mercoledì 3 giugno 2020

Tutti i turisti si preparano a visitare tutti i luoghi senza turisti

La bolla dell’overtourism si è sgonfiata, ma tornerà presto a crescere

(Giuliano Battiston intervista Marco d’Eramo)

Un “guscio vuoto”, un “fondale di teatro” sul quale viene messo in atto lo spettacolo del turismo. È così che ne Il selfie del mondo descrive Roma, città devota al turismo che nelle ultime settimane, come molte altre, si è trasformata a causa della pandemia. Che impressione le fa vedere le quinte vuote?
L’immagine di Roma che abbiamo visto nelle scorse settimane rimane dentro l’immaginario turistico, e rimanda alla parte del mio libro sulla coscienza infelice del turista, il quale vuole sempre stare dove non ci sono altri turisti, dove non c’è lui. La sua massima ispirazione è stare dove non ci sono altri suoi simili, ma è impossibile. La Roma che si presenta ai nostri occhi è dunque doppiamente turistica, una sorta di spiaggia dei Caraibi dalla sabbia fine e immacolata, finalmente deserta, ma talmente deserta da non poter accogliere neanche gli abitanti. Riflette la stessa contraddizione del turismo in generale.

Lei sostiene che quella turistica è “un’economica intrinsecamente espansiva”, che crea distruggendo le condizioni della propria crescita. Ora, immaginare la fine del turismo è ingenuo, ma è anche vero – seguendo Marx – che un salto quantitativo ne produce anche uno qualitativo: non possiamo immaginare cambiamenti profondi nel turismo, una sorta di “transizione di fase” che non sia soltanto provvisoria, legata alla pandemia?
Il turismo è un settore talmente importante che non potrà rimanere fermo a lungo. Senza turismo non c’è industria aeronautica, automobilistica, edilizia. È un’industria davvero intrinsecamente espansiva, ed innesca le altre. Sono convinto che il turismo non crollerà. Intanto perché è l’altra faccia della globalizzazione, e buttare giù la globalizzazione non è affatto semplice. In secondo luogo perché la libertà di movimento fa parte della costituzione materiale della modernità. Chi ci rinuncerebbe? L’altro aspetto importante è che si sottovaluta la capacità di dimenticare. Siamo tutti troppo immersi nel presente. Dopo la prima guerra mondiale, dopo 20 milioni di morti, si diceva: “mai più guerra, è l’ultima”, e ne erano tutti convinti. Così come dopo la crisi del 2008 fior di sociologi annunciavano la fine del capitalismo.

La libertà di movimento fa parte della costituzione materiale della modernità. Chi ci rinuncerebbe?
D’altronde quando ci rompiamo una gamba vediamo tutti zoppicare, ma una volta tolto il gesso non ce ne accorgiamo più. Come non ci accorgiamo che sono gli stessi imperativi dell’economia a uccidere le persone: “non c’è guerra senza commercio e non c’è commercio senza guerra”, si diceva al tempo della compagnia olandese delle Indie orientali. Serve un po’ di cinismo: in queste settimane siamo stati sommersi dai buoni sentimenti – gli eroi, i sacrifici, etc – ma sono cinquemila anni che la gente uccide per denaro, per potere, senza alcun rispetto per la vita umana. È utile non dimenticarsene. Mentre il più grande esperimento di ingegneria sociale della storia umana – quello in cui siamo immersi – verrà presto dimenticato. Scommetterei che a luglio i ristoranti torneranno pieni. In caso contrario falliranno Paesi come la Francia, potenza nucleare, o città come Londra, tra le prime destinazioni turistiche al mondo insieme a Parigi. La verità è che vogliamo vivere un’epoca immaginaria, con i vantaggi del mondo industriale ma senza gli svantaggi. Vogliamo essere turisti senza turisti.

Eppure qualcuno prevede che la pandemia condizionerà anche i processi di globalizzazione economica, rafforzando per esempio quei processi di “balcanizzazione e frammentazione” già in corso. Se turismo e globalizzazione sono legati, e se la pandemia produce forme di deglobalizzazione, non possiamo immaginare cambiamenti anche nell’economia politica del turismo?
Il turismo è il frutto di due rivoluzioni, una tecnologica, delle telecomunicazioni e dei trasporti, che è poi la rivoluzione del capitalismo (uccidere lo spazio per mezzo del tempo), la quale ha reso possibile il viaggio, e la rivoluzione sociale che ha reso possibili i viaggiatori: l’introduzione del tempo libero retribuito, piuttosto recente. Prima della metà dell’Ottocento non c’era mai stato qualcosa del genere, c’erano i nobili che disponevano di tempo libero perché vivevano di rendita. Nel 99% dei casi oggi i turisti sono pensionati o lavoratori salariati in ferie, le due principali forme di tempo libero retribuito. Al contrario di Slavoj Žižek, non credo che un virus possa provocare una rivoluzione. Credo che a mandare in tilt il turismo – che tornerà prerogativa dei benestanti – sarà semmai lo smantellamento del tempo libero retribuito.

Se non sul piano dell’economia politica, le cose potrebbero cambiare su quello dell’immaginario, delle percezioni: nel libro spiega che “l’inebriante sensazione di poter avere il mondo a disposizione si fa pensabile, concepibile, con la prima globalizzazione precoce”, con la rivoluzione delle comunicazioni nell’Ottocento. Con la pandemia scopriamo però che il mondo non è a nostra portata, non è del tutto addomesticabile. Questo non potrebbe modificare il nostro rapporto con il mondo, il senso del turismo e del viaggiare?
L’umanità ha convissuto con la sifilide per 400 anni, senza antibiotici, senza preservativi, e ha continuato a scopare. Ha convissuto e convive con l’Aids, un morbo peggiore del Covid. L’essere umano è una bestia incredibilmente adattativa. Siamo diventati ipersensibili alla morte, anche alla singola morte. Un’ipersensibilità tipica di un’umanità che per generazioni non ha conosciuto la guerra. Ma la morte è costitutiva, fa parte dell’esperienza umana. Può capitare che gli esseri umani per una volta non siano predatori, ma cibo per il virus. Intendo dire che le pulsioni fondamentali rimarranno le stesse, anche se potrebbero cambiare le supply chains, le linee globali di rifornimento, perché la situazione dimostra che alcune cose si possono razionalizzare meglio. D’altronde il problema di Napoleone nella battaglia di Beresina era di avere linee di rifornimento troppo lunghe: dovevano portarsi i cappotti dalla Francia per non morire di freddo. L’immaginario è più profondo, non nasce in qualche mese, ha bisogno di stratificazione.

A proposito di stratificazione. Lei sostiene che il turismo sia “una strategia globale del moderno” per fronteggiare l’irruzione dell’altro da sé, successiva alla rivoluzione delle comunicazioni e dei trasporti. E che il turista, come l’antropologo, è animato dalla curiosità verso l’altro. Oggi però la paura del contagio trasforma la curiosità in sospetto, diffidenza, paura. Se cambia il rapporto io-altro, non ci saranno conseguenze?
Quest’idea dell’altro è propria dei fascisti: l’ebreo e lo zingaro sono l’altro pericoloso, portatore di malattie. Tra i filmati della propaganda nazista ce n’è uno che descrive i focolai degli ebrei, come torme di topi che invadono ogni luogo, portando la peste. L’idea che l’altro da sé sia portatore di peste e di morte, che sia un untore, è tipica dell’immaginario fascista. Dall’altra parte c’è la cultura neopuritana della Nuova Inghilterra. Il rischio è un mondo di puritani asettici del 600 bostoniano: detta in soldoni le streghe, satana che ti tocca, la sporcizia che ti minaccia, l’idea della pulizia e di un mondo asettico, inodore.

Ripeto: siamo di fronte a un esperimento sociale. Non si era mai vista una simile mobilitazione universale, con il blocco dell’economia mondiale, per così pochi morti, statisticamente
Tornano in mente le pagine che Ivan Illich ha dedicato alla de-odorizzazione dell’Occidente, la tendenza a distaccarsi sempre di più dai cinque sensi. La pandemia potrebbe provocare tendenze neopuritane, d’altronde ci provano in continuazione: l’Aids, arrivato subito dopo la liberazione sessuale, consentiva di dire che si trattava di una punizione divina per quella libertà acquisita. Ma poi la gente se ne è fregata, pur senza un vaccino, e oggi i ragazzi fanno sesso senza preservativo. Perché ci si dimentica presto. Ripeto: siamo di fronte a un esperimento sociale. Non si era mai vista una simile mobilitazione universale, con il blocco dell’economia mondiale, per così pochi morti, statisticamente.

In un suo recente articolo per la New Left Review scrive che 40 anni fa una simile mobilitazione non sarebbe stata possibile…
Perché allora il mondo non era ancora così globalizzato come ora, non era ancora neoliberale e non era ancora avvenuta l’unificazione culturale del mondo sotto la bandiera americana. Non c’era ancora un’unica ecosfera culturale. Oggi siamo tutti americani, anche quando siamo italiani. Un vero thriller sta sempre a Brooklyn, mai a Segrate. L’immaginario sta lì, negli Stati Uniti.

Nel Selfie del mondo spiega che il principio informatore dell’urbanità, caratteristico del turismo e dell’industria, è quello dello zoning, fondato sull’uso esclusivo, non “promiscuo”, monofunzionale dello spazio (che è anche una prima “forma di biopolitica”). Rischiamo che, nel post-pandemia, “l’urbanista demiurgo”, che vuole mettere ogni tempo e ogni vita al posto suo, ci conduca verso città più controllate, asettiche e sterilizzate?
Siamo 7 miliardi e mezzo di persone. Il distanziamento sociale non si può fare. L’Italia è tra i Paesi con la più alta densità abitativa al mondo. Togliendo le montagne, circa 500 persone al chilometro quadrato. Insisto nel dire che siamo troppi immersi nel presente, assolutizziamo l’istante, dilatandolo. Siamo anche di fronte alla totale disfatta degli epidemiologi, che hanno sostenuto tutto e il contrario di tutto, dimostrando di non aver alcuna idea della psicologia sociale. Dall’essere umano non si può eliminare la corporeità. È un ideale malsano, urbanofobico. Anche il virus odia la città, tutto ciò che è urbano, la stessa urbanità.
Ma molto di ciò che è positivo nella storia umana è emerso dall’urbanità. Non si è mai vista una rivoluzione fuori dalle città. La stessa politica, come dice giustamente Manconi, è assembramento, contatti tra i corpi. I capitalisti dividono, isolano, si sforzano di tenere separati gli altri, perché hanno il terrore della massa, della moltitudine. La letteratura contro lo stare insieme è sterminata, ma voglio proprio vedere chi riesce a dimostrare che lo stare separati abbia effetti salutari sul pianeta e sull’umanità.

Nella pandemia non c’è spazio per la defezione, perché è totale
Certo, il pianeta starebbe bene anche senza esseri umani, ma su questo Spinoza dice due cose utili. La prima è che non c’è l’uomo da una parte e la natura dall’altra: ciò che fa l’uomo, inclusa la distruzione del pianeta, è un prodotto della natura. La seconda è che l’uomo non è un animale razionale, e le passioni vizi. Al contrario, i vizi sono nella natura umana quanto la ragione. Sono sicuro che il mondo starebbe meglio senza l’umanità, ma dovremmo trovare un modo per gestire questo rapporto mantenendo la nostra umanità, non disumanizzandoci.

In queste settimane qualcuno si è sentito “disumanizzato”, quanto meno “infantilizzato”, per così dire. Mi viene in mente quel che lei scrive a proposito delle “vie d’uscita” dalla civiltà dello zoning, una civiltà che “traduce in geografia urbana la struttura disciplinare della società”: alla lunga le persone si ribellano “non tanto per protesta quanto per defezione”. La pandemia irrobustisce la civiltà dello zoning o favorisce la defezione?
Nella pandemia non c’è spazio per la defezione, perché è totale. Non c’è un altrove dove scappare. Il problema vero è che nessuno ha protestato davvero. Non c’è stata né defezione né protesta. Si comincerà a protestare tra poco, quando la gente uscirà di casa e non avrà più lavoro, quando ci saranno milioni disoccupati in più. Allora sì che la gente si incazzerà. La distanza sociale è vera, concreta, è distanza tra le classi.
Noi siamo quelli che possono starsene tranquilli a casa, con il frigorifero pieno, ma la linea del traffico di molte città – riportata dal Guardian – dimostra che in tanti casi il traffico non è mai sceso sotto la soglia del 50% rispetto alla media: metà della popolazione, quella più sfigata, non aveva altra scelta che continuare a lavorare, fuori. La pandemia evidenza una spaccatura sociale enorme.
Le uniche proteste sono quelle degli americani che dicono di voler morire, manipolate da Trump, oppure quella sintetizzata dall’ex ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, in un’intervista a Tagesspiegel: la costituzione tedesca garantisce il diritto alla dignità umana, sostiene Schäuble, ma questo non equivale alla vita. Si tratta di un modo nobile, schilleriano, di articolare la questione dell’optimum amount di fatalities di cui parlava Ronald Coase.

Ci spiega meglio questa questione dell’optimum amount di Ronald Coase?
L’articolo fondamentale per la teoria neoliberale della giustizia – “The Problem of Social Cost” – è stato scritto nel 1960 da Ronald Coase, a cui sarebbe stato poi assegnato il premio Nobel in Scienze economiche. La sua tesi è che quando una fabbrica inquina, uccide i pesci e manda in rovina il pescatore il problema non è eliminare l’inquinamento, ma trovare l’optimum amount di inquinamento, che consenta il massimo della produzione minimizzando i danni per tutti. È un criterio che applichiamo in continuazione, pur senza accorgercene, come nel caso delle automobili che provocano ogni anno circa 3,000 morti in Italia. Lo stesso vale per il coronavirus: il problema è trovare l’optimum amount di fatalities. Sono sicuro che verrà trovato anche nel caso del turismo post-pandemia.

Nel suo libro è molto scettico sul turismo sostenibile, “un vero ossimoro”. E sembra scettico anche sull’idea che il problema dell’overtourism si possa risolvere con il turismo di prossimità, di vicinato, a impatto zero, con quello che qualcuno definisce “turismo povero”…
Con il turismo povero la gente si spara. Il turismo rappresenta una porzione importantissima del Pil di molti Paesi, in Francia per esempio è il 10-12% del Pil, più di quanto rappresenta l’industria automobilistica per la Germania. Non si risolve tutto con il turismo di prossimità, con gli agriturismo e le capre che belano. Credo che assisteremo a una grande operazione dei mass media per minimizzare i nuovi decessi. Moriremo quanto oggi, ma l’asse del “consentito” verrà spostato. Per ora, comunque, chi si estasia per il canto degli uccellini in città sbava per andare in aereo, riprendere l’automobile e lasciare dietro di sé tracce chimiche. Altro che turismo sostenibile.

Dietro di noi ci lasciamo anche debiti enormi, come ricorda nell’articolo sulla New Left Review. Dobbiamo aspettarci – e preoccuparci – del momento in cui ci verranno chiesti indietro i soldi?
La quantità di denaro sborsato è pazzesca. Trilioni e trilioni di dollari. E le cifre saliranno. Terminata la pandemia ci sono due opzioni. La prima è che non vogliano i soldi indietro, ma così facendo verrebbe stabilito un precedente pericoloso: i debiti possono non essere ripagati. Una prospettiva inaccettabile, per chi comanda. Se invece volessero farci pagare i debiti, si tratterebbe di una quantità di soldi talmente alta da costringere all’austerità popolazioni intere, oggi ricche, come Germania, Inghilterra, Italia, Spagna, Francia, Olanda.
Il debito sarebbe così alto da compromettere la possibilità di spesa, la ripartenza economica. Siamo dunque in un “double bind”. Se accettano che una parte del debito venga condonato, è la fine dell’ordine neoliberale, basato sul debito come strumento di dominio.
Il debito è stato “inventato” dopo la seconda guerra mondiale. Usato contro la Germania, si è rivelato un boomerang, è stato dunque abbandonato e poi ritirato fuori per neutralizzare le indipendenze post-coloniali. Dopo la fine della guerra fredda è stato usato per mettere sotto anche tutti gli altri. Oggi è lo strumento principale di dominio sullo scacchiere mondiale. Il paradosso è questo: se dici che si può non pagare, è la fine dell’ordine neoliberale. Ma se la gente deve ripagare il debito, è un gran casino. Ci vorranno mesi e mesi per capire come andrà a finire.
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L’abbuffata a spese della Terra - Guido Viale

La regola imprescindibile (“Non c’è alternativa”, diceva Margaret Thatcher e dopo di lei lo hanno ripetuto e continuano a ripeterlo quasi tutti i governanti del mondo) dell’organizzazione sociale del pianeta in cui viviamo è la “crescita”: l’aumento, anno dopo anno, del Prodotto interno lordo, detto PIL, il vero totem della nostra epoca, senza il quale quell’organizzazione sociale non sta in piedi. La crescita è grosso modo quella cosa che Karl Marx chiamava “accumulazione del capitale”: una regola a cui nessun capitalista può sottrarsi e di cui nessuna società che affidi al mercato la sua sopravvivenza può fare a meno.
Da tempo, cioè da quando la produzione di beni materiali attraverso la trasformazione di materie prime estratte o sottratte alla Terra non risulta più sufficiente a garantire al capitale quel surplus – i profitti – che consente all’accumulazione di procedere per la sua strada, ha preso piede la produzione di “beni immateriali”. Che proprio immateriali non sono, perché per essere prodotti e venduti hanno bisogno di pesanti supporti materiali, spesso rinvenuti direttamente nel patrimonio offerto dal “mondo naturale”, o da una eredità storica, che venivano per lo più considerati, fino a quando la privatizzazione di tutto non se ne è appropriata, “beni comuni”.
Tra le forme di questo accaparramento il turismo, inteso come settore o attività economica, occupa oggi nel mondo il primo posto. Per anni e anni è stato considerato e riproposto dagli ambientalisti meno avveduti come un’alternativa “light”, leggera, all’industria tradizionale e ai suoi pesanti impatti ambientali. Solo da qualche tempo abbiamo cominciato ad accorgerci che il turismo è ormai la maggiore industria del mondo: quella che fa più fatturato, che genera più occupazione, che coinvolge più “consumatori” e, soprattutto, che ha gli impatti ambientali più devastanti.
Il motivo del ritardo con cui si è preso atto di questo dato è il carattere diffuso, frammentato e apparentemente decentrato del settore, nonostante che anche qui a reggerne le fila siano per lo più poche centrali finanziarie che ne “orientano” i grandi flussi. Ma è soprattutto il fatto che il turismo “muove” e alimenta la domanda per un grande numero di altri settori “vitali”, apparentemente indipendenti: l’edilizia (alberghi e seconde case), i voli aerei, l’automobile (a cui molti non rinunciano solo per poter “fare le vacanze”), la nautica da diporto, le crociere e connessa cantieristica, il settore delle costruzioni (strade, autostrade, porti e aeroporti – Grandi opere), la pubblicità, e altro ancora.
Ma da tempo anche l’ordinario sfruttamento dei siti turistici (mare, montagna, laghi, monumenti storici, città d’arte, luoghi di particolare valore paesaggistico o naturalistico) non basta più. La loro capacità di carico è stata superata, avviandone il deterioramento; per ravvivarli come attrattori è necessario attivare degli stimoli, che per lo più vengono individuati nell’organizzazione di un grande evento.
Le politiche di supporto allo sviluppo – cioè alla “crescita”, cioè all’accumulazione del capitale – sono sempre di più affidate alle ricadute, vere o presunte, di un grande evento: un’esposizione universale, o un summit politico o diplomatico che “muove decine di migliaia di persone, per ospitare le quali si apprestano attrezzature sceniche che costano miliardi. Esemplare, in Italia, il caso del G8 dell’allora capo della Protezione civile Bertolaso, localizzato prima alla Maddalena e poi all’Aquila, duplicando tanti grandi impianti “a perdere”. Il grande evento può essere anche un grande concerto, o un evento sportivo. Sintomatico, da questo punto di vista, il fatto che l’economia ormai stagnante del Giappone stesse cercando nelle Olimpiadi del 2020 l’occasione di quel rilancio che la sua industria manufatturiera non è più in grado di assicurargli e che la pandemia di covid19 ha per ora rimandato o forse stroncato.
E infatti, nel vasto settore dei “Grandi eventi”, quelli sportivi –formula 1, motociclismo, vela, o campionati degli sport più seguiti: calcio, tennis, nuoto, sci, atletica leggera – con il loro circo ambulante di atleti, allenatori, organizzatori, sponsor, giornalisti, tifosi, ma anche macchine, barche e attrezzature varie, con relativi addetti – occupano un posto privilegiato. E tra questi alle Olimpiadi spetta indubbiamente un primato perché coinvolgono tutti gli Stati del mondo e perché  si svolgono solo ogni quattro anni (ma quelle invernali le hanno moltiplicate per due, e le Paraolimpiadi, riservate ad atleti con disabilità, per quattro).
E tra queste molteplici Olimpiadi, quelle invernali, in programma in Italia per il 2026, ci permettono di osservare da vicino questa vera e propria “matriosca”, in cui ogni singolo evento si incastra entro un orizzonte più ampio, fino a raggiungere l’arcano degli arcani. A farci capire cioè che cosa intendono gli uomini che ci governano, dalle istituzioni dello Stato come dai consigli di amministrazione di imprese, grandi gruppi e banche, per “crescita”: la regola fondamentale del sistema economico che ci impongono.
Proviamo a ricordare la scomposta manifestazione di tronfia esultanza di alcuni esponenti di questo mondo, nella fattispecie, il sindaco di Milano Sala e i governatori della Lombardia e del Veneto, Fontana e Zaia, all’annuncio di aver “vinto” – perché sostanzialmente senza concorrenti, visto che tutti gli altri candidati, tranne uno, si erano prudentemente sfilati dalla gara – l’assegnazione a Milano e Cortina delle suddette Olimpiadi. Una vittoria celebrata da tutti i grandi media italiani, giornali e TV, nonché da un immenso cartello luminoso acceso al centro di Milano.
Per contestualizzare questa stupida vittoria va ricordato che pochi giorni prima, esattamente un anno fa, il Consiglio Comunale di Milano, con la benedizione del sindaco Sala, ma per iniziativa del movimento Fridays for Future, aveva approvato una pubblica dichiarazione di emergenza climatica e ambientale (DECA). Il che, tradotto in linguaggio comprensibile, significa che mancavano – mancano – solo pochi anni, circa 10, al momento in cui, senza drastici interventi di contenimento, sarebbero diventati irreversibili i devastanti cambiamenti climatici in corso. Cambiamenti che tutti avevamo già avuto modo di osservare nelle molte manifestazioni di fenomeni metereologici estremi che avevano colpito sia l’Italia che il resto del mondo, e che nei mesi seguenti si sarebbero susseguiti, fino a rinchiuderci tutti nelle nostre case per cercare di sventare la diffusione di una pandemia che è anch’essa un prodotto della crisi ambientale.
Bene, cioè male. Non c’è probabilmente manifestazione di insipienza, ma anche di irresponsabilità, maggiore di questa: lanciarsi in un’avventura dal pesante impatto ambientale, che si svolgerà tutta su neve prodotta artificialmente, dato che la crisi climatica non fornisce più neve naturale in quantità sufficiente a fare delle gare (e ne fornirà sempre meno), invece di dedicare tutte le energie e le risorse finanziarie, intellettuali e umane disponibili (e per ora sarebbero ancora tante!) a mettere in campo soluzioni per far fronte ai disastri che quella dichiarazione di emergenza climatica e ambientale non fa che annunciare.
Ma le Olimpiadi, come aveva candidamente dichiarato pochi giorni dopo il Presidente del CONI, sono solo un’occasione per costruire a più non posso – a beneficio di chi lo fa, ma soprattutto di un’organizzazione mondiale dei giochi olimpici completamente privatizzata e in mano a un manipolo di gangster – edifici e impianti “a perdere”: cioè da demolire o abbandonare subito dopo, o da “manutenere” a spese delle casse cittadine senza poterli utilizzare, come avevano ampiamente dimostrato le Olimpiadi invernali di Torino del 2006. Ma quell’entusiasmo beota avrebbe poi trovato una puntuale conferma, pochi mesi dopo, quando a scoppio della pandemia covid-19 ormai accertato, il sindaco di Milano, insieme a quello di Bergamo, due delle città più seriamente colpite dal virus e dai decessi di medici, infermieri e pazienti, hanno voluto farsi vedere da tutti i loro concittadini mentre li invitavano, aperitivo alla mano, a continuare sulla strada che avevano tracciato: “Milano non si ferma” aveva detto uno. “Bergamo is running”, Bergamo corre, gli aveva fatto eco l’altro. Verso dove? Verso il disastro.
Un disastro che sindaci e governatori si stanno adoperando in ogni modo per accelerare, così come il governo centrale – che in piena esplosione della pandemia è riuscito a stanziare un miliardo di euro per finanziare un “evento” così devastante. Che forse non si terrà mai, perché i danni prodotti dalla crisi climatica di qui al 2026 rischiano di avere il sopravvento, come già il covid-19 ha imposto il rinvio (a quando?) delle Olimpiadi in Giappone.
E non va certo a loro discolpa il fatto che tutto l’establishment mondiale si sia comportato finora – e probabilmente intenda continuare a comportarsi – in modo non dissimile. Non hanno altro per la testa e questo è il segno maggiore che se vogliamo sottrarci a una catastrofe che mette in forse la sopravvivenza della specie umana sulla Terra dobbiamo licenziare in massa questi nostri governanti. A sostituirli devono essere le nuove generazioni, quelle a cui la crisi climatica e ambientale sta letteralmente rubando il futuro e soprattutto i rappresentanti di questa loro consapevolezza, che ritroviamo nel movimento Fridays for Future e nel suo simbolo, incarnato da Greta Thumberg.
Quanto sia andato avanti il degrado della montagna che dovrebbe fare da teatro delle Olimpiadi del 2026 ce lo mostra una rapida osservazione di uno dei personaggi che hanno avuto l’occasione di assistere a quelle svoltesi nello stesso luogo settant’anni prima, già allora contro il sentire e l’opinione dei cittadini di Cortina d’Ampezzo: “Quando le Olimpiadi Invernali si svolsero a Cortina eravamo nel 1956. Nel 2026 le Olimpiadi Invernali a Cortina si svolgerebbero esattamente settant’anni dopo, con “costi ambientali” e “costi economici” che sono diventati insostenibili: più gare, più atleti, più discipline, più impianti grandi e impattanti, più traffico, più infrastrutture, più consumo di suolo e cementificazione, più spettatori, più caos, più inquinamento.
E’ imbarazzante l’esultanza multipartitica dei politici che in Italia fanno parte del “consociativo” Partito Trasversale del Cemento, specie se la confrontiamo con il “no alle Olimpiadi” espresso con un referendum dalla popolazione di Calgary (Canada), dalla popolazione di Innsbruck (Austria), dalla popolazione di Sion (Svizzera ) o con le esitazioni del governo svedese e della Stiria (Austria) che hanno finito per favorire l’unica candidatura rimasta, quella di  Cortina. Nel 1956 Cortina e la Valle del Boite erano zone lussureggianti, ricoperte di boschi, attraversate da acque limpide e lente. Cortina e i paesi della Val Boite erano popolati e accerchiati da tanto verde e da tanto paesaggio. Quando si svolsero i giochi olimpici c’era la ferrovia delle Dolomiti che da Calalzo conduceva a Cortina, con una mobilità lenta che univa i paesi e offriva al viaggiatore panorami mozzafiato. Oggi tutto il comprensorio, dopo settant’anni di un processo “antropico” e “urbanistico” avvenuto all’insegna della “cementificazione selvaggia” e della “rendita immobiliare”, è perennemente a rischio “ambientale” e “demografico”.
“Rischio ambientale”, di natura idrogeologica, perché le colate di fango e detriti ad ogni acquazzone si ripetono nei centri abitati della valle. “Rischio demografico” perché il modello consumistico della vacanza come “status symbol” ha privilegiato Cortina, provocando un lento abbandono dei paesi considerati minori, ritenuti dal turismo d’élite ostacoli da superare rapidamente per raggiungere la meta paradisiaca e mondana della Perla delle Dolomiti.
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Il turismo che uccide - Fabio Fiorucci
Passeggiando per il Barrio Gotico, a Barcellona, si ha l’impressione di trovarsi nel bel mezzo di una scenografica ambientazione messa in piedi ad uso e consumo dei turisti. Zaini, cappellini bianchi, nord-europei ustionati e reflex a tracolla affollano le strade fino a sommergere la vita del quartiere. Tutte le attività commerciali, in ogni angolo, sembrano dedicate all’intrattenimento e al consumo di questa massa informe. Una massa che è aumentata esponenzialmente negli ultimi dieci anni, sfiorando nel 2016 quota 30 milioni di presenze, concentrate per la maggior parte in un distretto, quello di Ciutat Vella, che conta appena 100 mila abitanti. Dalle calles catalane alle calli di Venezia la situazione non cambia, se non in peggio. La fu Serenissima è ridotta da decenni, almeno in alcuni sestieri, ad un parco tematico con a tema sé stessa. La crescita insostenibile dei turisti in laguna ha spinto la città ad un declino demografico senza precedenti, sortendo, dati alla mano, effetti ben peggiori di qualsiasi epidemia di peste.

Se la fragilità e la bellezza di Venezia l’hanno resa il caso più urgente e paradigmatico del problema turistico, un destino simile si sta abbattendo su molte altre città, come Firenze, definite Patrimonio dell’Umanità per poi essere abbandonate nell’assenza di politiche tese a governare il fenomeno. La rudimentale dinamica del mercato rende impraticabile lo spazio urbano per ogni attività non legata al turismo. Gestire un esercizio commerciale pensato per gli abitanti, e non per la moltitudine di visitatori che si riversa nelle strade, diventa anti-economico e quindi insostenibile. Vivere in centro è troppo costoso – il mercato spinge a trasformare ogni abitazione un ricovero per turisti, oltre che logisticamente complicato: il solo percorrere la Rambla ogni giorno, o attraversare il Ponte di Rialto, mette a dura prova l’attaccamento identitario dei cittadini. Gli spazi sociali pensati per la vita di tutti i giorni arretrano, scompaiono, si trasformano in locali trendy o in variopinti bazar con le magliette di Messi. La ricchezza materiale aumenta, sempre più nelle mani di pochi, mentre i cittadini si estinguono abbandonando la città e trasferendosi in periferie anonime da dove, i più ricchi, potranno almeno godere delle rendite immobiliari del centro. Di fatto, la monocoltura turistica desertifica in pochi anni il tessuto sociale delle città che la sperimentano. Nel centro restano soltanto le spoglie imbalsamate di un millennio di storia stratificate nell’urbanistica, nei monumenti, nella cultura e nella tradizione dei popoli. Un modello di tassidermia socio-culturale che, oltre ad uccidere l’organismo civico, lascia sul campo molti dubbi in merito alla sua sostenibilità nel lungo periodo. Fra cent’anni, in un’epoca nuova, sarà ancora possibile utilizzare le carcasse imbalsamate delle nostre città per attrarre i turisti del futuro, o resteranno soltanto i rottami arrugginiti di un luna park abbandonato?
L’esplosione del trasporto a basso costo e, più di recente, la diffusione epidemica di attività deregolamentate, su tutte la piattaforma Airbnb, hanno contribuito non poco ad accelerare questo processo iniziato con la globalizzazione. Dietro alla parola sharing si nasconde un universo vastissimo di concentrazione della ricchezza perpetuata attraverso elusione fiscale e deregolamentazione selvaggia. Prendendo ad esempio Firenze, l’incasso medio per gli oltre 8 mila utenti che hanno affittato nel 2016 utilizzando Airbnb è stato di circa 5.000 euro l’anno, mentre un soggetto è riuscito da solo ad incassare la bellezza di 700 mila euro. A Barcellona, il Comune stima che circa il 40% degli appartamenti affittati ad uso turistico non dispongano di regolare licenza. In questo contesto, le proprietà immobiliari e le attività commerciali gentrificate – dal paninaro a McDonald’s, dal sarto a Louis Vuitton – si concentrano sempre più nelle mani di pochi, impersonalissimi attori del capitalismo finanziario, la cui premura per gli universi altri dal profitto, come l’identità territoriale, è tristemente nota. Non sorprende, del resto, che queste desertificazioni civiche passino spesso inosservate da chi non le sperimenta direttamente. La qualità della vita, i modelli antropologici e l’identità sociale, non producendo direttamente reddito, non trovano posto nella narrazione economicistica della contemporaneità. È spesso inutile provare a spiegare che, pensando all’utilità pubblica del patrimonio storico, l’estinzione dei veneziani sarebbe una perdita più grave del crollo di San Marco. Il mantra utilitaristico della cultura come “petrolio” da estrarre, come risorsa meramente economica, è ormai ben radicato nell’ideologia dominante. In pochi sembrano ricordarsi della funzione civica, pubblica, emancipatrice ed educativa dei beni culturali per le comunità che li hanno prodotti e conservati nei secoli.
Eppure i cittadini esasperati, scesi in strada da Barcellona a Venezia, al grido di “mi non me ne vado” o “tourist go home” sembrano poter praticare un’estrema forma di resistenza. Nell’affrontare il problema, come in molti altri casi, solo la regolamentazione pubblica della follia amorale del mercato può fornire una risposta d’urgenza.La resistenza eroica dei cittadini rimasti, partigiani post-moderni dell’identità comunitaria, non basta. Serve la trasformazione di queste istanze in progetti politici concreti (come – probabilmente in ritardo – sta avvenendo a Barcellona, dove Ada Colau è stata eletta alla guida della città provenendo da un movimento anti-sfratti), e più ancora, come inderogabile punto d’arrivo, serve un argine alla concezione della società come asettico agglomerato di individui, della cultura come petrolio da estrarre per ricavarne profitto – rigorosamente per pochi, della comunità civile come retaggio sociale di un passato già estinto e, dall’altro lato, del viaggio come consumo superficiale di bellezza effimera o di divertimento edonico e grossolano.

La priorità è regolamentare il mercato e suoi effetti esterni in modo da renderlo, come da dettame costituzionale, subordinato all’utilità sociale. Se la soluzione del numero chiuso paventata per Venezia (ma inapplicabile ad altri contesti) può sembrare estrema, trasformando la città in una riserva indiana, molte altre politiche possono essere implementate da un’amministrazione consapevole del problema, con il coraggio di schierarsi dalla parte della comunità che rappresenta: regolare il transito delle grandi navi, contingentare il numero di licenze concesse per strutture ricettive e attività connesse al turismo, amministrare i prezzi nel mercato immobiliare e in alcuni servizi strategici, privilegiare la proprietà diffusa e contrastare i latifondi immobiliari – o commerciali – dei grandi oligopoli finanziari, ripartire sulla collettività – invece che su gestori privati – gli extra-profitti derivanti, incentivando e sussidiando le attività economiche a vocazione civica. Tutto questo non con lo scopo di eliminare il turismo come settore economico, ormai imprescindibile per la sussistenza economica di questi luoghi, ma per renderlo sostenibile, rispettoso, armoniosamente inserito nell’ecosistema civile.
La limitazione del libero mercato ha indubbiamente i suoi risvolti negativi per una generazione che, pur sperimentando una proletarizzazione crescente, con un volo a basso costo e uno stanzino sub-affittato su internet ha la possibilità di consumare – perché di questo si parla – la visita di una qualunque capitale europea. Se, come conseguenza, l’esperienza del viaggio tornerà ad essere costosa ed elitaria, potremmo forse riscoprire la bellezza atavica di quel borgo medioevale di provincia che, vivendo in Italia, ognuno di noi ha la fortuna di poter raggiungere in un’ora di strada, e magari, persino, capire finalmente che il problema della diseguaglianza può risolversi soltanto combattendo la diseguaglianza, non di certo liberalizzando l’accesso massivo e predatorio a risorse – ambientali, culturali o sociali – sempre più scarse, deturpate e morenti.
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