individuale e interpretazione collettiva.
Se poi
esisteranno abilità o conoscenza escluse da tutto ciò d indispensabile per
sormontare i test di occupabilità stabilite dagli stakeholder delle
multinazionali, che si facciano piccoli laboratori di recupero, consulenze
individuali, gruppi di supporto.
Questa
è l’occasione buona per ripensare i curricoli, per sfondare il mortorio
scolastico, per aprirsi all’esterno, per liberare soggettività, espressioni,
forme vitali che sono state messe in quarantena ben prima che arrivasse il
coronavirus.
L’immunità del gregge - Enrico Euli
Si potrebbe chiamare “immunità del gregge”. Poco a che
vedere con quella sanitaria (immunità di gregge), anche se le parole contano (ed
anche le analogie). La parola latina munus può significare molte cose diverse
(impegno, ufficio, obbligo, ed anche dono…) e sta dentro alcune parole
importanti (munire, comunicare, comunità, immunità…). L’im-munitas
è quel che ci toglie l’obbligo, ci esonera dall’impegno e dalla preoccupazione,
ci evita problemi. La nostra communitas è divenuta sempre più negli anni una
entità collusiva immunizzata e immunizzante, che ossessivamente cerca di
proteggersi in tutti i modi dal negativo: dai pericoli e dai rischi, dai
conflitti, dalla messa in gioco, dalle impurità, dalle catastrofi, dallo
straniero e dal pensiero. La nostra securitas (da sine cura, sans souci, senza
preoccupazione) sta in un’area semantica affine e si fonda su una pedagogia
immunizzante di massa. La gran parte delle nostre energie vitali sono da tempo
e ogni giorno dedicate soltanto a respingere il male che ci attornia
(l’esperienza del coronavirus è soltanto l’ultima, più evidente ed estrema
esperienza all’interno di questa sindrome). Se le persone e le
comunità si immunizzano per evitare la paura è inevitabile però che
inizino a temere fortemente la libertà (questo timore non sta
solo al termine del processo, ma anche all’origine, peraltro). E
la comunità che fugge dalla libertà è quella che si fa gregge. Su
questi temi vi consiglio Liberi servi di Gustavo Zagrebelsky
e La politica senza politica di Marco Revelli, letti in
questi giorni tristi.
Ma, in
attesa che arrivi il vaccino e l’immunità di gregge, l’immunità del gregge ora
diventa (anche) un problema: perché la massificazione nega alle persone la
capacità di gestirsi in autonomia. Perché se trasformiamo i
giovani in greggi di idioti che attendono soltanto lo spritz della sera o i
bagordi della notte per potersi sentire vivi, dopo averli fatti stazionare per
ore davanti ai visori o sui divani, non possiamo sperare che poi, appena
lasciati a razzolare, siano ragazzi responsabili (leggi
anche E i giovani? di Franco Berardi Bifo,
ndr). Se esoneriamo la gente dal pensare non possiamo poi sperare che pratichi
il buon senso (così pare si chiami ora l’obbedienza). Significativo che molte
persone si stiano rifiutando di farsi fare i prelievi per i test sierologici.
Dobbiamo pur pagare un prezzo per quel che abbiamo voluto fare del “popolo”. Dà
grandi vantaggi, quando sta sotto. Con qualche effetto collaterale negativo.
Ma
attenzione: non per loro o per noi. Non ce ne frega niente, davvero, dei
bambini, dei giovani, degli adulti, né tanto meno dei vecchi. No, non devono
fare follie, ma solo per la causa. È il capitalismo che non può,
non deve rifermarsi. Ha già sopportato troppo, non può essere rimesso
in causa da quattro scapestrati. Ed ecco l’incazzatura di Sala di una settimana
fa per i giovinastri sui Navigli. E allora ecco lo spot terroristico del Veneto contro la mo-rti-vida e la
desperate happy hour. Ed ecco le minacce dell’Oms sulla
terrifica seconda ondata che tornerà in autunno. Ed ecco l’invenzione degli
assistenti civici, preambolo alle prossime ronde di stato. Dopo il premio, se
non funziona, ritornano le punizioni (e per tutti, non per chi trasgredisce…)
Siamo sempre lì: o costrizione da lunga paura o piacere da breve
ribellione. Nessuno spazio per qualcosa che abbia a che vedere con
l’etica o con l’educazione. Puro infantilismo statunitense, da
entrambe le parti. Ci si muove solo e sempre tra duri sceriffi senza cuore e
pervertiti senz’anima e senza scampo.
Da qui
anche il muro contro muro tra regioni ancora contagiate e altre sedicenti
covid-free. Ora il governo, dopo aver isolato zone rosse e aver imposto
detenzioni di massa prolungate per milioni di persone, dividendo famiglie e
fidanzati, solo ora scopre che non far partire i lombardi per le vacanze fuori
regione sarebbe incostituzionale. Non si cambia il-logica dell’in-differenza: ci
hanno fatto andare in panico solo perché le terapie intensive del nord non
reggevano, e solo per questo hanno costretto paesi interi del sud e delle isole
(che non hanno mai avuto un contagio) a stare isolati per mesi. Questo non era
incostituzionale? Sì, ma era anche stupido. Ed ora è stupido farne una
questione di razzismo regionale, e buttarla in politica-colitica, come fanno
Fontana-Gallera e Sala: si tratta di fare differenza tra chi ha ancora contagi
e chi non ce li ha, tra chi può contagiare e chi può essere contagiato,
semplicemente. Ma davanti ai soldi e ai ricatti dei forti le
regole sanitarie non valgono più, valevano solo all’inverso, sino a
poco tempo fa. A proposito: chi poteva dubitare che la serie A avrebbe ripreso,
visti i soldi che ci girano? L’ho già scritto: solo una ripresa dei contagi tra
calciatori potrà salvarci.
Un
ultimo accenno all’università: mentre tutto riapre, lei,
povera nobile decaduta, mantiene alzato il ponte levatoio del suo castello, e
sbarrati i suoi portoni ben sanificati. Solo i portali restano aperti. E così
sarà ancora a lungo, certamente anche per l’anno accademico prossimo. La Dad ci
impigrisce ulteriormente, è molto più comoda e immunizzata. Permette risparmi
evidenti all’amministrazione. È ben vista dalla sempre più potente lobby
dell’onlife, che non vede l’ora di trasformare tutte le attività scolastiche in
versione e-learning. La gran parte degli studenti è dentro
l’immunità del gregge da tempo e piacevolmente collude, senza proteste o
reazioni rispetto a quel che le viene sottratto, pezzo dopo pezzo.
Insomma, si va verso la fine definitiva dell’Università per come l’abbiamo
conosciuta. Nessun rimpianto, nessun rimorso (almeno per me). Ma il
silenzio totale e questa sua resa senza condizioni restano davvero inquietanti (almeno
per me).
Requiem per gli studenti - Giorgio Agamben
Come avevamo
previsto, le lezioni universitarie si terranno dall’anno prossimo on
line. Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la
cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come pretesto per la diffusione sempre
più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.
Non
c’interessa qui la conseguente trasformazione della didattica, in cui
l’elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante nel rapporto
fra studenti e docenti, scompare definitivamente, come scompaiono le
discussioni collettive nei seminari, che erano la parte più viva
dell’insegnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la
cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello
sguardo, durevolmente imprigionato in uno schermo spettrale.
Ben più decisivo
in quanto sta avvenendo è qualcosa di cui significativamente non si parla
affatto, e, cioè, la fine dello studentato come forma di vita. Le università
sono nate in Europa dalle associazioni di studenti – universitates – e
a queste devono il loro nome.
Quella dello
studente era, cioè, innanzitutto una forma di vita, in cui determinante era
certamente lo studio e l’ascolto delle lezioni, ma non meno importante erano
l’incontro e l’assiduo scambio con gli altri scholarii, che
provenivano spesso dai luoghi più remoti e si riunivano secondo il luogo di
origine in nationes. Questa forma di vita si è evoluta in vario
modo nel corso dei secoli, ma costante, dai clerici vagantes del
medio evo ai movimenti studenteschi del novecento, era la dimensione sociale
del fenomeno. Chiunque ha insegnato in un’aula universitaria sa bene come per
così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo
gli interessi culturali e politici, piccoli gruppi di studio e di ricerca, che
continuavano a incontrarsi anche dopo la fine della lezione.
Tutto questo, che
era durato per quasi dieci secoli, ora finisce per sempre. Gli studenti non
vivranno più nella città dove ha sede l’università, ma ciascuno ascolterà le
lezioni chiuso nella sua stanza, separato a volte da centinaia di chilometri da
quelli che erano un tempo i suoi compagni. Le piccole città, sedi di università
un tempo prestigiose, vedranno scomparire dalle loro strade quelle comunità di
studenti che ne costituivano spesso la parte più viva.
Di ogni fenomeno
sociale che muore si può affermare che in un certo senso meritava la sua fine
ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di
ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle e che la forma di vita
degli studenti si era conseguentemente altrettanto immiserita. Due punti devono
però restare fermi:
1.
i
professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla
nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono
il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà
al regime fascista. Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille
si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli
dei quindici docenti che non giurarono.
2.
Gli
studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di iscriversi alle
università così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuove universitates, all’interno
delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva
la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.
Se non ora, quando? Quattro punti per l’università - Federico
Bertoni
In questi giorni
riaprono perfino le palestre, con energumeni sudati che sprigionano umori in
ambienti chiusi. Ma scuole e università no, ci mancherebbe: classi pollaio,
insegnanti anziani, piani di ripresa mai stilati, rischi e timori del tutto indeterminati.
E in fondo che fretta c’è? Che diavolo volete? Tanto non producete reddito, lo
stipendio vi arriva lo stesso e una lezione si può fare anche attraverso il
computer, mentre uno spritz o una corsa sul tapis-roulant (ancora) no. Così il
senso comune traveste da ragioni tecnico-economiche un dato primariamente
politico, in cui l’ossessione securitaria di oggi si fonde con il mirato,
sistematico svilimento delle istituzioni formative che sta massacrando scuola e
università da almeno due decenni. E allora teniamole proprio chiuse, queste
pericolose istituzioni, perché tanto si può fare lezione da casa: magari anche
in autunno, e poi tutto l’anno prossimo, come ha già annunciato la gloriosa
università di Cambridge, e poi chissà. Così potremo realizzare il sogno della
preside Trinciabue, in un corrosivo romanzo di Roald Dahl: «una scuola
perfetta, una scuola finalmente senza bambini!».
Di cosa significhi
insegnare nell’era del Covid-19 si sta discutendo da mesi, strappando
faticosamente piccole porzioni di un dibattito pubblico monopolizzato da
virologi superstar e dilettanti allo sbaraglio. Da parte mia, ho cercato di
farlo in un e-book gratuito pubblicato da Nottetempo, Insegnare
(e vivere) ai tempi del virus, mentre si moltiplicano gli interventi su
blog, social e anche giornali mainstream. Torno dunque sulla questione per
fissare solo quattro punti sintetici, conclusi da altrettanti impegni ad agire
subito (in corsivo). E se non ora, quando?
1.
In
questi mesi molti di noi hanno praticato la didattica a distanza con stati
d’animo ambivalenti o apertamente conflittuali. Difficile capirlo senza
esperienza diretta. Provare per credere. Da un lato l’incertezza, la novità,
l’esperimento, anche l’euforia di reagire attivamente allo stato di minorità
del confinamento con la parte migliore del nostro lavoro: insegnare, mettere in
comune, cucire un filo con gli studenti, garantire comunque uno dei diritti
fondamentali sanciti dalla Costituzione. Dall’altro i dubbi, le perplessità, la
sensazione che tutte quelle energie spese con autentico spirito di servizio
andassero in gran parte disperse, o che addirittura venissero sfruttate per
altri fini. Nel frattempo, alcuni di noi hanno capito che uno straordinario
sforzo tecnico e umano stava diventando un clamoroso errore politico (e
comunicativo): diceva cioè al governo e al popolo: tranquilli, qui va tutto
bene, le università e le scuole possono restare chiuse perché tanto c’è la
didattica a distanza. E invece no, lo ribadisco: le cose non vanno
affatto bene. Non vanno bene all’università e non vanno bene a scuola, dove
la situazione è molto più drammatica, perché la didattica a distanza è una
procedura emergenziale e solo un pallido surrogato di quello che deve avvenire
in aula, tra muri e corpi, soggetti in carne ed ossa che si fronteggiano in
luoghi fisici e politici, non solo per trasferire competenze ma per mettere a
confronto idee, modelli di sapere e visioni del mondo. Dunque un primo impegno
su cui non cedere nemmeno un millimetro: appena ci saranno le
condizioni igienico-sanitarie dovremo tornare in aula, senza variabili o
compromessi.
2.
La
tecnologia è un falso problema, un palazzo di Atlante che genera ombre e riflessi,
giochi di ruolo in cui ognuno assume una parte per attaccare un nemico
fantasma. Così io faccio l’apocalittico, tu fai l’integrato e ci scambiamo
sonore mazzate sulla testa, mentre le multinazionali del software e i provider
di servizi informatici si fregano le mani. È un falso problema soprattutto
all’università, dove non avevamo certo bisogno del Covid-19 per imparare a
usare le tecnologie digitali, che sono un normale e istituzionale strumento di
lavoro da molti anni, con una gamma di applicativi che ormai copre quasi tutte
le attività amministrative, didattiche e di ricerca. E dunque basta con la
retorica della “grande occasione”, con il riflesso condizionato di un ingenuo
“make it new!”. Basta con l’equazione automatica tra strumenti digitali e innovazione,
come se fosse sufficiente mettere un tablet nelle mani di docenti e studenti
per realizzare ipso facto una “didattica innovativa”, formula
ormai immancabile sulla bocca di dirigenti e rettori. Un bravo (o un cattivo)
insegnante resta tale sia in classe che davanti a un computer: è una banalità
che non vorremmo più dover ribadire. Anzi, come accade sempre più spesso, la
tecnica è uno schermo opaco, alibi perfetto per deresponsabilizzare scelte e
interessi: nasconde cioè dietro vincoli esterni e una presunta neutralità
operativa decisioni del tutto opinabili e contingenti. Se continuiamo ad
accapigliarci sul mezzo perdiamo completamente di vista lo scopo e soprattutto
la posta in gioco di questa partita, che non è tecnica ma innanzitutto
psicologica, sociale e politica. Se c’è una questione da porre sulla
tecnologia, è piuttosto l’uso di software e piattaforme proprietarie da parte
delle istituzioni pubbliche. È ormai francamente intollerabile che la scuola,
l’università e tutta la pubblica amministrazione foraggino multinazionali come
Microsoft o Google e cedano quote incalcolabili di dati sensibili. E dunque
un’altra cosa da fare subito: un investimento nazionale per dotarsi di
piattaforme informatiche basate su software libero, pubblico, che escluda forme
di profitto e garantisca la custodia attenta dei dati personali.
3.
Blended è la nuova parola magica della
neolingua accademica, da aggiungere a quella batteria di keywords che
di fatto governano le politiche, i discorsi, la distribuzione dei fondi e soprattutto
il funzionamento dei cervelli dentro l’università: premiale, competitivo, efficienza, efficacia, criticità, buone
pratiche, accreditamento, autovalutazione, didattica
innovativa e naturalmente eccellenza, il più vacuo
feticcio ideologico dei nostri tempi, strumento di un marketing passe-partout
che va dal made in Italy ai dipartimenti universitari, dagli atleti olimpici al
prosciutto di Parma. Blended non designa un tipo di whisky ma
un regime misto tra didattica in presenza e didattica a distanza che promette
di essere il business del futuro. Sarà una soluzione quasi inevitabile nella
prossima fase, quando il paventato calo delle immatricolazioni spingerà gli
uffici marketing degli atenei a cercare soluzioni flessibili per accalappiare
gli studenti dei paeselli, bloccati dalla crisi economica o da nuove misure di
contenimento per un’eventuale ripresa del virus. Così, invece di risolvere i
problemi strutturali (ampliare le aule, costruire studentati, ridurre le tasse,
aumentare le borse di studio, calmierare gli affitti che taglieggiano i fuori
sede), adotteremo una soluzione di compromesso che negli anni successivi potrà
andare a regime, trasformandosi nel business perfetto: meno aule, meno docenti,
lezioni riproducibili e moltiplicabili a piacere, studenti che pagano le tasse
ma che non gravano fisicamente su strutture e costi di gestione. Per capire che
non è uno scenario distopico ma una previsione realistica basta guardare la
nostra macchina del tempo, gli Stati Uniti, dove tutto questo si sta già
realizzando. E così le belle parole della Costituzione (articoli 3 e 34)
saranno definitivamente carta straccia: non solo avremo università di serie A e
di serie B, come auspicato dall’Anvur e dalla ragione sociale dell’università
dell’eccellenza, ma anche studenti di serie A e di serie B, perché la
modalità blended realizzerà un’automatica selezione di classe:
da un lato lezioni in presenza riservate a studenti privilegiati (cioè non
lavoratori, di buona famiglia, capaci di sostenere un affitto fuori sede), e
dall’altro corsi online destinati a studenti confinati dietro uno schermo e nei
più remoti angoli d’Italia, che resteranno al paesello con mammà e non
rischieranno di immaginare un orizzonte diverso per le loro vite. Un
cortocircuito perfetto tra il capitalismo avanzato e la morale di padron
‘Ntoni. Ecco dunque un appello rivolto a tutti i miei colleghi: rifiutiamoci
di fare didattica blended. Piuttosto, meglio continuare solo online finché le
autorità sanitarie ci permetteranno di tornare tutti in aula. Nel caso potremo
appellarci all’articolo 33 sulla libertà di insegnamento, oppure fare come
Bartleby: “I would prefer not to”.
4.
Serve
dirlo? La didattica a distanza non ha nulla a che fare con il fascismo. È una
procedura emergenziale che la stragrande maggioranza dei docenti italiani ha
praticato obtorto collo, solo per il bene dell’istituzione e degli
studenti. Non stupisce che molti si siano sentiti mortalmente offesi dalla
sparata di Giorgio
Agamben: «i professori che accettano – come stanno facendo in massa
– di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi
solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti
universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista». Il
parallelismo storico, anzi la copula identitaria («sono il perfetto
equivalente») è talmente fuori luogo che non servirebbe nemmeno replicare. Se
lo faccio, è solo perché la provocazione volutamente incendiaria rischia di
appiccare il fuoco dalla parte sbagliata. Bisogna infatti correggere il tiro e
scagliare la freccia sul bersaglio giusto: il nemico non è un’improbabile
dittatura che toglie la cattedra a chi si ribella (rischio effettivo solo per i
precari, a prescindere dalla didattica a distanza), ma un ben diverso modello
di potere che Agamben può capire meglio di chiunque altro. Paradossalmente, se
un dittatore manesco o anche telematico ci chiedesse di giurare fedeltà al
regime sarebbe tutto più semplice. Ma nulla del genere nell’università
dell’eccellenza, dove il potere funziona in forma microscopica, capillare, con
una serie di deleghe a catena e soprattutto un’interiorizzazione di obiettivi e
protocolli da parte di tutti. È vero peraltro che i dispositivi giuridici hanno
legittimato de iure queste pratiche diffuse: la Legge 240, che
l’ex-Ministra Gelmini ha avuto il coraggio di chiamare “antibaronale”, non ha
fatto che accentrare il potere al vertice, ridurre gli spazi deliberativi,
avocare a pochi organismi monocratici e oligarchici (rettori, direttori di
dipartimento, consigli d’amministrazione, commissioni di soli professori
ordinari) tutto il governo formale e sostanziale dell’università. Con questo, un’istituzione
che non ha mai brillato per democrazia ha finito per sposare i sistemi
tecnocratici del “new public management” e i valori dell’economia neoliberale (eccellenza, merito, valutazione, efficienza, competizione, rating e ranking, quality
assurance), prima imposti dall’alto e poi interiorizzati come un seconda
natura. È questo il nemico da combattere, innanzitutto dentro di noi. È il
condizionamento insensibile, lo slittamento dei confini, la collaborazione in
buona fede sfruttata come instrumentum regni. Ed è su questo
modello che si innesta a meraviglia non tanto la teledidattica in sé, ma l’uso
che se ne potrà fare dopo la fine dell’emergenza. Perché nell’università
dell’eccellenza gli studenti non sono cittadini che reclamano il diritto al sapere
ma clienti da soddisfare, consumatori di beni e servizi, acquirenti di una
cultura in scatola che si preleva come un pacchetto dagli scaffali. Nulla di
meglio di una televendita del sapere e di quell’ennesima evoluzione
antropologica del capitalismo che chiamiamo smart working. Per
questo dobbiamo opporci a forzature tecnologiche prive di qualunque
ragione didattica o culturale, costringendo i vertici accademici a condividere
ogni decisione con tutta la comunità accademica.
Su un punto
Agamben ha pienamente ragione: dobbiamo prendere partito, stanare tutti dalla
zona grigia. Negli ultimi decenni, la supina acquiescenza del corpo docente ha
di fatto lasciato campo libero al fanatismo ideologico dei “riformatori”,
legittimando più o meno in silenzio qualunque vessazione o degradazione
sistemica del nostro lavoro. Quindi su questo c’è davvero poco da offendersi.
Ma non è mai troppo tardi per reagire. E ora non dobbiamo scegliere tra il
digitale e il giurassico, tra la servitù volontaria e il ribellismo anarchico,
ma tra due diversi modelli di università (e di società). In fondo la più grande
sconfitta del fascismo è scritta nella lettera e nello spirito della
Costituzione, che basterebbe tradurre finalmente nella prassi. E dunque, più
che rifiutare giuramenti immaginari, dobbiamo chiederci se siamo disposti a
difendere fino in fondo un’idea di università (e di scuola) pubblica, aperta,
generalista, bene comune ed essenziale, non solo luogo di trasmissione della
conoscenza ma strumento imprescindibile di uguaglianza sociale. Non è troppo
tardi. E ne vale ancora la pena.
Per uscire dalla crisi serve
un’università gratuita - Domenico Cersosimo, Felice Cimatti
L’Italia è un paese con un numero di laureati strutturalmente basso. Solo
28 giovani su cento tra i 25 e i 34 anni hanno una laurea, appena 21 nel
Mezzogiorno, a fronte dei quaranta della media
europea e dei 47 della Francia. Un problema vecchio e
penalizzante, per i singoli e per la collettività. Per i singoli perché la
laurea offre, in media, occasioni di lavoro più qualificate e gratificanti e,
nell’arco della vita lavorativa, con retribuzioni ben più elevate. Per la
società perché la laurea allunga, in media, la speranza di vita, crea persone
più consapevoli e responsabili, accresce la propensione all’azione collettiva e
alla partecipazione democratica, e fa crescere una cittadinanza più attiva.
Pochi laureati vuol dire anche un sistema produttivo arretrato, stagnante e
poco resiliente, e una comunità meno evoluta in termini culturali e civili. Per
queste ragioni molti paesi investono quote rilevanti di spesa pubblica e
privata nell’alta formazione. L’Italia, al contrario, ha scelto la via del
definanziamento pubblico, della drastica contrazione di corsi di studio,
immatricolati, corpo docente. Da noi l’università non è in agenda. Non a caso,
in questi giorni di pandemia si parla di tutto ma mai di università e di studenti universitari,
diventati i visibilissimi invisibili della crisi sanitaria insieme ai vecchi,
ai bambini e ai carcerati.
Questo disconoscimento rischia di provocare nei prossimi mesi ulteriori
conseguenze per l’intero sistema universitario nazionale e, in particolare, per
le potenziali matricole dell’Italia del sud.
Numeri da conoscere
Consideriamo qualche cifra. Secondo i dati del ministero dell’istruzione, nell’anno accademico 2017-18 la contribuzione media pro capite degli studenti iscritti nelle università pubbliche è stata di poco più di 1.300 euro, al netto degli esentati per motivi di reddito familiare (poco più di 400mila ragazze e ragazzi su un totale di 1,7 milioni di iscritti). Nel Mezzogiorno il costo medio dell’iscrizione è di 1.100 euro, a cui vanno aggiunte le spese indirette per la frequenza dei corsi e per il sostentamento.
Consideriamo qualche cifra. Secondo i dati del ministero dell’istruzione, nell’anno accademico 2017-18 la contribuzione media pro capite degli studenti iscritti nelle università pubbliche è stata di poco più di 1.300 euro, al netto degli esentati per motivi di reddito familiare (poco più di 400mila ragazze e ragazzi su un totale di 1,7 milioni di iscritti). Nel Mezzogiorno il costo medio dell’iscrizione è di 1.100 euro, a cui vanno aggiunte le spese indirette per la frequenza dei corsi e per il sostentamento.
Supponendo che i costi di uno studente, in camera doppia, iscritto in
un’università dell’Italia del sud siano la metà di quelli stimati
dall’università di Bologna per i propri studenti fuori sede, una famiglia
meridionale dovrebbe prevedere circa 380 euro al mese per alloggio, spese alimentari,
mensa e trasporti, pari grosso modo a 4mila euro all’anno, che salirebbero a
5.100 per le famiglie non esentate dalle tasse di iscrizione. Per gli stessi
anni, l’Istat calcola che nel Mezzogiorno il
reddito medio delle famiglie è pari a poco più di 25mila euro all’anno (35mila
nell’Italia del nord), per cui per molte di esse mantenere un figlio
all’università significherebbe destinare una parte consistente del loro magro
reddito annuale, tanto più se i figli universitari fossero due o studiassero in
atenei del centro-nord.
Ancora un dato. Nell’anno accademico 2018-19 si sono immatricolati nelle
università italiane poco più di 290mila studenti, vale a dire 40mila in meno
rispetto ai picchi dei primi anni del duemila, anche se le tendenze recenti
mostrano un recupero di iscritti nel centro-nord e una sostanziale stasi degli
immatricolati nel sud, collegata tanto alla diminuzione del numero di ragazze e
ragazzi tra i 18 e i vent’anni quanto alla caduta verticale delle
immatricolazioni dei diplomati con la maturità professionale e tecnica, che
come è noto viene conseguita per lo più da ragazzi con genitori più
svantaggiati sia economicamente sia dal punto di vista scolastico.
Le conseguenze per il sud
Che cosa succederà nel prossimo anno accademico è facile da immaginare: la grave recessione economica provocata dal covid-19 implicherà un deciso impoverimento delle famiglie, soprattutto nel sud per via della maggiore fragilità e vulnerabilità della sua base economica e occupazionale. Nondimeno, le evidenze empiriche di lungo periodo mostrano un robusto nesso causale negativo tra crisi economiche e decisione da parte delle famiglie di investire in istruzione superiore dei propri figli, per cui è molto probabile un calo delle immatricolazioni già a partire dal prossimo anno accademico.
Che cosa succederà nel prossimo anno accademico è facile da immaginare: la grave recessione economica provocata dal covid-19 implicherà un deciso impoverimento delle famiglie, soprattutto nel sud per via della maggiore fragilità e vulnerabilità della sua base economica e occupazionale. Nondimeno, le evidenze empiriche di lungo periodo mostrano un robusto nesso causale negativo tra crisi economiche e decisione da parte delle famiglie di investire in istruzione superiore dei propri figli, per cui è molto probabile un calo delle immatricolazioni già a partire dal prossimo anno accademico.
Questa depressione della domanda collettiva di immatricolazioni
presumibilmente sarà più marcata nel Mezzogiorno sia per i maggiori vincoli
finanziari delle famiglie sia per i più stringenti problemi di
costo-opportunità, ossia del più basso rendimento occupazionale e salariale
degli studi universitari nel sud (in media i laureati in questi atenei trovano
lavoro molto più tardi e a salari più bassi dei loro colleghi del nord). Per
non parlare del problema posto dalla didattica a distanza, che rischia di
rendere ancora più accentuata la crisi degli atenei del sud: perché
immatricolarsi “vicino” casa se posso seguire le lezioni di qualsiasi altro
ateneo?
Che fare, allora? Ancora qualche cifra, e poi la proposta. La spesa
pubblica per l’università nel nostro paese è appena lo 0,3 per cento del pil
(all’incirca 5,5 miliardi di euro in valore assoluto), l’incidenza più bassa in
Europa (dove si registra una media dello 0,7 per cento), e per di più in
sostenuto calo (di oltre un miliardo di euro negli ultimi dieci anni); di
contro, la quota della spesa sostenuta direttamente dalle famiglie è più alta
di più di cinque punti percentuali rispetto alla media in Europa (27 per cento
in Italia, 12 per cento in Francia e zero per cento in Germania).
Occorre allora essere radicali. Occorre rendere gratuito l’accesso al
sistema universitario pubblico. Per tutti gli studenti che si immatricolano nel
prossimo anno accademico, o almeno per i diplomati che scelgono di continuare
gli studi nelle università meridionali. Le regioni del sud hanno circa dieci
miliardi di euro di fondi comunitari ancora da impegnare o spendere relativi al
ciclo di programmazione 2014-20. Un’occasione straordinaria per riprogrammarne
una parte relativamente piccola (meno di cinquanta milioni di euro, pari
all’incirca allo 0,5 per cento) e destinarla al sostegno del reddito delle
famiglie e del diritto allo studio dei giovani meridionali sotto forma di un
esonero totale per tutti dalle tasse di immatricolazione.
Dalla crisi si esce con lo sviluppo economico, cioè con l’intraprendenza,
con l’intelligenza e la cultura. Con l’università, e quindi con gli studenti.
Che devono essere tanti, molti di più di quanti non siano stati finora,
soprattutto nel Mezzogiorno.
da
qui
da
un’intervista a Nicola Donti:
Dobbiamo
assolutamente ritrovare il valore della pedagogia.
L’educazione
non è neanche più insegnamento, nel senso che non solo non intende più
risvegliare coscienze (ex-ducere) ma neanche lasciare un segno (in-signo), è
oramai ridotta a mero nozionismo, una sorta di indottrinamento su come
diventare sempre più produttivi e ben inseriti nel grande meccanismo del
mercato.
Ecco perché
è stato tanto facile trasferirla on-line, perché per questo tipo di scuola non
è più necessaria la relazione con un maestro ma basta una buona linea di
connessione per trasferire i dati da un recipiente pieno (il docente) a uno
vuoto (il discente).
Oramai non
c’è quasi più spazio per la formazione è rimasta solo l’informazione.
Se
privilegiamo la seconda, non è più necessaria la relazione tra insegnante e
allievo, tanto meno che essa sia profonda, viva e coinvolgente, può facilmente
diventare completamente virtuale.
Il
neoliberismo ha ben chiaro che gli anticorpi si costituiscono a scuola; una
mente libera è difficile da rendere schiava, per questo è stata trasformata in
un laboratorio di indottrinamento svuotato di ogni elemento erotico.
Occorre
rifondare il nostro sistema educativo insegnando a pensare, a sentire ad amare.
L’educazione ai sentimenti e al corretto pensare come presupposto al corretto
agire. Solo mostrando l’importanza dello sviluppo armonico dell’individuo nella
comunità sarà possibile difendersi dal più pericoloso dei virus, quello
dell’egoismo e del narcisismo alimentato da una società aggressiva e
competitiva. Solo così potremmo, forse, evitare l’autodistruzione.
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