venerdì 5 giugno 2020

Dio non gioca a dad



Le lodi delle magnifiche sorti e progressive della didattica a distanza le lascio fuori da questo spazio, perché a essere larghi, di tutte le considerazioni possibili, quelle a favore sono al massimo il 5%.
Sento già gli entusiasti della dad (sempre minuscola) fremere, chi si contenta frema e goda.
Mi ricordano quei chirurghi che, alla domande dei parenti del malato, rispondono che l’operazione è andata bene, ma il paziente è morto.
Per la dad è lo stesso, l’operazione, per chi voleva guadagnare, in tutti i sensi, è andata bene, peccato che la scuola è morta, per quest’anno.

Ho avuto accesso ai risultati di un questionario inviato alle studentesse e studenti delle scuole superiori.
Indico alcune risposte significative.
Alla domanda che cosa ti piace di più della dad le risposte più frequenti sono state: non devo uscire e sto a casa in pigiama, e poi si studiano molte meno cose che a scuola.
Chiunque può capire perché qualcuno ami la dad, motivi chiaramente di ordine culturale, non ci sono dubbi.
Alla domanda se è più facile imbrogliare i docenti a scuola o con la dad, il 99% delle studentesse e degli studenti (senza mettersi d’accordo) risponde che con la dad è più facile imbrogliare (quale docente non ha visto ombre di genitori, gli occhi verso il telefonino o il libro, se la videocamera era accesa?)
Alla domanda se si impara più a scuola o con la dad, il 99% delle studentesse e degli studenti (senza mettersi d’accordo) risponde che si impara più a scuola.
Alla domanda se valgono di più i voti a scuola o con la dad, il 99% delle studentesse e degli studenti (senza mettersi d’accordo) risponde che valgono di più i voti a scuola.

Certo, le domande erano troppo chiare, e anonime, ma se fossero state più ingarbugliate e non anonime, i risultati sarebbero stati ben diversi, sostiene il dott. Mangiafuoco, nuovo direttore magnifico del settore Comunicazione e Propaganda del Ministero della Scuola (appena arrivato, con un curriculum strepitoso, dal diplomificio Il paese dei Balocchi).

E mi torna in mente una frase di Frank Zappa, sempre più vera, a causa anche della dad:
Se volete diventare pigri e stupidi andate al college o all'università. Ma se volete farvi un'educazione andate in biblioteca.

Alcune domande:

Tutti promossi vuol dire, per pochi o molti non importa, che l’anno prossimo si potranno fare due anni in uno (il prossimo anno scolastico e questo), il messaggio è che anche i ragazzi più deboli potranno fare due anni in uno. 
E quando il prossimo anno il Ministero della Scuola rilascerà una nota, firmata dal dott. Mangiafuoco, chiedendo, suggerendo, spingendo, consigliando, raccomandando di non penalizzare troppo i promossi ex Covid-19 di quest’anno?
Peggio di una bocciatura c'è solo una promozione ex Covid 19.


Al Ministero sanno cosa sono gli hikikomori (qui, qui e qui)? Ragazze e ragazzi che amano stare chiusi in casa non sono un campanello d’allarme evidente? Per loro, come per tutti la scuola deve avere e ha anche un effetto terapeutico, e li si lascia chiusi in casa, con qualche psicofarmaco, a volte? Che effetto avrà su di loro la dad?

Ps: ascolto certi studenti (novelli hikikomori) tentati dall’Università a distanza, ho provato a dissuaderli, così:
in Italia fino a pochi anni fa le università a distanza erano luoghi come il recupero anni delle superiori, spesso un imbroglio. negli ultimi anni anche alcune università pubbliche hanno iniziato, e fanno cose decenti, ma non potrà mai essere la stessa cosa.
ci sono dei casi in cui le università a distanza possono essere utili, per chi ha problemi fisici, per i carcerati, per chi ha un lavoro, per chi è troppo povero per vivere fuori (ma ci devono essere le borse di studio, almeno per i capaci e meritevoli).
il valore aggiunto che dà l'università vera (nel senso non a distanza) è molto alto, si conoscono altre persone, si vede il mondo, si apre il cervello (non nel senso delle autopsie).

Forse sono riuscito a dissuaderli, per ora, ma se uscirà un regolamento che semplificherà gli esami se a distanza?


Mi sembra che siamo a uno snodo importante, un salto di specie, per la scuola e l’università, che era sottotraccia, neanche tanto, ma la dad ha reso evidente (alcuni articoli sotto riportati lo segnalano chiaramente).





Associazione Nazionale Presidi: fine della scuola della Costituzione e pieni poteri al capo - Giovanni Carosotti, Rossella Latempa

Il documento pubblicato il 25 maggio scorso dall’Associazione Nazionale Presidi (ANP) più che un elenco di proposte per la riapertura delle scuola è un progetto politico di riforma del sistema di istruzione del paese, che potremmo sintetizzare così: fine della scuola della Costituzione.
Il pregio dell’Associazione di dirigenti è quello di parlar chiaro. Alcuni lettori forse ricorderanno l’illuminante locuzione di “docenti contrastivi” con cui all’epoca dell’introduzione dell’organico di potenziamento -ex legge 107/2015 – l’Associazione definì quegli insegnanti di cui i dirigenti avrebbero potuto “sbarazzarsi” legittimamente, destinandoli ad attività differenziate dal semplice orario di cattedra, perché non allineati o non desiderosi di sottomettersi alla logica autoritaria che la Buona Scuola intendeva imporre alla vita collegiale degli istituti. Anche in questa circostanza, i dirigenti ANP non perdono occasione per rilanciare e imprimere un’accelerazione al processo di trasformazione della forma-scuola. L’intenzione è chiara fin dalle prime righe: mettere a profitto l’emergenza e la didattica a distanza ormai in via di consolidamento per riconfigurare giuridicamente il profilo dei lavoratori della scuola su base gerarchica.
La “riorganizzazione delle modalità operative della scuola”, da cui prende avvio la loro  proposta parte dunque da una precisa definizione di scuola: “servizio da erogare capace di produrre apprendimento”, integrato nel “sistema Italia”. È questa l’idea di scuola dei dirigenti ANP. E coerentemente a tale idea deve procedere la sua riorganizzazione.
Il progetto è ambizioso, esposto in vari punti, a partire dagli aspetti di gestione e organizzazione del personale, fino a quelli didattico-metodologici.

1) E-government della scuola
I dirigenti ritengono sia questa “un’esigenza primaria”, per gestire efficientemente gli aspetti organizzativi, in linea con gli altri enti pubblici. La Scuola, dunque, ente tra gli enti, deve poter “servire i cittadini e le imprese nel miglior modo possibile”. Soprattutto quando l’emergenza sarà passata e saremo in piena crisi economica. Significativa, in tal senso, è l’affermazione per cui la scuola svolga “una funzione generativa all’interno del welfare generale, “facendo rete” con tutti i soggetti portatori di interesse”, che conduce ad una vera e propria distorsione del concetto stesso di welfare, inteso come nuovo scenario di partenariato pubblico-privato.

2) Pieni poteri
La scuola “non potrà replicare il modello precedente all’emergenza” e il dirigente scolastico non potrà più avere lacci e lacciuoli, ovvero quei “vincoli e costrizioni che nulla hanno a che fare con il principio costituzionale del buon andamento[1]. Dopo lo “scudo penale” chiesto in materia di sicurezza (anche qui) , ora i dirigenti vogliono pieni poteri, in nome dell’efficienza e della funzionalità.
Si legge infatti che in futuro sarà necessaria una:
“Valorizzazione del ruolo dei dirigenti scolastici in materia di scelte organizzative e gestionali, sull’esempio di quanto avvenuto durante la fase emergenziale (..). Si devono quindi eliminare, quanto più possibile, i vincoli burocratici e gli ostacoli organizzativi che impediscono ai dirigenti di assumere con la dovuta celerità le decisioni inerenti alla gestione delle risorse umane, economiche e logistiche.”
Una richiesta che evidenzia il totale disprezzo per il confronto democratico all’interno dell’istituzione scolastica, tra le diverse categorie di lavoratori che vi partecipano.

3) Il Middle Management
Vecchio cavallo di battaglia dei dirigenti ANP è la differenziazione di carriera, professionale, salariale dei docenti e la loro riorganizzazione gerarchica. Gli “expert teacher”, come li chiama il Presidente dell’Associazione, saranno quei “docenti evoluti” che lavoreranno “in collaborazione più marcata con la dirigenza”, scelti discrezionalmente. Dovrà essere possibile, nella scuola post Covid, individuare tali “figure quadro” (middle management) il cui ruolo di supporto al “capo” è “non più rinviabile”. Si tratta, di fatto, di differenziare il grado più o meno elevato di collaborazionismo tra i docenti, per minarne la solidarietà interna; prevedendo diverse scale stipendiali a seconda del grado di fedeltà, in nome di possibili incentivi salariali assegnati per tutta una serie di funzioni che nulla avranno a che fare con l’attività e la cura dell’insegnamento.

4) Rimodulazione della professionalità docente e dei gruppi classe
I non prescelti all’interno delle figure di quadri intermedi dovranno dedicarsi soltanto ad “agevolare il processo di formazione in uno scenario orientato alla cultura della competenza”.  In maniera inequivocabile si invoca qui la definitiva trasformazione della professionalità docente, il cui profilo culturale e politico va annientato in nome dello pseudo-concetto di competenza, ovviamente spacciato dall’ANP quale «apprendimento autentico», in contrasto con quello evidentemente impressionistico degli insegnanti d’esperienza. Concetto tanto inconsistente teoricamente quanto concretamente utile a riprogettare l’intero impianto scolastico, come sarà chiaro anche dai punti successivi. In quest’ottica va letta la “rimodulazione oraria delle relazioni classi-gruppi-docenti”. L’idea che il gruppo classe non sia necessario per lo svolgimento di un percorso di crescita culturale, è connessa a quella per cui ciascuno debba essere messo in grado di perseguire obiettivi individuali di competenza. Surreale che questo venga proposto proprio in epoca di riscoperta del carattere prezioso e insostituibile dell’interazione collettiva, mancata in questi mesi.

5) Contratti snelli
La necessaria riorganizzazione interna delle autonomie scolastiche richiederà
interventi di sistema che aggiornino lo sfondo normativo” e che “eliminino le numerose incongruenze e contraddizioni che hanno impedito all’autonomia di svilupparsi appieno”.
Il personale ATA, amministrativo e tecnico ausiliario, dovrà “agire in sinergia alla riprogettazione”, i docenti dovranno “superare la rigida delimitazione a 18 ore della tradizionale cattedra”, i dirigenti dovranno gestire “fondi a (loro) disposizione per compensare il lavoro straordinario del personale”.
Tradotto in termini concreti: smantellare il Contratto Collettivo Nazionale. Ridotte al minimo le relazioni sindacali e assegnati al capo i pieni poteri salariali, in qualità di datore di lavoro, l’autonomia scolastica potrà finalmente, e in pieno stile confindustriale, dare i suoi frutti. Scuole aperte 8-10 ore al giorno, lavoratori flessibili, definizione di costi-standard per alunno. Un modello ben noto, di tipo privatistico, votato alla soddisfazione degli utenti-clienti e dei vari stakeholders che ha trovato finora applicazione nelle scuole private, con risultati evidenti e ben giudicabili da tutti.

6) Superamento dei Decreti Delegati
Il retaggio novecentesco degli organi collegiali, le cui competenze, secondo l’Associazione Nazionale Presidi sono   “anacronisticamente ferme a disposizioni legislative emanate nel lontano 1974 e .. in stridente contrasto con le prerogative dirigenziali” va regolato una volta per tutte, aggiornando “la governance” della scuola ai nuovi profili di alleggerita funzionalità verticistica, come preteso dai dirigenti.

7) Dante o i Beatles?
Di pari passo con la riorganizzazione interna (tempi, profili contrattuali, competenze distribuite) dovrà essere attuata l’essenzializzazione dei percorsi culturali.  Sul portale La letteratura e noi Daniele Lo Vetere  testimoniava qualche settimana fa quanto affermato proprio dal Presidente Giannelli dell’Associazione Nazionale Presidi ai microfoni di sky tg24. Studiare i Beatles o Dante, non fa differenza ai fini di un certo obiettivo di apprendimento. I contenuti contano meno della motivazione. Se la finalità è la competenza del sapere argomentare, tanto vale guadagnarla attraverso un testo ben più coinvolgente per gli studenti, come una canzone dei Beatles, sacrificando il noioso Dante. Poco importa che gli studenti possano concludere il loro ciclo di studi senza neanche sapere chi fosse costui, e non averne letto neanche una riga. Non è questo ciò che sarà loro richiesto dal mercato del lavoro. Accettare l’ignoranza come effetto collaterale della crescita, in fondo, è un fardello sopportabile. E dovrà esserlo ancor più in piena crisi post Covid.  E si ha l’ardire di chiamare tale distruzione di cultura “apprendimento autentico”.

Tra le proposte leggiamo “la necessità di selezionare efficacemente i contenuti da trattare, di proporre le azioni in grado di sostenere la motivazione degli alunni e la partecipazione ai processi non più solo degli attori, ma anche di soggetti che siano portatori di risorse utili in termini di competenza (esperti, produzioni fruibili di musei/biblioteche/enti di ricerca/reti televisive…)”
Bisogna dunque concentrarsi su pochi nodi concettuali, dare spazio a soggetti altri dagli attori scolastici, (“portatori di risorse utili” ) e conseguentemente scardinare il sistema di valutazione degli apprendimenti per “integrare i voti in decimi con livelli di competenza e relative certificazioni” . Per i dirigenti ANP infatti la valutazione “non ha solo lo scopo di misurare le conoscenze apprese, ma anche e soprattutto quello di certificare le abilità e le competenze acquisite dall’alunno”.
Quest’ultimo aspetto, dal sapore a prima vista vagamente progressista (abbasso i voti, largo alla valutazione “formativa”) cela una più retriva volontà di destrutturazione dell’attuale impianto culturale e istituzionale (vedi titoli di studio e relativo superamento in favore di certificazioni individuali delle competenze) dell’istruzione pubblica e del suo compito e orizzonte egualitario di promozione sociale (come più volte sottolineato: qui, e quiqui ad esempio). Inoltre, il termine “certificazione”, ossia un’ attestazione analitica delle abilità dello studente, non potrà che chiamare in causa il rafforzato ruolo dell’Istituto Nazionale di Valutazione INVALSI, a cui oggi è stata “appaltata” l’unica forma di valutazione dichiarata “attendibile” , dalla sua stessa Presidente, Anna Maria Ajello, in spregio alla funzione della valutazione professionale dell’insegnante, ossia della sua capacità di esprimere e sostenere un giudizio contestualizzato, soggettivo e – proprio per questo – significativo.

8) DAD (or alive?)
La didattica a distanza (DAD) e lo smart working, “indispensabili supporti formativi e di organizzazione” potrebbero diventare una “componente curricolare” alla ripresa. L’uguaglianza di opportunità, riformulata in chiave digitale, prevede che sia fornito a ciascuno studente un “device adeguatamente performante con relativa connessione veloce”, come “precondizione per l’accesso all’istruzione a distanza”. Occorrerà poi un intervento centrale per garantire connessione e digitalizzazione, tramite finanziamenti europei. Non ultima, la formazione docenti, che  richiederà “una completa rivisitazione delle metodologie didattiche e dei relativi strumenti” e sarà “il cardine di tutta la struttura curricolare gestita con la DAD”. Una formazione “indispensabile e doverosa”. In una parola: obbligatoria contrattualmente, oltre che ben incardinata metodologicamente.

9) Design thinking e visioni multiprospettiche
Nella parte conclusiva del documento, dedicata al punto più delicato, ossia l’organizzazione didattica, si ricorre alla consueta retorica di mascherare la propria inconsistenza teorica attraverso l’uso di un lessico falsamente specialistico, con l’obiettivo di ammantare di scientificità un impianto di potente torsione autoritaria, per nulla fondato sul piano epistemologico. Da una parte, in una scuola totalmente asservita alla logica di mercato, con un comando di carattere verticale che riduce i docenti a semplice manodopera che deve applicare procedure decise da altri, parlare di «visioni multipropsettiche» risulta alquanto grottesco. Sul piano stilistico, tuttavia, lasciamo, in questo caso – laddove si illustra la metodologia del design thinking –  alla voce dell’ANP pieno spazio e al lettore le conclusioni del caso:
 “pianificare una formazione “su misura” del singolo, inserito nel proprio contesto scolastico, familiare e socioculturale, impegnandosi in una riprogettazione dinamica dell’architettura formativa che sia collegata alle svariate possibilità della didattica digitale, attraverso l’attenta orchestrazione delle situazioni comunicative, dei contesti relazionali in cui si fa scuola, della garanzia di inclusione, multidisciplinarità, intercultura”.
La proposta politica dell’Associazione Nazionale Presidi è estremistica: fa a pezzi il tessuto collettivo-culturale e professionale dell’istruzione pubblica in nome dell’efficientamento del “servizio da erogare”, reinterpretato come diritto costituzionale, capovolge lo spirito stesso del disegno costituzionale, sostituendo ai principi di pluralismo e libertà di insegnamento quelli della concorrenza (più autonomia!) e della fedeltà al capo. La Scuola dell’Associazione Nazionale Presidi non è un’istituzione, né tanto meno un organo costituzionale. E’ un’impresa. E l’istruzione è semplicemente un “segnale”, un fatto individuale, da acquisire e rivendersi nel mercato del lavoro, in perfetta linea con il pensiero economico prevalente.
[1] Principio, sancito dall’articolo 97, letto secondo criteri che lo portano a confliggere con gli articoli 33 e 34.


Teledidattica in assenza - Davide Viero

L’educazione si caratterizza per il suo particolare dislocamento tra piani diversi: tra presente e futuro, tra visibile ed invisibile, tra ancora e non ancora. Proprio in virtù di questo fatto l’agire educativo non può procedere in modo automatico, bensì deve essere la risultante di un soggetto che tiene presente una molteplicità di fattori. In particolar modo, deve tenerli tutti presenti nella mediazione col fine di ogni insegnamento, ovvero con l’infinito compimento dell’allievo. Di ogni allievo.
Se già Marx aveva intuito che le trasformazioni avvengono sempre su base materiale, si tratta oggi di dover decidere se subire le trasformazioni che la realtà ci mette di fronte, oppure se creare nuove condizioni materiali rispondenti al fine coincidente con questo compimento dell’uomo. Insegnare, in questo caso, non vuol dire dare risposte immediate alle domande, ma capire le condizioni che hanno fatto sorgere queste domande e rispondere a quelle. L’insegnante è quindi colui che attiva una mediazione utopico/ideale.
Parimenti, se risulta importante considerare le condizioni materiali che generano la realtà presente, altrettanto rilevante è la considerazione delle conseguenze che questa realtà produce.
L’oggetto che sottoporrò attraverso questo prisma è la didattica a distanza (DaD) o teledidattica in assenza. Essa non è che l’epitome delle trasformazioni che hanno inondato la scuola nelle ultime decadi. Mi soffermerò in modo sommario sulle condizioni di esistenza che l’hanno resa possibile e fatta accettare senza riserve dalla maggior parte dei docenti, ovvero un adeguamento della scuola e degli studenti al contesto epocale, tanto che esso è affermato spudoratamente quasi fosse naturalmente coincidente col bene di ogni soggetto, che così viene individuato attraverso canoni stabiliti a priori dalla razionalità dominante. La sua sempre maggiore astrazione/oggettivazione generale accresce l’importanza del raggiungimento di obiettivi demarcati ed esterni al soggetto, con l’inversione mezzi-fini già individuata da oltre un secolo dai più illuminati pensatori. Mezzi divenuti centrali perché permettono il raggiungimento degli obiettivi così posti. Questi diventano un criterio di selezione anche se, per lavarsi la coscienza in un’epoca dove l’inclusione è il velo di Maya, si nasconde l’incuranza verso gli unfitness con sigle quali DSA, BES, ADHD con le quali vengono dispensati o compensati con ulteriori strumenti oggettivati e pratiche standardizzate nell’indifferenza verso il ragazzo. Quando l’adeguamento all’esterno assume sempre più valore, la scuola passa da istituzione collettiva ad istituzione elitaria, con una somministrazione dell’educazione dispensata per coorti.
In questo scenario la mediazione informatica epocale diventa quella che Baudrillard chiama matrice (con conseguenze performative e preformatrici), nuovo sacro Graal che attira orde di feticisti, tali perché invece dell’uomo essi mettono al centro l’oggetto, il mezzo, ovvero la sinestesia.
Per quanto concerne le condizioni di esistenza, ci bastino queste molto sommarie riflessioni. Diventa ora centrale analizzare le conseguenze della DaD attraverso la mediazione utopico/ideale. Che scuola ne esce? Chi è privilegiato? Chi sono gli oppressi? Vengono prodotti degli scarti?
Importante rilevare preliminarmente che, nella DaD, la scuola pubblica non è più tale, dato che è la risultante di una commistione pubblico-privato. Infatti in tale didattica si fa affidamento su dispositivi privati, quali computer, tablet, telefoni, reti di connessione che, per quanto la scuola si sforzi di dotare le famiglie con il comodato d’uso di tali strumenti, essi non saranno mai sufficienti per tutti.
Inoltre è importante rilevare come il Ministero dell’Istruzione non sia sia dotato di una piattaforma su cui attivare la DaD, per cui è costretto a fare affidamento a servizi offerti dai grandi della Silicon Valley, con Google a fare la parte del leone; con la conseguente raccolta dati quali la velocità di esecuzione, gli interessi, gli argomenti trattati, il livello di bravura etc. Tutti dati che, nonostante l’informativa privacy, vengono raccolti e, anche se non ceduti a terzi o solo aggregati in forma anonima, vengono utilizzati (è esplicitamente affermato) per scopi di implementazione della piattaforma. Che cosa sia questa implementazione nessuno lo sa, anche se è facile intuirlo vista qual è stata la strategia vincente di Google sul mercato della pubblicità.
Fare affidamento sul privato è oltretutto fonte di enormi differenze tra chi vive in città e chi in frazione. Questo perché, data la diversa redditività dei servizi, gli investimenti si concentrano dove c’è addensamento di popolazione, tralasciando le periferie. Qui le reti di connessione sono perciò molto più scadenti che nei centri urbani, con conseguenze didattiche rilevanti.
Inoltre, delegando gran parte dell’azione didattica alle famiglie, gli effetti di questa sui ragazzi non possono che essere la conseguenza delle caratteristiche delle stesse famiglie, in un movimento confermativo e non emancipante. I figli di genitori con titoli di studio più elevati avranno maggiori vantaggi, al pari di chi avrà genitori a casa dal lavoro; diversamente svantaggiati saranno quei ragazzi senza colpa figli di genitori che lavorano o che sono affidati a nonni poco tecnologici o chi per essi.
Inoltre ogni famiglia deve disporre di tanti strumenti quanti sono i figli e, in caso di connessione, essa va divisa tra coloro che la usano, penalizzando le famiglie con più figli e meno abbienti.
Altro punto critico è dovuto all’annullamento dei confini nell’era telematica dove tutto si equivale sullo stesso piano, e ciò è riscontrabile a diversi livelli. Il primo è la perdita del controllo da parte della scuola rispetto alle condizioni di fruizione e ricezione della lezione a distanza, che come abbiamo visto varia enormemente in relazione ai fattori contestuali. Inoltre la lezione, una volta mandata nell’etere, può essere fruita dal mondo intero, registrata, modificata e ripetuta ad libitum per qualsiasi scopo, con quello che Baudrillard chiama “il delitto perfetto”, ovvero la perdita della referenza ad un qualcosa di reale, con il conseguente svanimento della verità.
Tale perdita di controllo la si ha anche nella valutazione, dal momento che la misura stessa non è più controllabile, perché infinite sono le variabili che la condizionano: dal genitore che suggerisce fino a tutti gli altri escamotage verso cui il docente rimane cieco. Inoltre, grazie all’enorme influenza della famiglia nella didattica, la valutazione cade sotto i colpi della misura stessa, inverando l’acuta riflessione di don Milani secondo la quale “non c’è cosa più ingiusta che fare parti uguali tra disuguali”.
La perdita di confini con il conseguente appiattimento su di una monodimensione la si riscontra anche nel rapporto col tempo. A tutte le ore ci sono comunicazioni da parte dei docenti, con la conseguenza che salta la distinzione tra le temporalità diverse che caratterizzano la giornata.
L’appiattimento su di un’unica dimensione si verifica anche grazie all’uso di dispositivi connessi e potentissimi nelle mani di ragazzi/bambini che non posseggono ancora una struttura propria attraverso la quale attribuire senso a ciò in cui si imbattono. Col pericolo di una formazione immediata o diversamente mediata, senza più filtri di educatori consapevoli che possiedono cultura e sapere. Inutile rimarcare come l’opera della scuola dovrebbe essere soprattutto un’opera di mediazione, attraverso il passaggio tra più dimensioni, proprio per superare l’immediatezza dello stato di natura.
Un altro aspetto che la DaD chiama in causa, contrariamente alla vulgata riferita al suo carattere inclusivo verso quegli alunni con particolari problematiche, è proprio l’elevato tasso di oggettivazione e standardizzazione con cui essa si presenta. Infatti la lezione è uguale per tutti, tanto più se essa è registrata così da non permettere la modulazione e le interazioni maestro-allievo sul contenuto. Essa non rende giustizia all’allievo, di cui non coglie i disagi, gli entusiasmi, le difficoltà e le passioni, ovvero ciò che Simmel chiama la base di ogni lezione. Ma questa ingiustizia si propaga anche dall’altra parte del filo, ovvero il versante dell’insegnante che non può suscitare aspettative e curiosità anche solo con un’inflessione della voce o con la sola presenza, controllate con la maestria dell’esperienza; tutte possibilità significative di risveglio negate per ogni singolo in quel preciso istante.
Se queste sono solo alcune riflessioni quasi immediate, se ne possono fare anche di relative alla sfera epistemologica. Infatti la DaD non è solo una didattica diversa: è un diverso modo di intendere l’educazione e l’insegnamento, frutto di una razionalità strumentale dove, all’accresciuto peso dell’esterno in forma di obiettivo da raggiungere, primeggiano i concetti di efficacia ed efficienza, al di là o ben prima di ogni demarcazione frutto del senso centrato sull’uomo. Questa didattica non fa che assumere, senza più remore e diventandone anzi un vettore, la razionalità che produce il modello liberista ormai tralignante in tutti gli ambiti della vita. Un modello incurante nel rimuovere gli ostacoli al compimento di sé, perché incentrato su obiettivi specifici esterni e sull’individualismo con cui ci si relaziona ad essi. Il liberismo non si interroga mai sull’uomo e sulla sua situazione di partenza, ma volge il suo sguardo solo sui punti di arrivo e, in questa corsa iper competitiva e selettiva, nessuna attenzione è rivolta verso chi è rimasto indietro per molteplici cause; al contrario la soluzione proposta da parte di tale razionalità alle difficoltà, sembra essere quella di un’ulteriore liberizzazione e competitività al di fuori di lacci e lacciuoli che non fa altro che accrescere la malattia con un’ulteriore inoculazione di virus.
Nella DaD, quindi, il discorso educativo ratifica ed accentua le disparità già presenti, allargando il fossato tra i sommersi e i salvati. Ciò preclude il compito dell’educazione nel sovvertire l’ordine della natura, fondato sulla selezione del più adatto, a favore di un ordine umano in cui ci sia il compimento di tutti. Nelle parole di un dirigente scolastico (o forse solo un venditore sotto mentite spoglie) ascoltate a distanza, tutto si esaurisce con: “L’importante è che noi offriamo un servizio”; ovvero la DaD, indipendentemente dal fatto se essa sarà fruibile da tutti (e perciò selettiva) e in che modo verrà recepita, evidenziando un’autoreferenzialità che annulla ogni spirito di servizio, in una colpevole dimenticanza dell’uomo che nella scuola assume il volto di ogni studente.
La DaD è perciò un debole surrogato di un servizio verso tutti, perché è relativamente semplice celebrare il rito della video lezione, altro discorso è quello relativo alla fruizione di tale lezione nelle sue condizioni contestuali nelle quali viene recepita.
A livello epistemologico non si può non rilevare lo slittamento dell’educativo da ambito umano a paradigma comunicativo: freddo, indifferente e ratificante il dato; con le parole di Eliot a ricordaci tutto quel che si perde nel passaggio dalla conoscenza all’informazione. Questa, infatti, può esser arricchita solo da chi ne ha la possibilità. E non tutte le famiglie hanno questa possibilità. Benjamin scrisse che “il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti)[1]; ora questo avviene attraverso il livello individuale e la DaD “permette di mobilitare tutti i mezzi tecnici attuali, previa conservazione dei rapporti di proprietà[2].
Concludo con alcune riflessioni propositive: su dieci anni di scolarizzazione, perdere 2-3 mesi non lascia strascichi che non siano recuperabili. Se la scuola non è possibile attivarla, bisogna prenderne atto ed agire considerando la mediazione dell’ideale, come discrimine tra ciò che che va fatto e ciò che non va fatto. Continuare imperterriti con attività ad altro tasso di oggettivazione è delirante. Piuttosto sono infinite le possibilità altre per procedere sulla via del compimento di sé negli allievi, proprio al di fuori dei limiti della scuola fin qui attivata. La lettura, la scrittura libera, l’ascolto di buona musica; tutte attività che accrescono la capacità di osservazione, di riflessione, di immaginazione e sensibilità. E tutto questo al di fuori di quello che Simmel chiama lo spirito del denaro, ovvero la quantificazione del valore e la misurabilità di tutto in vista dello scambio e della proprietà.
Una scuola che propone senza chiedere un ritorno in termini valutazione, può essere una possibilità di risveglio per un altro ordine del discorso. In fondo, le esperienze più significative, sono con quello che Agamben chiama l’inappropriabile.
Bibliografia.
Agamben G., Arte e anarchia, Neri Pozza, Vicenza, 2017.
Baudrillard J., Il delitto perfetto, Cortina Raffaello, Milano, 1996.
Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966
Eliot T. S., Cori da La rocca, Rizzoli, Milano, 1994.
Foucault M., L’ordine del discorso, Einaudi, Torino, 1972.
Levi P., I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986.
Simmel G., Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 1995.
L’educazione in quanto vita, Il Segnalibro, Torino, 1995.
Denaro e vita, Mimesis, Milano, 2010.


[1]W. Benjamin: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966, p.46
[2]Ivi, p. 47.



DAD: Disvelamento di un Annunciato Disastro? - Martina Di Febo

La didattica a distanza ha avuto un indubitabile merito: mettere a nudo la reale natura della scuola italiana. Molto è stato già scritto sulla diseguaglianza digitale, sulla discriminazione sociale e sull’esclusione delle fasce più deboli di studenti. Per colmare il divario tecnologico, cosa fa il MIUR? Stanzia 85 milioni per l’acquisto di dispositivi. Per cercare di raggiungere un milione e seicentomila allievi ancora dispersi ai primi di aprile, qual è stata la mossa strategica del MIUR? Stabilire l’obbligatorietà della didattica a distanza e della relativa valutazione espressa in decimi. È stato sottolineato come la didattica a distanza non sia democratica[1], pochi, tuttavia, hanno sollevato dubbi di costituzionalità sull’obbligatorietà[2] di una modalità didattica che non riesce a raggiungere la totalità di studenti (in particolare negli ordini della scuola dell’obbligo).
Geremiadi sono state intonate per l’assenza di digitalizzazione della scuola, per l’arretratezza degli strumenti e del corpo docente, solo alcuni però si sono soffermati a riflettere sul fatto che il divario digitale è solo l’ultimo, estremo, superficiale riflesso di una condizione direi ontologica della scuola italiana, incancrenitasi negli ultimi decenni: la scuola italiana è, in massima parte, classista e divisiva. Questa fotografia impietosa ce la restituisce l’INVALSI ogni anno. Ma, secondo il costume dell’Istituto di valutazione, le disparità dei risultati tra le varie scuole vengono sempre implicitamente e anche esplicitamente imputate ai dirigenti, ai docenti. In dodici anni di rilevazioni INVALSI sembra quasi che nessun ricercatore dell’Istituto né alcun direttore si sia mai preso la briga di analizzare nel dettaglio e nel complesso il peso specifico dei dati significativi[3], ovvero la composizione sociale delle classi; le particolari situazioni economiche e culturali delle famiglie; le difficoltà linguistiche, soprattutto per ciò che concerne la prova di italiano, di allievi non italofoni, a cui il Ministero ha sbrigativamente incollato la targhetta BES (Bisogni Educativi Speciali) per esonerare se stesso e i vari governi da interventi mirati e da investimenti adeguati di personale. Gridare oggi che la didattica a distanza è divisiva è un atto ipocrita, utile se e solo se dovesse finalmente condurre ad una presa di coscienza forte. In questo spaccato emergenziale abbiamo assistito in effetti all’affannosa attivazione della didattica a distanza da parte di tutte le scuole, non perché necessariamente afflitte da sindrome da prestazione, bensì perché nella maggior parte dei casi essa costituiva l’unica risorsa per poter riallacciare il dialogo formativo con gli studenti.
All’interno di questo frenetico gran galà, tuttavia, sono emerse macroscopiche differenze. Le scuole che vantano le posizioni migliori nelle classifiche di Eduscopio (Fondazione Agnelli) e che ‘casualmente’ sono frequentate dai ceti medio-alti hanno proceduto come panzer nella replica a distanza della didattica in presenza affliggendo gli studenti con orari settimanali estenuanti (20-22 ore settimanali); con consegne e riti valutativi nella peggior tradizione della didattica trasmissiva, frontale e punitiva. Accanto a queste, si sono subito prodigate con consigli e impositive buone pratiche le scuole dirette da dirigenti iperallineati al diktat della didattica per competenze[4] (processo di Lisbona), i quali, da anni lanciati verso le «magnifiche sorti e progressive» delle nuove tecnologie, hanno trasformato gli strumenti digitali in fine, perseguendo lo smantellamento della scuola della riflessione e della profondità a profitto di meccaniche abilità atte a modificare l’individuo in un essere plasmabile e prono alle istanze del mercato. Nell’uso del lemma ‘scuole’ intendo ricomprendere tutte le componenti di quelle comunità, quindi dirigenti, docenti e famiglie che condividono la medesima Weltanschauung. E se la prima tipologia di scuola, che potrebbe essere in maniera semplicistica identificata con la scuola della tradizione, a cui una spolverata di digitale consente di fregiarsi del titolo di eccellenza, sembrerebbe contrapporsi, nella percezione dell’opinione pubblica, alla seconda, incentrata sull’innovazione, solo nominale, della didattica per competenze, ad uno sguardo più acuto ci si accorge che la posizione antipodale è pura illusione. Entrambi i modelli di scuola soggiacciono alla medesima logica esclusiva e classista. Perché? È semplice, perché rispondono banalmente ad una divisione della manodopera e degli individui sulla base delle provenienze sociali. La prima riservata ai rampolli delle future classi dirigenti, conserva l’aura ammuffita della scuola del ‘rigore’ e delle rigide nozioni; la seconda smantella spesso i contenuti e li semplifica, impastandoli con i mirabolanti e scintillanti nastrini del digitale, per formare soggetti inabili al pensiero. In mezzo, tutte le scuole che provano a resistere, tentando di non cedere, scommettendo, soprattutto quando la maggior parte degli allievi proviene da contesti svantaggiati, su un’idea di scuola democratica, che possa fungere, come è stato per un breve periodo (dal 1970 ai primi anni Novanta del Novecento), da reale ascensore sociale, consentendo anche ai Gianni di Barbiana di raggiungere, proprio con lo studio (nel suo pregnante significato etimologico) lo stato sociale dei vari Pierino[5]. A fronte di questa constatazione stona e infastidisce ulteriormente lo sguaiato accusare la didattica a distanza di non favorire lo sviluppo del pensiero critico e di non essere fruibile da tutti.
La scuola italiana sembra aver abdicato al suo profondo dovere costituzionale dal lontano 1997, anno della controversa riforma sull’autonomia (l. 59). L’autonomia non è mai stata realizzata se non in direzione negativa, ovvero di diminuzione di fondi dalle istituzioni centrali; dell’apertura alle munifiche donazioni di privati[6]; della creazione dei mostruosi ircocervi che sono gli istituti comprensivi; dell’abolizione, per il segmento della scuola dell’obbligo, del bacino di utenza. La ‘liberalizzazione’ della scelta delle famiglie si è tradotta nella fuga dalle scuole di quartiere dove nel frattempo si assisteva ad una trasformazione sociale imperniata sullo stanziamento di famiglie non italiane, le quali affiancavano i ceti marginali autoctoni oppure subentravano a sostituire le fasce operaie e popolari che in precedenza occupavano le case di edilizia residenziale pubblica. Questo fenomeno, particolarmente visibile nelle grandi città del Nord, ha condotto alla creazione graduale di scuole ghetto.
La situazione scolastica della città Milano rappresenta, rispetto alle riflessioni precedenti, l’avanguardia di un esperimento sociale e politico le cui linee confluiscono nell’ideologia della meritocrazia-valutazione-competenze, già ampiamente analizzata e sviscerata in una serie innumerevole di articoli. Riprendiamone per sommi capi le linee portanti: la meritocrazia è intesa come successo del singolo che deve essere misurato con strumenti illusoriamente obiettivi per consentire l’affermazione di cittadini abili e ‘competenti’. Applicata all’universo della scuola e alla sua missione formativa, la triade si traduce in una micidiale miscela di colpevolizzazione del singolo (anche quando si tratta di bambini, preadolescenti e adolescenti le cui possibilità tanto dipendono dal contesto); di misurazione standardizzata degli apprendimenti secondo la modalità della somministrazione di test che azzerano i percorsi divergenti e soggettivi; di smantellamento degli edifici epistemologici delle discipline[7] e infine dell’imposizione di una metodologia didattica che nell’esaltazione della competenza avulsa dalla conoscenza azzera la scoperta, la riflessione, il pensiero creativo[8]. La scuola si erge sempre più come un’istituzione totale, direbbe Foucault[9], autoritaria che reprime le potenzialità dei soggetti. All’interno del sistema scolastico milanese è interessante studiare l’inesistente mobilità sociale degli studenti, al contrario condannati dalla propria provenienza sociale ad una rigida divisione degli istituti scolastici. Stando ai dati INVALSI, i peggiori risultati nelle prove di italiano e matematica nella classe terminale della scuola secondaria di I grado, contrassegnano una linea di istituti geograficamente e sociologicamente connotati: aree periferiche e semiperiferiche, all’interno delle quali preponderante è la presenza di famiglie con svantaggio economico e culturale, su cui insiste inoltre un alto tasso di flusso migratorio straniero[10]. Nelle scuole delle zone centrali o attigue, invece, i risultati delle prove INVALSI sono eccellenti. Confrontando il numero di iscritti, il dato che emerge è la numerosità di studenti nelle scuole del centro-città a fronte dell’inferiorità numerica caratterizzante gli istituti periferici[11]. Se volessimo utilizzare questi dati in direzione contraria alla lettura fornita dall’Istituto di valutazione e all’uso proposto da fondazioni che esprimono una visione aziendalista-‘meritocratica’ della scuola, potremmo facilmente evidenziare come nessuna azione sia mai stata intrapresa per superare questo gap che certifica semplicemente l’immobilismo sociale e culturale delle fasce svantaggiate. Nonostante i risultati siano pubblici, non sembra che essi abbiano apportato una maggiore cognizione di causa ai dirigenti politici: non è stato pianificato nessun intervento per favorire la creazione di zone residenziali miste, sottraendole alla pura gentrificazione (come accaduto negli ultimi quindici anni a Milano in molte zone ex-popolari), di conseguenza nessuna strategia reale di rimozione delle differenze economiche è stata adottata. Ma, decisamente più grave, è il fatto che nei confronti delle scuole, al di là della sponsorizzazione di mille progetti da ostentare in vetrina, è mancata, da parte delle istituzioni, una pianificazione efficace per certificare i successi degli allievi, successi conseguiti all’interno di percorsi più complessi che esulano dai test Invalsi. Non paghe, le pensanti menti dell’amministrazione hanno proceduto al taglio delle risorse per potenziare il tempo pieno, per aumentare gli interventi di alfabetizzazione, in poche parole per mettere gli studenti e le scuole nelle reali condizioni di progettare itinerari didattici in grado di ridurre i dislivelli e quindi di garantire maggiore mobilità culturale. L’Invalsi semplicemente registra e, fissando standard di comprensione del testo che espellono altre forme di acquisizione linguistica, punta il dito contro l’inefficienza delle scuole e implicitamente condanna gli allievi all’esclusione. Lo stesso discorso può essere esteso agli istituti superiori dell’ambito tecnico, ma soprattutto professionale. Per le fasce svantaggiate delle zone semiperiferiche e periferiche, lo Stato mette dunque a disposizione scuole che pur nello sforzo immane di promuovere lo sviluppo delle conoscenze e di colmare i divari, restano condannate dalle rilevazioni Invalsi e dalle classifiche di Eduscopio a restare nell’inferno delle scuole di serie b, da cui solo pochi, a fatica, riusciranno a emergere. La crescita democratica che all’interno del sistema basato sull’obbligatorietà del bacino di utenza consentiva la formazione e la frequentazione di gruppi sociali eterogenei, favorendo lo sviluppo del confronto, della permeabilità dei ceti, risulta in buona parte distrutta dalla libera scelta delle famiglie. Si giunge così alla paradossale situazione tale per cui gli alunni non italofoni delle aree periferiche o popolari non possono contare pienamente sul contesto scolastico per una profonda acquisizione della lingua italiana, dal momento che il gruppo classe è spesso composto in massima parte da bilingui o allofoni. Il destino degli alunni appartenenti alle fasce deboli resta quello di essere travolti all’interno dei corsi di formazione professionale (privati) o degli istituti statali ad indirizzo professionale che dopo la riforma Gelmini scimmiottano i tecnici e i licei, avendo subito il depotenziamento dei laboratori e la limitazione della stessa possibilità di apprendere in classi composte da 30/32 allievi difficili e spesso demotivati. In alcuni rari casi, l’accesso agli ambiti tecnici e/o liceali, potrebbe, invece, comportare il fallimento a fronte di un’impostazione didattica iper-performante, tutta incentrata sulla clava della valutazione sommativa.
Se la facies reale della scuola è dunque emersa con forza proprio in virtù della didattica a distanza, bisogna riconoscere che essa si è consolidata grazie ad una serie di riforme che hanno via via smantellato, nell’aporia tutta contemporanea del discorso ‘a una dimensione’[12] imperniato sulla centralità dello studente e del suo sviluppo armonico, i timidi tentativi che hanno sostanziato alcune riflessioni della pedagogia democratica, soppiantata dalla retorica burocratizzante dei piani didattici personalizzati e dell’inclusione affidata a circolari e regolamenti spesso autoreferenziali.
Sono tutti tasselli che vanno a comporre il medesimo puzzle: una concezione della scuola che nella sua pervasività e nella sua incapacità di incidere sulle differenze sociali e di attenuare le discriminazioni è perfettamente funzionale e organica all’attuale organizzazione sociale e economica. Una scuola insomma classista e divisiva, di cui la didattica a distanza costituisce l’ipostasi.

[1] A. Cortazzoli, «Scuole chiuse, la didattica a distanza non è democratica», Il Fatto quotidiano, 3 aprile 2020.
[2] D.L. 22, 8 aprile 2020, art. 2, comma 3.
[3] Il discorso merita una precisazione: l’INVALSI ha in realtà analizzato tutti i dati, tanto da individuare e distinguere i parlanti nativi; i neoarrivati; i bilingue, così come nel monitoraggio si avvale di tutti i dati socio-economici. Eppure non ha modificato di una virgola il tipo di prova, né si è interrogato se la prova di italiano così strutturata costituisca una modalità efficace per misurare gli apprendimenti degli studenti non perfettamente italofoni. A peggiorare il quadro, negli ultimi anni l’Invalsi ha aggiunto l’effetto-scuola, un modo per ribadire che se gli allievi non raggiungono risultati eccellenti la colpa è dell’istituto, ovvero del suo dirigente e del suo corpo docente. Potrebbe anche essere parzialmente vero, ma come commentare il fatto che un istituto che sorge in un contesto ad alto flusso migratorio, nel formulare le proposte per l’organico potenziato dell’autonomia (l. 107/2005, La buona scuola), richiede insegnanti di italiano, magari con specializzazione nell’insegnamento di italiano Lingua2 e si vede invece assegnare un docente di pianoforte (in una scuola dove l’indirizzo musicale non è attivo) e un docente di inglese?
[4] Le famose competenze-chiave elaborate all’interno del processo di Lisbona (2000) e fissate dalle Raccomandazioni del Consiglio europeo (2006), tra le quali spicca una delle massime competenze metacognitive da acquisire nei vari gradi di istruzione, ‘imparare ad imparare’, ovvero quella competenza la cui maturazione maggiormente dipende da estrazione sociale e da benessere economico.
[5] Don L. Milani, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967.
[6] Controversa questione che ha acuito le differenze: una scuola frequentata dai ceti abbienti può contare sull’elargizione generosa di famiglie benestanti, attirando anche l’interesse delle fondazioni private; al contrario gli istituti popolati da un’utenza appartenente ad un ceto sociale economicamente svantaggiato certo non può disporre della munificenza delle famiglie, né attrarre le fondazioni. Indi l’abisso risulta incolmabile.
[7] Si vedano a questo proposito le dettagliate e lucide analisi di Giorgio Israel in risposta alle proposte avanzate da Cesare Cornoldi, C. Cornoldi ; G. Israel, Abolire la scuola media?, Bologna, Il Mulino, 2015.
[8] Un corollario di questa concezione aberrante della meritocrazia e della valutazione sarà costituito dall’emanando decreto sulla valutazione ai tempi della didattica a distanza. Il Ministro ha affermato che si ricorrerà alla valutazione sommativa in decimi in barba alla dispersione di milioni di allievi, la maggior parte dei quali non raggiunti dalla modalità didattica telematica per problemi strutturali e in barba, tra l’altro, ad una considerazione effettiva del periodo eccezionale all’interno del quale gli studenti e le studentesse si sono ritrovati/e catapultati/e.
[9] M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 2005 (ed. or. 1975); Id. Storia della follia nell’età classica, Milano, BUR, 2011 (ed. or. 1961).
[10] Consultando i Rapporti di autovalutazione delle scuole collocate nella cerchia periferica milanese, si evincono i seguenti dati: scuole con simili composizioni socio-culturali svantaggiate riportano i medesimi esiti negativi nelle prove Invalsi. I Rapporti di autovalutazione si possono consultare navigando in Scuola in chiaro, https://cercalatuascuola.istruzione.it/cercalatuascuola/.
[11] Basti come esempio significativo l’analisi della numerosità della popolazione dei singoli istituti del Municipio 4, un municipio che comprende zone periferiche e semi-periferiche di edilizia residenziale pubblica, integrata, tuttavia, in un contesto di piccola-media borghesia fino all’area attigua al municipio 1, in Porta Romana, ovvero in pieno centro città. Nelle scuole secondarie di I grado più distanti dal centro il numero medio di iscritti è di 190-200 per arrivare ai 766 dell’istituto centrale più blasonato. La densità abitativa della zona in cui sorge quest’ultimo non giustifica affatto la numerosità della popolazione scolastica.
[12] Parafrasando il noto Uomo a una dimensione di H. Marcuse, Torino, Einaudi, 1999 (ed. or. 1964).


Liberare la scuola - Paolo Mottana


Anzitutto calma (senza gesso). Non c’è fretta. O meglio, non ci deve essere fretta. Si sa che bisogna rinchiudere al più presto i bambini a scuola affinché i genitori possano tornare a fare il loro dovere di bravi lavoratori. E tuttavia i bambini non richiedono soluzioni raffazzonate e accelerazioni furiose. La scuola, o meglio, l’educazione, non è un’azienda che deve far profitto e il suo profitto non è comunque il numero di ore che i suoi allievi trascorrono parcheggiati in essa. Se si conoscesse minimamente qualcosa di apprendimento si saprebbe bene che il numero di ore trascorse all’interno di un posto come la scuola (almeno per come è oggi nella maggioranza dei casi)  è inversamente proporzionale all’avanzamento dell’apprendimento autentico di ogni bambino o ragazzo su questa terra.
Prendiamo il tempo necessario e cogliamo l’attimo. L’attimo che questo stop ci ha dato per capire una serie di cose.
Innanzitutto che non sono bambini e ragazzi ad aver bisogno di noi ma noi di loro (noi intendo educatori, insegnanti e compagnia cantando).
In secondo luogo che occorre prestare la massima attenzione con quel bizzarro caravanserraglio della didattica a distanza, che si è rivelata un completo buco nell’acqua, non solo per la grottesca strutturazione operativa che le è propria ma anche perché né insegnanti né ragazzi (i famosi nativi digitali) sanno utilizzare tecnologie spesso complicate quanto invasive e inattendibili. Abbiamo visto che molti allievi non si collegano, che altri sono disturbati dal viavai domestico, i video vengono fatti girare come oggetti di scherno ecc ecc. Se proprio la si vuole fare che si predisponga una corretta formazione per entrambe le categorie.
Occorre essere seri e pensare ad un’educazione seria, sensata, che procuri apprendimento e non un po’ di loisir per famiglie annoiate e ragazzi che pur di vedere facce diverse si accontentano anche degli insegnanti. Quindi: ridurre al minimo la didattica a distanza, già una panzana in sé ma ancor peggio quando le tecnologie disponibili sono scadenti e per di più mal utilizzate.
I bambini e i ragazzi han bisogno di incontrarsi e di vivere carnalmente il mondo. Quindi fuori il più presto possibile chiarendo bene con questi benedetti esperti e scienziati (se se ne trova qualcuno che ci abbia capito qualcosa), quali rischi effettivi corrono anzitutto loro e poi i loro parenti. Io mi auguro che ora di settembre molti dei timori (talora non si capisce quanto fondati) che minano oggi la fiducia in una ripresa in carne ed ossa della vita sociale siano scomparsi (sempre che qualcuno non abbia interesse a mantenerli tali, e possiamo immaginare chi).
Detto ciò, posto poi che davvero una didattica a distanza sia necessaria, occorrerà aumentare il più possibile le attività all’aria aperta, per tutti e non solo per i più piccoli. Dividere il più possibile i gruppi, con alternanza di attività motorie e attività cognitive da svolgersi in piccoli gruppi in spazi ampi e distanziati dove necessario (liberare le aule dai banchi potrebbe essere un primo espediente, poi utilizzare spazi più grandi come palestre, giardini, campi sportivi interni alla scuola o altri spazi agibili nelle vicinanze).
Insegnare per progetti, per percorsi e per esperienze articolate, come predicato dall’educazione diffusa in tutti quegli ambiti vitali che stimolano l’interesse e l’entusiasmo dei ragazziservizi (i ragazzi proprio ora potrebbero far molto per chi è più in difficoltà, dal fare la spesa, portarla a casa a altri piccoli servizi di pubblica e domestica utilità); lavoro (allo stesso modo potrebbero prendersi in carico piccoli lavori di riparazione e anche di recupero all’interno delle stesse scuole o all’esterno dove sia possibile e abbia senso, dalla cicloriparazione, ai giardini, agli orti, ai parchi robinson, ai sentieri (dove ci sono) ecc ecc.
Poi produrre una grande centratura sui corpi, i veri avviliti da questo tragico periodo: avviando a costruire percorsi di arti marziali (quelle a distanza se occorra, o le forme esercitative di quelle corpo a corpo), bioenergetica, meditazione, sport, corse campestri, giochi senza frontiere (anche da inventare), educazione sessuale (con modelli plastificati antivirus) ecc. ecc..
Ancora naturalmente e più che mai la natura. Assolutamente, a tutti i livelli anagrafici e psicoaffettivi, avviare attività nella natura, in cui esplorare, osservare, vivere insieme alle forme della vita vivente e non a quelle mummificate sui libri e lì inscenare la ripresa dei propri corpi e dell’ambiente non cementificato.
Infine tutto il grande ambito delle espressioni artistiche: dalla pittura alla scultura, dalla danza al teatro, dal cinema alla fotografia alla composizione poetica. Se non si potrà farli toccare tra loro (ahinoi), reciteranno e danzeranno distanziati o “mascherati”!
La didattica disciplinare deve sempre più essere al servizio di attività complesse, di progetti, di iniziative di cui sia alimentazione e strumento piuttosto che ingombrare di ore di lezione smorte e avvilenti (e poco funzionali all’apprendimento). L’utilizzo di materiali video, di lezioni (anche videoregistrate ma ben fatte) ma soprattutto di quell’enorme risorsa di documentari ormai disponibile a tutti deve servire solo da innesco per discussioni, interpretazioni, messe in scena, processi giudiziari ecc. in cui gli argomenti culturali siano finalmente vissuti come fonti di appassionamento individuale e interpretazione collettiva.
Se poi esisteranno abilità o conoscenza escluse da tutto ciò d indispensabile per sormontare i test di occupabilità stabilite dagli stakeholder delle multinazionali, che si facciano piccoli laboratori di recupero, consulenze individuali, gruppi di supporto.
Questa è l’occasione buona per ripensare i curricoli, per sfondare il mortorio scolastico, per aprirsi all’esterno, per liberare soggettività, espressioni, forme vitali che sono state messe in quarantena ben prima che arrivasse il coronavirus.


L’immunità del gregge - Enrico Euli


Si potrebbe chiamare “immunità del gregge”. Poco a che vedere con quella sanitaria (immunità di gregge), anche se le parole contano (ed anche le analogie). La parola latina munus può significare molte cose diverse (impegno, ufficio, obbligo, ed anche dono…) e sta dentro alcune parole importanti (munire, comunicare, comunità, immunità…). L’im-munitas è quel che ci toglie l’obbligo, ci esonera dall’impegno e dalla preoccupazione, ci evita problemi. La nostra communitas è divenuta sempre più negli anni una entità collusiva immunizzata e immunizzante, che ossessivamente cerca di proteggersi in tutti i modi dal negativo: dai pericoli e dai rischi, dai conflitti, dalla messa in gioco, dalle impurità, dalle catastrofi, dallo straniero e dal pensiero. La nostra securitas (da sine cura, sans souci, senza preoccupazione) sta in un’area semantica affine e si fonda su una pedagogia immunizzante di massa. La gran parte delle nostre energie vitali sono da tempo e ogni giorno dedicate soltanto a respingere il male che ci attornia (l’esperienza del coronavirus è soltanto l’ultima, più evidente ed estrema esperienza all’interno di questa sindrome). Se le persone e le comunità si immunizzano per evitare la paura è inevitabile però che inizino a temere fortemente la libertà (questo timore non sta solo al termine del processo, ma anche all’origine, peraltro). E la comunità che fugge dalla libertà è quella che si fa gregge. Su questi temi vi consiglio Liberi servi di Gustavo Zagrebelsky e La politica senza politica di Marco Revelli, letti in questi giorni tristi.
Ma, in attesa che arrivi il vaccino e l’immunità di gregge, l’immunità del gregge ora diventa (anche) un problema: perché la massificazione nega alle persone la capacità di gestirsi in autonomia. Perché se trasformiamo i giovani in greggi di idioti che attendono soltanto lo spritz della sera o i bagordi della notte per potersi sentire vivi, dopo averli fatti stazionare per ore davanti ai visori o sui divani, non possiamo sperare che poi, appena lasciati a razzolare, siano ragazzi responsabili (leggi anche E i giovani? di Franco Berardi Bifo, ndr). Se esoneriamo la gente dal pensare non possiamo poi sperare che pratichi il buon senso (così pare si chiami ora l’obbedienza). Significativo che molte persone si stiano rifiutando di farsi fare i prelievi per i test sierologici. Dobbiamo pur pagare un prezzo per quel che abbiamo voluto fare del “popolo”. Dà grandi vantaggi, quando sta sotto. Con qualche effetto collaterale negativo.
Ma attenzione: non per loro o per noi. Non ce ne frega niente, davvero, dei bambini, dei giovani, degli adulti, né tanto meno dei vecchi. No, non devono fare follie, ma solo per la causa. È il capitalismo che non può, non deve rifermarsi. Ha già sopportato troppo, non può essere rimesso in causa da quattro scapestrati. Ed ecco l’incazzatura di Sala di una settimana fa per i giovinastri sui Navigli. E allora ecco lo spot terroristico del Veneto contro la mo-rti-vida e la desperate happy hour. Ed ecco le minacce dell’Oms sulla terrifica seconda ondata che tornerà in autunno. Ed ecco l’invenzione degli assistenti civici, preambolo alle prossime ronde di stato. Dopo il premio, se non funziona, ritornano le punizioni (e per tutti, non per chi trasgredisce…) Siamo sempre lì: o costrizione da lunga paura o piacere da breve ribellione. Nessuno spazio per qualcosa che abbia a che vedere con l’etica o con l’educazione. Puro infantilismo statunitense, da entrambe le parti. Ci si muove solo e sempre tra duri sceriffi senza cuore e pervertiti senz’anima e senza scampo.
Da qui anche il muro contro muro tra regioni ancora contagiate e altre sedicenti covid-free. Ora il governo, dopo aver isolato zone rosse e aver imposto detenzioni di massa prolungate per milioni di persone, dividendo famiglie e fidanzati, solo ora scopre che non far partire i lombardi per le vacanze fuori regione sarebbe incostituzionale. Non si cambia il-logica dell’in-differenza: ci hanno fatto andare in panico solo perché le terapie intensive del nord non reggevano, e solo per questo hanno costretto paesi interi del sud e delle isole (che non hanno mai avuto un contagio) a stare isolati per mesi. Questo non era incostituzionale? Sì, ma era anche stupido. Ed ora è stupido farne una questione di razzismo regionale, e buttarla in politica-colitica, come fanno Fontana-Gallera e Sala: si tratta di fare differenza tra chi ha ancora contagi e chi non ce li ha, tra chi può contagiare e chi può essere contagiato, semplicemente. Ma davanti ai soldi e ai ricatti dei forti le regole sanitarie non valgono più, valevano solo all’inverso, sino a poco tempo fa. A proposito: chi poteva dubitare che la serie A avrebbe ripreso, visti i soldi che ci girano? L’ho già scritto: solo una ripresa dei contagi tra calciatori potrà salvarci.
Un ultimo accenno all’università: mentre tutto riapre, lei, povera nobile decaduta, mantiene alzato il ponte levatoio del suo castello, e sbarrati i suoi portoni ben sanificati. Solo i portali restano aperti. E così sarà ancora a lungo, certamente anche per l’anno accademico prossimo. La Dad ci impigrisce ulteriormente, è molto più comoda e immunizzata. Permette risparmi evidenti all’amministrazione. È ben vista dalla sempre più potente lobby dell’onlife, che non vede l’ora di trasformare tutte le attività scolastiche in versione e-learning. La gran parte degli studenti è dentro l’immunità del gregge da tempo e piacevolmente collude, senza proteste o reazioni rispetto a quel che le viene sottratto, pezzo dopo pezzo. Insomma, si va verso la fine definitiva dell’Università per come l’abbiamo conosciuta. Nessun rimpianto, nessun rimorso (almeno per me). Ma il silenzio totale e questa sua resa senza condizioni restano davvero inquietanti (almeno per me).


Requiem per gli studenti - Giorgio Agamben


Come avevamo previsto, le lezioni universitarie si terranno dall’anno prossimo on line. Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.
Non c’interessa qui la conseguente trasformazione della didattica, in cui l’elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante nel rapporto fra studenti e docenti, scompare definitivamente, come scompaiono le discussioni collettive nei seminari, che erano la parte più viva dell’insegnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente imprigionato in uno schermo spettrale.
Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è qualcosa di cui significativamente non si parla affatto, e, cioè, la fine dello studentato come forma di vita. Le università sono nate in Europa dalle associazioni di studenti – universitates – e a queste devono il loro nome.
Quella dello studente era, cioè, innanzitutto una forma di vita, in cui determinante era certamente lo studio e l’ascolto delle lezioni, ma non meno importante erano l’incontro e l’assiduo scambio con gli altri scholarii, che provenivano spesso dai luoghi più remoti e si riunivano secondo il luogo di origine in nationes. Questa forma di vita si è evoluta in vario modo nel corso dei secoli, ma costante, dai clerici vagantes del medio evo ai movimenti studenteschi del novecento, era la dimensione sociale del fenomeno. Chiunque ha insegnato in un’aula universitaria sa bene come per così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si costituivano, secondo gli interessi culturali e politici, piccoli gruppi di studio e di ricerca, che continuavano a incontrarsi anche dopo la fine della lezione.
Tutto questo, che era durato per quasi dieci secoli, ora finisce per sempre. Gli studenti non vivranno più nella città dove ha sede l’università, ma ciascuno ascolterà le lezioni chiuso nella sua stanza, separato a volte da centinaia di chilometri da quelli che erano un tempo i suoi compagni. Le piccole città, sedi di università un tempo prestigiose, vedranno scomparire dalle loro strade quelle comunità di studenti che ne costituivano spesso la parte più viva.
Di ogni fenomeno sociale che muore si può affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle e che la forma di vita degli studenti si era conseguentemente altrettanto immiserita. Due punti devono però restare fermi:
1.      i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono.
2.      Gli studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di iscriversi alle università così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuove universitates, all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.


Se non ora, quando? Quattro punti per l’università - Federico Bertoni


In questi giorni riaprono perfino le palestre, con energumeni sudati che sprigionano umori in ambienti chiusi. Ma scuole e università no, ci mancherebbe: classi pollaio, insegnanti anziani, piani di ripresa mai stilati, rischi e timori del tutto indeterminati. E in fondo che fretta c’è? Che diavolo volete? Tanto non producete reddito, lo stipendio vi arriva lo stesso e una lezione si può fare anche attraverso il computer, mentre uno spritz o una corsa sul tapis-roulant (ancora) no. Così il senso comune traveste da ragioni tecnico-economiche un dato primariamente politico, in cui l’ossessione securitaria di oggi si fonde con il mirato, sistematico svilimento delle istituzioni formative che sta massacrando scuola e università da almeno due decenni. E allora teniamole proprio chiuse, queste pericolose istituzioni, perché tanto si può fare lezione da casa: magari anche in autunno, e poi tutto l’anno prossimo, come ha già annunciato la gloriosa università di Cambridge, e poi chissà. Così potremo realizzare il sogno della preside Trinciabue, in un corrosivo romanzo di Roald Dahl: «una scuola perfetta, una scuola finalmente senza bambini!».
Di cosa significhi insegnare nell’era del Covid-19 si sta discutendo da mesi, strappando faticosamente piccole porzioni di un dibattito pubblico monopolizzato da virologi superstar e dilettanti allo sbaraglio. Da parte mia, ho cercato di farlo in un e-book gratuito pubblicato da Nottetempo, Insegnare (e vivere) ai tempi del virus, mentre si moltiplicano gli interventi su blog, social e anche giornali mainstream. Torno dunque sulla questione per fissare solo quattro punti sintetici, conclusi da altrettanti impegni ad agire subito (in corsivo). E se non ora, quando?
1.      In questi mesi molti di noi hanno praticato la didattica a distanza con stati d’animo ambivalenti o apertamente conflittuali. Difficile capirlo senza esperienza diretta. Provare per credere. Da un lato l’incertezza, la novità, l’esperimento, anche l’euforia di reagire attivamente allo stato di minorità del confinamento con la parte migliore del nostro lavoro: insegnare, mettere in comune, cucire un filo con gli studenti, garantire comunque uno dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. Dall’altro i dubbi, le perplessità, la sensazione che tutte quelle energie spese con autentico spirito di servizio andassero in gran parte disperse, o che addirittura venissero sfruttate per altri fini. Nel frattempo, alcuni di noi hanno capito che uno straordinario sforzo tecnico e umano stava diventando un clamoroso errore politico (e comunicativo): diceva cioè al governo e al popolo: tranquilli, qui va tutto bene, le università e le scuole possono restare chiuse perché tanto c’è la didattica a distanza. E invece no, lo ribadisco: le cose non vanno affatto bene. Non vanno bene all’università e non vanno bene a scuola, dove la situazione è molto più drammatica, perché la didattica a distanza è una procedura emergenziale e solo un pallido surrogato di quello che deve avvenire in aula, tra muri e corpi, soggetti in carne ed ossa che si fronteggiano in luoghi fisici e politici, non solo per trasferire competenze ma per mettere a confronto idee, modelli di sapere e visioni del mondo. Dunque un primo impegno su cui non cedere nemmeno un millimetro: appena ci saranno le condizioni igienico-sanitarie dovremo tornare in aula, senza variabili o compromessi.
2.      La tecnologia è un falso problema, un palazzo di Atlante che genera ombre e riflessi, giochi di ruolo in cui ognuno assume una parte per attaccare un nemico fantasma. Così io faccio l’apocalittico, tu fai l’integrato e ci scambiamo sonore mazzate sulla testa, mentre le multinazionali del software e i provider di servizi informatici si fregano le mani. È un falso problema soprattutto all’università, dove non avevamo certo bisogno del Covid-19 per imparare a usare le tecnologie digitali, che sono un normale e istituzionale strumento di lavoro da molti anni, con una gamma di applicativi che ormai copre quasi tutte le attività amministrative, didattiche e di ricerca. E dunque basta con la retorica della “grande occasione”, con il riflesso condizionato di un ingenuo “make it new!”. Basta con l’equazione automatica tra strumenti digitali e innovazione, come se fosse sufficiente mettere un tablet nelle mani di docenti e studenti per realizzare ipso facto una “didattica innovativa”, formula ormai immancabile sulla bocca di dirigenti e rettori. Un bravo (o un cattivo) insegnante resta tale sia in classe che davanti a un computer: è una banalità che non vorremmo più dover ribadire. Anzi, come accade sempre più spesso, la tecnica è uno schermo opaco, alibi perfetto per deresponsabilizzare scelte e interessi: nasconde cioè dietro vincoli esterni e una presunta neutralità operativa decisioni del tutto opinabili e contingenti. Se continuiamo ad accapigliarci sul mezzo perdiamo completamente di vista lo scopo e soprattutto la posta in gioco di questa partita, che non è tecnica ma innanzitutto psicologica, sociale e politica. Se c’è una questione da porre sulla tecnologia, è piuttosto l’uso di software e piattaforme proprietarie da parte delle istituzioni pubbliche. È ormai francamente intollerabile che la scuola, l’università e tutta la pubblica amministrazione foraggino multinazionali come Microsoft o Google e cedano quote incalcolabili di dati sensibili. E dunque un’altra cosa da fare subito: un investimento nazionale per dotarsi di piattaforme informatiche basate su software libero, pubblico, che escluda forme di profitto e garantisca la custodia attenta dei dati personali.
3.      Blended è la nuova parola magica della neolingua accademica, da aggiungere a quella batteria di keywords che di fatto governano le politiche, i discorsi, la distribuzione dei fondi e soprattutto il funzionamento dei cervelli dentro l’università: premialecompetitivoefficienzaefficaciacriticitàbuone praticheaccreditamentoautovalutazionedidattica innovativa e naturalmente eccellenza, il più vacuo feticcio ideologico dei nostri tempi, strumento di un marketing passe-partout che va dal made in Italy ai dipartimenti universitari, dagli atleti olimpici al prosciutto di Parma. Blended non designa un tipo di whisky ma un regime misto tra didattica in presenza e didattica a distanza che promette di essere il business del futuro. Sarà una soluzione quasi inevitabile nella prossima fase, quando il paventato calo delle immatricolazioni spingerà gli uffici marketing degli atenei a cercare soluzioni flessibili per accalappiare gli studenti dei paeselli, bloccati dalla crisi economica o da nuove misure di contenimento per un’eventuale ripresa del virus. Così, invece di risolvere i problemi strutturali (ampliare le aule, costruire studentati, ridurre le tasse, aumentare le borse di studio, calmierare gli affitti che taglieggiano i fuori sede), adotteremo una soluzione di compromesso che negli anni successivi potrà andare a regime, trasformandosi nel business perfetto: meno aule, meno docenti, lezioni riproducibili e moltiplicabili a piacere, studenti che pagano le tasse ma che non gravano fisicamente su strutture e costi di gestione. Per capire che non è uno scenario distopico ma una previsione realistica basta guardare la nostra macchina del tempo, gli Stati Uniti, dove tutto questo si sta già realizzando. E così le belle parole della Costituzione (articoli 3 e 34) saranno definitivamente carta straccia: non solo avremo università di serie A e di serie B, come auspicato dall’Anvur e dalla ragione sociale dell’università dell’eccellenza, ma anche studenti di serie A e di serie B, perché la modalità blended realizzerà un’automatica selezione di classe: da un lato lezioni in presenza riservate a studenti privilegiati (cioè non lavoratori, di buona famiglia, capaci di sostenere un affitto fuori sede), e dall’altro corsi online destinati a studenti confinati dietro uno schermo e nei più remoti angoli d’Italia, che resteranno al paesello con mammà e non rischieranno di immaginare un orizzonte diverso per le loro vite. Un cortocircuito perfetto tra il capitalismo avanzato e la morale di padron ‘Ntoni. Ecco dunque un appello rivolto a tutti i miei colleghi: rifiutiamoci di fare didattica blended. Piuttosto, meglio continuare solo online finché le autorità sanitarie ci permetteranno di tornare tutti in aula. Nel caso potremo appellarci all’articolo 33 sulla libertà di insegnamento, oppure fare come Bartleby: “I would prefer not to”.
4.      Serve dirlo? La didattica a distanza non ha nulla a che fare con il fascismo. È una procedura emergenziale che la stragrande maggioranza dei docenti italiani ha praticato obtorto collo, solo per il bene dell’istituzione e degli studenti. Non stupisce che molti si siano sentiti mortalmente offesi dalla sparata di Giorgio Agamben: «i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista». Il parallelismo storico, anzi la copula identitaria («sono il perfetto equivalente») è talmente fuori luogo che non servirebbe nemmeno replicare. Se lo faccio, è solo perché la provocazione volutamente incendiaria rischia di appiccare il fuoco dalla parte sbagliata. Bisogna infatti correggere il tiro e scagliare la freccia sul bersaglio giusto: il nemico non è un’improbabile dittatura che toglie la cattedra a chi si ribella (rischio effettivo solo per i precari, a prescindere dalla didattica a distanza), ma un ben diverso modello di potere che Agamben può capire meglio di chiunque altro. Paradossalmente, se un dittatore manesco o anche telematico ci chiedesse di giurare fedeltà al regime sarebbe tutto più semplice. Ma nulla del genere nell’università dell’eccellenza, dove il potere funziona in forma microscopica, capillare, con una serie di deleghe a catena e soprattutto un’interiorizzazione di obiettivi e protocolli da parte di tutti. È vero peraltro che i dispositivi giuridici hanno legittimato de iure queste pratiche diffuse: la Legge 240, che l’ex-Ministra Gelmini ha avuto il coraggio di chiamare “antibaronale”, non ha fatto che accentrare il potere al vertice, ridurre gli spazi deliberativi, avocare a pochi organismi monocratici e oligarchici (rettori, direttori di dipartimento, consigli d’amministrazione, commissioni di soli professori ordinari) tutto il governo formale e sostanziale dell’università. Con questo, un’istituzione che non ha mai brillato per democrazia ha finito per sposare i sistemi tecnocratici del “new public management” e i valori dell’economia neoliberale (eccellenzameritovalutazioneefficienzacompetizionerating e rankingquality assurance), prima imposti dall’alto e poi interiorizzati come un seconda natura. È questo il nemico da combattere, innanzitutto dentro di noi. È il condizionamento insensibile, lo slittamento dei confini, la collaborazione in buona fede sfruttata come instrumentum regni. Ed è su questo modello che si innesta a meraviglia non tanto la teledidattica in sé, ma l’uso che se ne potrà fare dopo la fine dell’emergenza. Perché nell’università dell’eccellenza gli studenti non sono cittadini che reclamano il diritto al sapere ma clienti da soddisfare, consumatori di beni e servizi, acquirenti di una cultura in scatola che si preleva come un pacchetto dagli scaffali. Nulla di meglio di una televendita del sapere e di quell’ennesima evoluzione antropologica del capitalismo che chiamiamo smart working. Per questo dobbiamo opporci a forzature tecnologiche prive di qualunque ragione didattica o culturale, costringendo i vertici accademici a condividere ogni decisione con tutta la comunità accademica.
Su un punto Agamben ha pienamente ragione: dobbiamo prendere partito, stanare tutti dalla zona grigia. Negli ultimi decenni, la supina acquiescenza del corpo docente ha di fatto lasciato campo libero al fanatismo ideologico dei “riformatori”, legittimando più o meno in silenzio qualunque vessazione o degradazione sistemica del nostro lavoro. Quindi su questo c’è davvero poco da offendersi. Ma non è mai troppo tardi per reagire. E ora non dobbiamo scegliere tra il digitale e il giurassico, tra la servitù volontaria e il ribellismo anarchico, ma tra due diversi modelli di università (e di società). In fondo la più grande sconfitta del fascismo è scritta nella lettera e nello spirito della Costituzione, che basterebbe tradurre finalmente nella prassi. E dunque, più che rifiutare giuramenti immaginari, dobbiamo chiederci se siamo disposti a difendere fino in fondo un’idea di università (e di scuola) pubblica, aperta, generalista, bene comune ed essenziale, non solo luogo di trasmissione della conoscenza ma strumento imprescindibile di uguaglianza sociale. Non è troppo tardi. E ne vale ancora la pena.


Per uscire dalla crisi serve un’università gratuita - Domenico Cersosimo, Felice Cimatti

L’Italia è un paese con un numero di laureati strutturalmente basso. Solo 28 giovani su cento tra i 25 e i 34 anni hanno una laurea, appena 21 nel Mezzogiorno, a fronte dei quaranta della media europea e dei 47 della Francia. Un problema vecchio e penalizzante, per i singoli e per la collettività. Per i singoli perché la laurea offre, in media, occasioni di lavoro più qualificate e gratificanti e, nell’arco della vita lavorativa, con retribuzioni ben più elevate. Per la società perché la laurea allunga, in media, la speranza di vita, crea persone più consapevoli e responsabili, accresce la propensione all’azione collettiva e alla partecipazione democratica, e fa crescere una cittadinanza più attiva.
Pochi laureati vuol dire anche un sistema produttivo arretrato, stagnante e poco resiliente, e una comunità meno evoluta in termini culturali e civili. Per queste ragioni molti paesi investono quote rilevanti di spesa pubblica e privata nell’alta formazione. L’Italia, al contrario, ha scelto la via del definanziamento pubblico, della drastica contrazione di corsi di studio, immatricolati, corpo docente. Da noi l’università non è in agenda. Non a caso, in questi giorni di pandemia si parla di tutto ma mai di università e di studenti universitari, diventati i visibilissimi invisibili della crisi sanitaria insieme ai vecchi, ai bambini e ai carcerati.
Questo disconoscimento rischia di provocare nei prossimi mesi ulteriori conseguenze per l’intero sistema universitario nazionale e, in particolare, per le potenziali matricole dell’Italia del sud.

Numeri da conoscere
Consideriamo qualche cifra. Secondo i dati del ministero dell’istruzione, nell’anno accademico 2017-18 la contribuzione media pro capite degli studenti iscritti nelle università pubbliche è stata di poco più di 1.300 euro, al netto degli esentati per motivi di reddito familiare (poco più di 400mila ragazze e ragazzi su un totale di 1,7 milioni di iscritti). Nel Mezzogiorno il costo medio dell’iscrizione è di 1.100 euro, a cui vanno aggiunte le spese indirette per la frequenza dei corsi e per il sostentamento.
Supponendo che i costi di uno studente, in camera doppia, iscritto in un’università dell’Italia del sud siano la metà di quelli stimati dall’università di Bologna per i propri studenti fuori sede, una famiglia meridionale dovrebbe prevedere circa 380 euro al mese per alloggio, spese alimentari, mensa e trasporti, pari grosso modo a 4mila euro all’anno, che salirebbero a 5.100 per le famiglie non esentate dalle tasse di iscrizione. Per gli stessi anni, l’Istat calcola che nel Mezzogiorno il reddito medio delle famiglie è pari a poco più di 25mila euro all’anno (35mila nell’Italia del nord), per cui per molte di esse mantenere un figlio all’università significherebbe destinare una parte consistente del loro magro reddito annuale, tanto più se i figli universitari fossero due o studiassero in atenei del centro-nord.
Ancora un dato. Nell’anno accademico 2018-19 si sono immatricolati nelle università italiane poco più di 290mila studenti, vale a dire 40mila in meno rispetto ai picchi dei primi anni del duemila, anche se le tendenze recenti mostrano un recupero di iscritti nel centro-nord e una sostanziale stasi degli immatricolati nel sud, collegata tanto alla diminuzione del numero di ragazze e ragazzi tra i 18 e i vent’anni quanto alla caduta verticale delle immatricolazioni dei diplomati con la maturità professionale e tecnica, che come è noto viene conseguita per lo più da ragazzi con genitori più svantaggiati sia economicamente sia dal punto di vista scolastico.

Le conseguenze per il sud
Che cosa succederà nel prossimo anno accademico è facile da immaginare: la grave recessione economica provocata dal covid-19 implicherà un deciso impoverimento delle famiglie, soprattutto nel sud per via della maggiore fragilità e vulnerabilità della sua base economica e occupazionale. Nondimeno, le evidenze empiriche di lungo periodo mostrano un robusto nesso causale negativo tra crisi economiche e decisione da parte delle famiglie di investire in istruzione superiore dei propri figli, per cui è molto probabile un calo delle immatricolazioni già a partire dal prossimo anno accademico.
Questa depressione della domanda collettiva di immatricolazioni presumibilmente sarà più marcata nel Mezzogiorno sia per i maggiori vincoli finanziari delle famiglie sia per i più stringenti problemi di costo-opportunità, ossia del più basso rendimento occupazionale e salariale degli studi universitari nel sud (in media i laureati in questi atenei trovano lavoro molto più tardi e a salari più bassi dei loro colleghi del nord). Per non parlare del problema posto dalla didattica a distanza, che rischia di rendere ancora più accentuata la crisi degli atenei del sud: perché immatricolarsi “vicino” casa se posso seguire le lezioni di qualsiasi altro ateneo?
Che fare, allora? Ancora qualche cifra, e poi la proposta. La spesa pubblica per l’università nel nostro paese è appena lo 0,3 per cento del pil (all’incirca 5,5 miliardi di euro in valore assoluto), l’incidenza più bassa in Europa (dove si registra una media dello 0,7 per cento), e per di più in sostenuto calo (di oltre un miliardo di euro negli ultimi dieci anni); di contro, la quota della spesa sostenuta direttamente dalle famiglie è più alta di più di cinque punti percentuali rispetto alla media in Europa (27 per cento in Italia, 12 per cento in Francia e zero per cento in Germania).
Occorre allora essere radicali. Occorre rendere gratuito l’accesso al sistema universitario pubblico. Per tutti gli studenti che si immatricolano nel prossimo anno accademico, o almeno per i diplomati che scelgono di continuare gli studi nelle università meridionali. Le regioni del sud hanno circa dieci miliardi di euro di fondi comunitari ancora da impegnare o spendere relativi al ciclo di programmazione 2014-20. Un’occasione straordinaria per riprogrammarne una parte relativamente piccola (meno di cinquanta milioni di euro, pari all’incirca allo 0,5 per cento) e destinarla al sostegno del reddito delle famiglie e del diritto allo studio dei giovani meridionali sotto forma di un esonero totale per tutti dalle tasse di immatricolazione.
Dalla crisi si esce con lo sviluppo economico, cioè con l’intraprendenza, con l’intelligenza e la cultura. Con l’università, e quindi con gli studenti. Che devono essere tanti, molti di più di quanti non siano stati finora, soprattutto nel Mezzogiorno.
da qui



da un’intervista a Nicola Donti:

Dobbiamo assolutamente ritrovare il valore della pedagogia.
L’educazione non è neanche più insegnamento, nel senso che non solo non intende più risvegliare coscienze (ex-ducere) ma neanche lasciare un segno (in-signo), è oramai ridotta a mero nozionismo, una sorta di indottrinamento su come diventare sempre più produttivi e ben inseriti nel grande meccanismo del mercato.
Ecco perché è stato tanto facile trasferirla on-line, perché per questo tipo di scuola non è più necessaria la relazione con un maestro ma basta una buona linea di connessione per trasferire i dati da un recipiente pieno (il docente) a uno vuoto (il discente).
Oramai non c’è quasi più spazio per la formazione è rimasta solo l’informazione.
Se privilegiamo la seconda, non è più necessaria la relazione tra insegnante e allievo, tanto meno che essa sia profonda, viva e coinvolgente, può facilmente diventare completamente virtuale.
Il neoliberismo ha ben chiaro che gli anticorpi si costituiscono a scuola; una mente libera è difficile da rendere schiava, per questo è stata trasformata in un laboratorio di indottrinamento svuotato di ogni elemento erotico.
Occorre rifondare il nostro sistema educativo insegnando a pensare, a sentire ad amare. L’educazione ai sentimenti e al corretto pensare come presupposto al corretto agire. Solo mostrando l’importanza dello sviluppo armonico dell’individuo nella comunità sarà possibile difendersi dal più pericoloso dei virus, quello dell’egoismo e del narcisismo alimentato da una società aggressiva e competitiva. Solo così potremmo, forse, evitare l’autodistruzione.


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