giovedì 28 febbraio 2019

Non si deve permettere a Israele di usare Eurovision come strumento di propaganda - Brian Eno



Quelli di noi che per vivere fanno arte e cultura prosperano su una comunicazione libera e aperta. Quindi cosa dovremmo fare quando vediamo la cultura diventare parte di un’agenda politica? “La musica unisce”, afferma Michael Rice, concorrente britannico di Eurovision. Cosa succede quando uno stato potente usa l’arte come propaganda per distrarre dal suo comportamento immorale e illegale? Tutti i partecipanti al concorso canoro Eurovision di quest’anno dovrebbero capire che è questo ciò che sta accadendo.
Emittenti europee, inclusa la BBC, vanno avanti con i piani per tenere il concorso a Tel Aviv a maggio, come se trasmettere uno spettacolo di intrattenimento estremamente costoso da uno stato di apartheid attivamente repressivo non fosse affatto un problema. Eurovision, afferma l’European Broadcasting Union, è un evento “non politico”. È impossibile conciliare ciò che l’EBU sta dicendo con la realtà. Israele è uno stato che considera la cultura uno strumento politico: il suo primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha elogiato Netta Barzilai, vincitrice israeliana di Eurovision 2018, come una che ha fatto “un lavoro di relazioni eccezionali all’estero”.
Poi c’è la guerra di Israele contro i palestinesi e la loro cultura. A marzo e aprile dello scorso anno, i cecchini israeliani hanno preso di mira e ucciso giornalisti che stavano filmando le proteste pacifiche a Gaza. Ad agosto i suoi jet F16 hanno distrutto il Said al-Mishal Center di Gaza, un luogo di musica, teatro e danza. Agli artisti palestinesi, attori e musicisti, viene regolarmente negato da parte delle autorità di occupazione israeliane il permesso di viaggiare, o, come nel caso della poetessa Dareen Tatour, sono imprigionati per “incitamento al terrorismo”. Nel frattempo la ministra israeliana della cultura accusa le organizzazioni culturali israeliane dissidenti di sovversione e minaccia di tagliare i finanziamenti a meno che non modifichino i loro programmi per soddisfare i gusti del governo. Nel 2017, ad esempio, il festival teatrale di Acri ha ritirato un’opera teatrale sui prigionieri palestinesi di Israele piuttosto che affrontare la vendetta finanziaria della ministra; da allora gallerie e festival cinematografici sono stati minacciati allo stesso modo.
Queste minacce alla produzione culturale sono parte di uno schema più ampio che mina l’affermazione che Eurovision 2019 incarnerà valori di inclusione, diversità e amicizia. Il codice etico dell’EBU promuove Eurovision come uno spazio sicuro, in cui ” diritti umani, libertà di espressione, democrazia, diversità culturale, tolleranza e solidarietà” possono prosperare. Se questa è davvero l’intenzione, avere Israele come ospite è assurdo: anche l’indagine più sommaria mostrerebbe alle emittenti che questi principi lì da tempo sono stati abbandonati.
Reporters Without Borders osserva che giornalisti israeliani sono soggetti a “censura militare” – obblighi di riservatezza. E per quanto riguarda ‘l’inclusione’ – una miriade di restrizioni israeliane sul movimento dei palestinesi faranno in modo che quasi tutti siano esclusi dai festeggiamenti di Eurovision.
L’anno scorso l’acclamato attore-regista teatrale israeliano, Itay Tiran, ha lasciato Israele per sollecitare il sostegno internazionale al crescente movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), richiesto dalla società civile palestinese; e decine di migliaia di persone in tutta Europa, fan e musicisti, hanno comunicato che porteranno avanti una campagna perché i loro paesi non partecipino dagli eventi di Tel Aviv. Comprendo la gioia di Rice per essere stato selezionato come rappresentante della Gran Bretagna per Eurovision. Ma quando ritiene che “non spetta a me dire” se il trattamento israeliano dei palestinesi significa che Eurovision dovrebbe essere trasferita, penso che stia sottovalutando il suo potere. Potrebbe contribuire a garantire che Eurovision 2019 venga ricordato come un’occasione di protesta morale, non un altro episodio di imbiancatura culturale.

Brian Eno è un musicista, compositore, produttore e artista visivo. È un sostenitore di Artists for Palestine UK

(Traduzione: Simonetta Lambertini-invictapalestina.org
Fonte: https://www.theguardian.com/commentisfree/2019/feb/18/israel-eurovision-propaganda-oppression-palestinians?CMP=share_btn_fb&fbclid=IwAR1c7dB-NDClhKKJoPZgNax2WYc4t6dsM396CTiYevf2zk6D16pCYVOadx4)


B’Tselem Falsa giustizia: le responsabilità dell’Alta Corte israeliana per la demolizione di case di palestinesi e la loro spoliazione



All’inizio del settembre 2018, dopo anni di azioni legali, i giudici dell’Alta Corte di Giustizia israeliana (ACG) hanno deciso che non sussistevano ostacoli giuridici per la demolizione degli edifici nella comunità di Khan al-Ahmar – situata a circa 2 chilometri a sud della colonia di Kfar Adumim – in quanto le costruzioni del centro abitato erano “fuorilegge”.La decisione della sentenza, secondo cui la distruzione della comunità non è altro che una questione di “applicazione della legge”, riflette fedelmente il modo in cui Israele ha elaborato per anni la sua politica riguardo alle costruzioni dei palestinesi in Cisgiordania. A livello di dichiarazioni formali, le autorità israeliane considerano la demolizione di case palestinesi in Cisgiordania come una semplice questione di abusi edilizi, come se Israele non avesse obiettivi a lungo termine in Cisgiordania e se la materia non avesse implicazioni di vasta portata per i diritti umani di centinaia di migliaia di individui, compresa la loro possibilità di sopravvivere, guadagnarsi da vivere e gestire la propria vita quotidiana. La Corte Suprema ha totalmente accolto questo punto di vista. In centinaia di sentenze e decisioni stilate nel corso degli anni sulla demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania i giudici hanno considerato la politica urbanistica israeliana come legale e legittima, concentrandosi quasi sempre solo sulla questione tecnica se i ricorrenti avessero permessi edilizi. Di volta in volta i giudici hanno ignorato l’intenzione sottintesa nelle politiche israeliane e il fatto che, in pratica, queste politiche impongono un divieto generalizzato di costruzione per i palestinesi. Hanno anche ignorato le conseguenze di queste politiche per i palestinesi: condizioni di vita più dure – a volte decisamente terribili – per il fatto di essere obbligati a costruire case senza permessi, e l’assoluta incertezza riguardo al futuro.
A. Politica di pianificazione in Cisgiordania
L’apparato che si occupa di pianificazione istituito da Israele in Cisgiordania è al servizio della sua politica di promozione ed espansione dell’appropriazione israeliana della terra in tutta la Cisgiordania. Quando si tratta della pianificazione per i palestinesi, l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndtr.] cerca di ostacolare l’ampliamento, riducendo al minimo la dimensione delle comunità e incentivando la densità delle costruzioni, con lo scopo di impadronirsi di quanto più terreno possibile a beneficio degli interessi israeliani, soprattutto per l’espansione delle colonie. Ma quando pianifica per le colonie, la cui stessa fondazione è in primo luogo illegale, l’Amministrazione Civile agisce esattamente al contrario: la pianificazione riflette le necessità attuali e future delle colonie, e mira ad includere quanta più terra possibile nel piano generale in modo da impossessarsi di quante più risorse della terra possibili. Questa pianificazione porta a uno sviluppo dispendioso di infrastrutture, alla perdita di zone rurali naturali e alla rinuncia di spazi aperti.Israele ottiene questi risultati con vari mezzi. Primo, proibisce ai palestinesi di costruire su circa il 60% dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.], che equivale a circa il 36% di tutta la Cisgiordania. Lo fa applicando una serie di definizioni giuridiche per vaste aree (con classificazioni che ogni tanto si sovrappongono): “terre dello Stato” (circa il 35% dell’Area C), “zone per l’addestramento militare” (circa il 30% dell’Area C), o “competenza delle colonie” (circa il 16% dell’Area C). Queste classificazioni sono utilizzate per ridurre in modo significativo l’area a disposizione per lo sviluppo dei palestinesi.Secondo, Israele ha modificato la legge giordana di pianificazione che si applica alla Cisgiordania, sostituendo molte delle sue disposizioni con quelle di un’ordinanza militare che trasferisce ogni potere di pianificazione in Cisgiordania al Consiglio Supremo dell’Amministrazione Civile ed elimina la rappresentanza palestinese nelle commissioni urbanistiche. Di conseguenza, l’Amministrazione Civile è diventata l’unica ed esclusiva autorità per la pianificazione e lo sviluppo in Cisgiordania, sia per le comunità palestinesi che per le colonie.Terzo, Israele sfrutta il proprio potere esclusivo sul sistema di pianificazione allo scopo di impedire di fatto ogni sviluppo dei palestinesi e incrementare la densità abitativa persino sul rimanente 40% della terra, in cui non vieta a priori la costruzione da parte dei palestinesi. Nell’ottobre 2018, durante un incontro alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], il capo dell’Amministrazione Civile ha detto che, in conformità con le istruzioni di funzionari del governo, attualmente non c’è nessun piano regolatore per i palestinesi.Tuttavia, per mantenere la parvenza di un sistema di pianificazione che funzioni correttamente, lo Stato sostiene che i piani regolatori per le comunità palestinesi devono rispettare gli schemi stilati dalle autorità del Mandato britannico negli anni ’40 – che definivano la suddivisione in zone per l’uso dei terreni per l’intera Cisgiordania – anche se questi piani sono ad anni luce di distanza dalle attuali necessità della popolazione. Indubbiamente l’Amministrazione Civile ha stilato centinaia di piani schematici speciali per le comunità palestinesi. Ma, mentre l’obiettivo dichiarato era di sostituire i piani del periodo del Mandato, anche quelli nuovi sono stati concepiti per ridurre l’edificazione. Non sono altro che piani di delimitazione, che sostanzialmente tracciano una linea attorno al perimetro delle zone edificate dei villaggi sulla base di fotografie aeree. I dati illustrano chiaramente i risultati di questa politica:Richieste per ottenere permessi edilizi: secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal gennaio 2000 a metà del 2016 i palestinesi hanno presentato 5.475 richieste per avere una concessione edilizia. Solo 226 (circa il 4%) sono state accolte.Ordini di demolizione: nel corso degli anni, l’Amministrazione Civile ha emesso migliaia di ordini di demolizione per strutture palestinesi. Secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal 1988 al 2017 sono stati emanati 16.796 ordini di demolizione; 3.483 (circa il 20%) sono stati messi in atto e 3.081 (circa il 18%) sono ancora oggetto di procedimenti giudiziari. Fino al 1995 l’Amministrazione Civile ha emesso meno di 100 ordini di demolizione all’anno. Tuttavia, dal 1995 – l’anno in cui è stato firmato l’accordo ad interim [degli accordi di Oslo, ndtr.] – il loro numero è costantemente aumentato. Dal 2009 al 2016 l’Amministrazione Civile ha emesso annualmente una media di 1.000 ordini di demolizione.Demolizioni: secondo i dati di B’Tselem, dal 2006 (l’anno in cui B’Tselem ha iniziato a registrare la demolizione di case) fino al 2018, Israele ha demolito almeno 1.401 unità abitative palestinesi in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), provocando il fatto che almeno 6.207 persone – compresi almeno 3.134 minorenni – abbiano perso le proprie case. Nelle comunità palestinesi non riconosciute dallo Stato, molte delle quali devono affrontare la minaccia di espulsione, Israele distrugge ripetutamente case. Dal 2006 al 2018 Israele ha demolito più di una volta le case di almeno 1.014 persone – compresi 485 minori – che vivono in queste comunità.

La pianificazione per le colonie israeliane è l’esatto contrario della situazione nelle comunità palestinesi. Con la sola eccezione delle colonie nella città di Hebron, tutte le colonie sono state fondate in spazi aperti. Inoltre sono stati predisposti piani regolatori generosi e molto dettagliati praticamente per tutte le colonie, sostituendo gli antiquati piani dell’epoca del Mandato britannico che erano in vigore lì. I nuovi piani includono una nuova definizione delle aree coerente con le necessità di comunità moderne. Includono terre per uso collettivo, spazi verdi e terreni per l’espansione e lo sviluppo, ben oltre quanto necessario in base al tasso di incremento normale della popolazione. L’Amministrazione Civile ha anche costruito una nuova rete di strade per collegare le varie colonie le une con le altre e queste con l’altro lato della Linea Verde (il confine tra il territorio sovrano di Israele e la Cisgiordania), che restringe e limita lo sviluppo dei palestinesi.

B. Le sentenze dell’ACG: totale approvazione del sistema di pianificazione
Nel corso degli anni i palestinesi hanno presentato centinaia di ricorsi all’ACG, chiedendo la revoca degli ordini di demolizione dell’Amministrazione Civile. Nella maggioranza dei casi l’ACG ha emesso provvedimenti inibitori provvisori che proibiscono allo Stato di demolire strutture in attesa di sentenza. Tuttavia c’è un alto prezzo da pagare per questa situazione di stallo. La Corte spesso emette ordini temporanei che non solo vietano le demolizioni da parte di Israele, ma non consentono neanche agli abitanti palestinesi di costruire case o edifici pubblici, collegarsi ai servizi ed effettuare riparazioni, neppure quelle essenziali, su edifici esistenti, condannandoli a un prolungato stato di limbo e all’incertezza riguardo al loro futuro.Molti ricorsi sono stati bocciati dai giudici, che hanno rigettato ogni argomentazione di principio riguardo alla politica di pianificazione che Israele mette in atto in Cisgiordania. A volte la Corte non ha neppure esaminato le argomentazioni. Altri ricorsi sono stati ritirati dai ricorrenti, a volte dopo che lo Stato ha affermato di non aver intenzione a quel punto di mettere in pratica gli ordini di demolizione e si è impegnato a fornire ai ricorrenti un preavviso nel caso in cui dovesse modificare la propria posizione. Tuttavia, per quanto ne sa B’Tselem, non c’è stato neppure un caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro una demolizione della propria casa.

1. Accettazione dello spossessamento di palestinesi in vaste zone della Cisgiordania
I giudici non hanno trovato niente da ridire nel fatto che la terra della Cisgiordania sia stata dichiarata “terra dello Stato” o “zona di addestramento”. Nonostante abbia ascoltato le argomentazioni che mettono in discussione la legittimità di questo modo di procedere, in ognuno di questi casi la Corte ha accettato gli argomenti dello Stato secondo cui le costruzioni dei palestinesi sono illegali e di conseguenza le strutture devono essere demolite.La Corte Suprema ha sempre accettato la posizione dello Stato secondo cui i palestinesi, a differenza dei coloni, non hanno il permesso di costruire su “terre dello Stato”. In ricorsi in cui lo Stato ha sostenuto che la costruzione in questione si trova su terre dichiarate “zona di addestramento militare”, la Corte non ha neppure affrontato la reale questione del fatto che la zona sia stata dichiarata area chiusa. Persino quando i ricorrenti hanno esplicitamente sollevato questa argomentazione, non ha neppure preso in esame se questa designazione sia stata giusta o legittima. Al contrario, in questi casi le udienze si sono limitate alla questione se i ricorrenti fossero di fatto “residenti permanenti” delle zone di tiro. In base agli ordini militari solo quella condizione avrebbe consentito loro di stare lì. In tutti i casi in cui finora è stata presa una decisione, i giudici hanno accettato l’argomentazione dello Stato secondo cui i ricorrenti non sono “residenti permanenti” e ha approvato la demolizione delle loro case.

2. Riconoscere ragionevole e legittimo il sistema di pianificazione
I giudici dell’ACG hanno considerato legittimi e necessari i cambiamenti fatti da Israele alla legge di pianificazione giordana, nonostante la proibizione stabilita dalle leggi internazionali contro la potenza occupante di realizzare cambiamenti alle leggi locali, salvo rare eccezioni che non si applicano a questo caso. Nel prendere questa decisione hanno ignorato il fatto che i cambiamenti hanno consentito a Israele di consolidare e prendere il controllo di tutto il sistema di pianificazione, di escludere i palestinesi da ogni commissione e impedire loro di avere un ruolo nel decidere del proprio futuro. Questo cambiamento ha aperto la strada alla successiva istituzione di due sistemi di pianificazione paralleli: uno per i palestinesi e l’altro per i coloni. Inoltre i giudici hanno stabilito che il sistema di pianificazione per i palestinesi riflette le necessità degli abitanti. I giudici sono stati assolutamente disposti ad accettare che piani regolatori antiquati – disegnati oltre ottant’anni fa dal Mandato britannico – siano ancora applicati ai villaggi palestinesi, ma non alle colonie israeliane; hanno stabilito che gli schemi che l’Amministrazione Civile ha stilato per le comunità palestinesi sono ragionevoli e corrispondono alle necessità degli abitanti. I giudici non hanno dato alcuna importanza al fatto che i piani regolatori siano identici, inflessibili, non presentino alcuno spazio pubblico e che ogni futuro sviluppo debba essere realizzato all’interno dell’area già edificata del villaggio. I giudici hanno anche stabilito che le commissioni edilizie dell’Amministrazione Civile prendono in considerazione in modo corretto e professionale le domande di licenza edilizia dei palestinesi, benché non ci siano rappresentanti dei palestinesi nelle commissioni, e non hanno prestato la minima attenzione allo scarsissimo numero di richieste approvate. Dato questo punto di partenza, i giudici esaminano i ricorsi come se l’applicazione delle leggi per la pianificazione e la costruzione fosse l’unico problema in questione. Di conseguenza non accettano i ricorsi, come se il problema non fosse altro che una questione di applicazione di leggi edilizie. Chiedono che i ricorrenti esauriscano tutte le inutili procedure che il sistema offre e sono inorriditi quando i ricorrenti “si fanno giustizia da soli” e – in assenza di qualunque altra alternativa – costruiscono senza permesso.

3. Riconoscimento implicito della politica israeliana
La Corte fornisce anche un implicito timbro di approvazione legale alla politica israeliana. Lo fa attraverso due metodi principali.
A. Nasconde le differenze tra i vari schemi di pianificazione: nelle loro sentenze sulla costruzione nelle comunità palestinesi i giudici della Corte Suprema hanno anche citato sentenze che trattano la pianificazione delle colonie o all’interno stesso di Israele. Hanno fatto lo stesso anche nei casi contrari: in sentenze riguardanti la pianificazione per colonie o all’interno di Israele, i giudici hanno citato sentenze riguardanti piani regolatori per la popolazione palestinese. Il rimando a precedenti giuridici è tipico del sistema giudiziario israeliano. Tuttavia i vari sistemi di pianificazione sono sostenuti da valori diversi e sono destinati a salvaguardare interessi in conflitto. Un sistema il cui obiettivo è pianificare a favore della popolazione – come quello applicato alle colonie e alle comunità ebraiche in Israele – non è affatto come uno schema il cui obiettivo è di iniziare, portare avanti e legalizzare la sistematica spoliazione della popolazione, come quello in vigore per le comunità palestinesi. Mettere tutto quanto insieme elimina le differenze, rendendo apparentemente etico e valido un sistema palesemente illegittimo.
B. Riferimenti selettivi alle disposizioni delle leggi internazionali: l’ACG ha anche riconosciuto valido il sistema di pianificazione trasmettendo il messaggio che la pianificazione attuata per i palestinesi rispetta quanto previsto dalle leggi umanitarie internazionali (LUI). Ciò viene ottenuto principalmente citando in modo selettivo le LUI, in modo da creare l’impressione che la politica israeliana sia in linea con esse, e ignorando altre disposizioni, come la proibizione di addestramento militare o di fondazione di colonie nella zona occupata.È particolarmente evidente l’indifferenza dei giudici rispetto al fatto che la messa in pratica della politica di pianificazione israeliana implica la violazione della proibizione assoluta di trasferimento forzato, benché siano state portate davanti alla Corte denunce riguardanti la violazione di questa norma. La proibizione rimane persino se le persone lasciano le proprie case non per propria libera scelta, per esempio a causa di condizioni di vita insopportabili provocate dalle autorità impedendo loro l’accesso alle reti idrica ed elettrica, trasformando la zona in cui vivono in area per l’addestramento militare o con la ripetuta distruzione delle loro case. La violazione di questo divieto è un crimine di guerra.

C. Una giustizia illusoria.
Nonostante le enormi differenze tra il sistema di pianificazione che Israele ha definito per la popolazione palestinese in Cisgiordania e quello per i coloni, l’ACG le ha considerate identiche. Durante una delle sessioni dell’ACG tenuta nel 2018 sulla questione di ricorsi contro la demolizione di Khan al-Ahmar, il giudice Hanan Melcer ha persino detto – riguardo all’applicazione di leggi di pianificazione per palestinesi e coloni – che “a tutti si applica la stessa legge.”Eppure la politica di pianificazione ed edificazione di Israele per i coloni è l’esatto contrario di quella applicata ai palestinesi. Nonostante a volte i coloni facciano le vittime – lupi vestiti di agneli – è sufficiente guardare semplicemente alla situazione sul terreno per vedere l’immenso divario tra la pianificazione per i coloni e per i palestinesi. Dall’occupazione della Cisgiordania oltre cinquant’anni fa, Israele ha costruito quasi 250 nuove colonie – la cui stessa fondazione è vietata dalle leggi internazionali – e solo una comunità palestinese. E quest’unica comunità è stata costruita per trasferirvi beduini che vivevano su terre che Israele ha destinato all’espansione di una colonia. In altre parole, persino la fondazione di quest’unica comunità era destinata a rispondere a necessità israeliane. Allo stesso tempo Israele ha fondato un sistema che non consente ai palestinesi di ottenere permessi edilizi e dedica notevoli sforzi per imporre e applicare rigide restrizioni su qualunque costruzione o ampliamento per la popolazione palestinese.È inimmaginabile il divario tra questa situazione e quella descritta in migliaia di decisioni dell’ACG – in cui i giudici hanno scritto di “mani pulite” e di “faticose misure correttive”, hanno accettato qualunque argomento dello Stato riguardo alla pianificazione per la popolazione palestinese e hanno fatto una sintesi consentendo allo Stato di demolire le case dei ricorrenti e di consegnarli a condizioni di vita disastrose. Mentre la Corte non scrive le leggi, determina le politiche o le applica, i giudici hanno sia l’autorità che il dovere di stabilire che le politiche di Israele sono illegali e di proibire la demolizione delle case. Invece, ripetutamente, hanno scelto di dare alle politiche la loro approvazione e di convalidarle pubblicamente e giuridicamente.Così facendo non solo i giudici della Corte Suprema non hanno assolto ai loro doveri, hanno anche giocato un ruolo fondamentale nel consolidare ancor di più l’occupazione e l’impresa di colonizzazione e nello spogliare ulteriormente i palestinesi delle loro terre.È ragionevole pensare che i giudici siano ben consapevoli, o lo dovrebbero essere, delle fondamenta giuridiche che stanno consolidando con le loro sentenze e delle devastanti implicazioni di queste sentenze, comprese le violazioni del divieto delle Leggi Umanitarie Internazionali di trasferimento forzato. Quindi anche loro – insieme al presidente del consiglio, ai ministri, al capo di stato maggiore e ad altri alti gradi dell’esercito – hanno una responsabilità personale nella perpetrazione di tali crimini.Per Israele, il principale vantaggio di conservare un “sistema di pianificazione” per la popolazione palestinese è che ciò conferisce al sistema una parvenza di correttezza e funzionalità, operando in apparenza in base alle leggi internazionali e israeliane. Ciò consente allo Stato di affermare che i palestinesi scelgono di costruire “illegalmente” e di farsi giustizia da soli – come se avessero alternative – giustificando così la demolizione delle case e le continue restrizioni nella pianificazione. Tuttavia il tentativo di mascherare il sistema di pianificazione nei territori occupati come se fosse corretto non è altro che uno stratagemma propagandistico. Un sistema di pianificazione dovrebbe riflettere gli interessi degli abitanti ed essere al servizio delle loro necessità. Ma per definizione l’equilibrio di potere sotto un regime di occupazione è ineguale. I funzionari del regime di occupazione non rappresentano la popolazione occupata, che non può partecipare al sistema che regola e governa la sua vita, né ai processi di pianificazione e legislativi, né all’emanazione di ordini militari, né alla commissione che nomina i giudici.A volte pare che lo Stato stesso ne abbia avuto abbastanza dello sforzo insito nel conservare le apparenze. Mappare edifici, passare per le procedure della commissione, scrivere risposte ai ricorsi ecc. ecc., tutto ciò porta via tempo, impegno e risorse preziosi, anche se Israele ha a sua disposizione legioni di avvocati, enormi risorse finanziare, sistemi di pianificazione per fare il suo volere e un sistema giudiziario volontariamente votato alla farsa. Contrapposta a questa potenza congiunta c’è una popolazione con scarsa rappresentanza e poche risorse, persone che hanno vissuto per oltre mezzo secolo sotto un regime militare in cui libertà e sopravvivenza sono precarie. Tuttavia i dirigenti dello Stato sono insoddisfatti del ritmo e del tasso di spoliazione, trovando frustrante dover aspettare mesi e anni perché i tribunali raggiungano il verdetto a cui lo Stato mira. Pertanto negli ultimi anni Israele ha intensificato i suoi tentativi di evitare – o persino cancellare – le procedure giuridiche relative alla demolizione di strutture palestinesi. La volontà di Israele di fare a meno dell’apparenza testimonia soprattutto la sua sicurezza che non sarà chiamato a dover subire significative conseguenze interne o internazionali per aver violato la legge. La legittimità dei nuovi ordini è stata discussa dall’ACG proprio in questi giorni. Ciò significa che, paradossalmente, alla Corte Suprema viene ora chiesto di considerare la cancellazione della finzione nella cui creazione ha giocato un importante ruolo.Indipendentemente dal fatto che i giudici dell’ACG scelgano di avallare la cancellazione della finzione, essi hanno costruito un solido edificio per supportare la legittimazione giuridica della spoliazione della terra del popolo palestinese. Quanta cura si prenderanno nell’aggiungere una bella mano di vernice a questa struttura nei prossimi giorni? Insisteranno nel mantenere la finzione? In fin dei conti, questa è una questione di immagine secondaria. Ciò non dovrebbe sviare l’attenzione dalla situazione di furto e spoliazione che Israele ha creato e che i giudici continuano a consentire, giustificare e avallare. (traduzione di Amedeo Rossi)

mercoledì 27 febbraio 2019

Democrazia - Lorenzo Guadagnucci


Uno dei momenti chiave del film Una notte di dodici anni di Alvaro Brechner è un incontro in carcere fra Pepe Mujica e sua madre. Il futuro presidente dell’Uruguay, a quel punto in galera già da qualche anno, dà evidenti segni di cedimento. Dice di sentire delle voci, appare sofferente e smarrito: è stremato dalle torture, dalla brutalità, dall’isolamento in luoghi insopportabili.
Il Pepe davanti alla madre cerca complicità più che conforto: sembra chiedere l’autorizzazione ad arrendersi, a cadere in uno stato permanente di semi coscienza, senza più lottare, senza più pensare a un possibile dopo. La madre intuisce lo stato d’animo del figlio e reagisce con forza: «Mamma un cazzo», dice a muso duro, e scuote il prigioniero: non devi mollare, non devi dargliela vinta.
È andata proprio così: il Pepe resterà in piedi, lucido e determinato, come i suoi otto compagni di prigionia (nel film se ne vedono due), militanti Tupamaros tenuti in ostaggio dai militari golpisti, che minacciavano di ucciderli in caso di attentati o altre azioni della resistenza armata. Il Pepe, al crepuscolo del regime, rivedrà sua madre fuori dal carcere.
L’incontro in parlatorio è importante perché documenta un aspetto decisivo nella dinamica della tortura (Una notte di dodici anni è un film sulla tortura, come non se ne vedevano da tempo). Mostra che la tortura si combatte attraverso il contatto umano, con la forza dell’empatia. Il Pepe e i suoi compagni resistono agli abusi e all’isolamento perché riescono, sia pure saltuariamente e fra spaventose difficoltà, a comunicare fra loro (a piccoli colpi sui muri) o con altre persone, a volte carcerieri disposti a dismettere per qualche ragione la maschera imposta dal ruolo, a volte familiari ammessi a rari colloqui. Come i vampiri non sopportano la luce del sole, così la tortura può essere sconfitta quando è sottoposta al vaglio delle relazioni sociali, al calore del contatto umano. Vale per l’individuo che deve affrontarla e trae dagli altri l’energia per non soccombere; vale per la società nel suo insieme.
Nei giorni scorsi è stato pubblicato da due agenzie dell’Onu (Unsmil e Ohrhc) un drammatico rapporto su quanto davvero avviene nei centri di detenzione per migranti in Libia. Sono testimonianze angoscianti: stupri seriali, abusi innominabili, violenze continuate, torture in diretta telefonica per estorcere denaro ai parenti, vendite al mercato degli schiavi.
Si potrebbe dire: niente di nuovo. Da tempo sappiamo, o crediamo di sapere, che la Libia è il non-Stato canaglia per eccellenza, un Paese dilaniato da signori e signorotti della guerra. Lo hanno documentato giornalisti, registi, ong, la stessa Onu in passato. Ma queste verità non hanno mai fatto breccia: non nelle istituzioni e nemmeno nell’opinione pubblica.
Si sono stretti accordi con sedicenti “governi”, “sindaci” e “guardie costiere” della Libia fingendo di non sapere degli stupri, degli abusi, delle torture. Abbiamo chiuso occhi, mente e cuore pur di portare a casa l’unico risultato ambito: poter dichiarare a microfoni aperti «flussi ridotti», «porti chiusi», «basta coi trafficanti d’uomini».
Parole false, consapevoli menzogne, ma ripetute così spesso, così a lungo, che alla fine ci troviamo a vivere in una società che non riesce più a comprendere e capire chi sono i quarntanove della Sea Watch lasciati a vagare in mare per giorni e giorni o che cosa nascondono le cifre sulla riduzione dei flussi (cinica espressione presa dal linguaggio tecnico, tanto orribile quanto indicativa della disumanizzazione in corso).
I segregati nei campi in Libia sono come Pepe Mujica: umiliati e torturati, prossimi a cedere, in balìa di carcerieri protetti – di fatto – da chi pretende di “governare” l’immigrazione a prescindere dalle persone, ignorando le loro sofferenze, oltre che le loro aspirazioni.
La tortura è fra noi, ne siamo complici, e tutto sta per crollare: il nostro senso di civiltà, la dottrina dei diritti umani, ciò che da tempo intendiamo per “democrazia”. L’indifferenza per la negata dignità della persona, di ogni persona, sta diventando strutturale. Ci vorrebbe qualcuno, come la madre di Pepe Mujica, capace di urlarci: «Democrazia un cazzo».

martedì 26 febbraio 2019

Italexit dalla Libia, al-Sisi pigliatutto - Alberto Negri


Possiamo cominciare a fare «ciaone» alla Libia, nonostante gli intensi sforzi di dialogo con il generale Khalifa Haftar del nostro ambasciatore Giuseppe Grimaldi Buccino. Dal vertice euro-arabo di Sharm el Sheik è emerso che: 1) al generale al-Sisi è stato assegnato il ruolo di «guardiano» del sud e della Libia, un po’ come a Erdogan per i rifugiati dalla Siria.
2) l’Eliseo ha in programma due vertici con Haftar e Sarraj negli Emirati e a Parigi. A questo aggiungiamo il punto 3) Haftar, alleato della Francia, della Russia e dell’Egitto, vanta il controllo del giacimento Eni di El Feel. In Libia, in poche parole, non tocchiamo palla.
Sepolte le primavere arabe – ma non le ragioni profonde dell’insurrezione sunnita – il generale egiziano golpista Abdel Fattah al-Sisi, braccio armato dell’Arabia saudita, alleato di Israele in Sinai e in Libia sponsor del generale Haftar, è stato il vincitore di questo vertice e anche dell’incontro con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ha dovuto prendere atto del ruolo preminente di al-Sisi sulla questione libica ed è stato preso in giro ancora una volta sul caso di Giulio Regeni: giustizia – lo avevamo capito sin dall’inizio della vicenda, quando Conte era ancora un perfetto sconosciuto – non sarà mai fatta. Almeno se questi sono i rapporti di forza e persiste la totale assenza da parte europea e americana di ogni solidarietà sul caso Regeni.
Ma l’Italia la lezione non l’impara mai: i nostri alleati sono anche i nostri più accesi concorrenti. «Regeni per l’Italia è una ferita aperta», ha detto Conte ad al-Sisi, ma lui dal generale non riesce a ottenere neppure un cerotto.
E poi anche per noi gli affari sono affari e non si può irritare troppo al-Sisi, referente del mega-giacimento offshore di gas dell’Eni a Zohr e soprattutto pretoriano dei Saud e del principe assassino Mohammed bin Salman, un cliente della nostra industria bellica già sbilanciata per le forniture di armamenti di Fincantieri e Leonardo, con il Qatar, la monarchia degli Al Thani e di Al Jazeera fortemente invisa e boicottata sia da Riyadh che dal Cairo per il suo appoggio ai Fratelli Musulmani.
Il Qatar era presente a Sharm con una delegazione di basso livello perché l’invito ufficiale al vertice non è arrivato neppure direttamente ma attraverso l’ambasciata greca a Doha. Segnali inequivocabili: sauditi ed egiziani con il generale Haftar vogliono far fuori la Fratellanza anche a Tripoli di Libia, se possibile, e poi forse si tornerà a parlare con i suoi sponsor, il Qatar e la Turchia.
Pur senza dirlo esplicitamente, l’Europa si prepara a riconoscere ad al-Sisi il ruolo di gendarme meridionale e custode dei flussi dei migranti dall’Africa e dal Sudan, dove il presidente Omar al Bashir ha appena proclamato lo stato d’emergenza e dato nuovi poteri alle forze armate per soffocare le manifestazioni dell’opposizione. Come scriveva Chiara Cruciati sul manifesto siamo al trionfo della militarizzazione. E se Erdogan viene pagato dalla Ue per tenersi tre milioni di profughi siriani, al-Sisi verrà ricompensato con l’espansione della sua influenza sulla Libia di Haftar.
La Francia sembra d’accordo. E sta facendo pressioni sull’inviato dell’Onu Ghassam Salamé per organizzare a breve due vertici tra Haftar e Sarraj – il vulnerabile leader tripolino sponsorizzato dall’Italia – prima ad Abu Dhabi e poi a Parigi. Per i francesi Haftar è una sorta di «De Gaulle libico» ma non trascurano neppure i rapporti con il clan di Gheddafi e con il figlio del colonnello, Seif al Islam.
Insomma ci stanno scavalcando da tutti i lati. Haftar ora controlla l’importante giacimento libico El Feel, operato da Eni assieme alla Compagnia petrolifera nazionale libica (Noc), un’operazione avvenuta nell’ambito della campagna di conquista del sud-ovest con cui si era già impadronito dei pozzi di Sharara, i più importanti della Libia. Le recenti avanzate stanno cambiando rapidamente le relazioni di potere in Libia e forse la Francia si prepara a trattare una sorta di resa o di armistizio con il governo Sarraj.
«Haftar per Tripoli è diventato una minaccia esistenziale», sostiene l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza (Swp). Ce ne accorgeremo, forse, anche noi.

Tax me, if you can - Alessandro Bramucci



Le basse imposte pagate dalle società multinazionali rivelate dai Luxembourg Leaks e da numerose altre inchieste giornalistiche hanno avanzato seri dubbi sull’efficacia del sistema internazionale di tassazione. Quali contromisure sono state prese a livello nazionale ed internazionale? Quali sono gli ostacoli alla riforma del sistema fiscale nell’Unione Europea? Ne hanno discusso alla Berlin School of Economics and Law Sarah Godar, ricercatrice della Berlin School e Fabio De Masi, deputato italo-tedesco del Bundestag di Berlino, vicepresidente della Linke, capo e portavoce della commissione Economia e finanza del partito di sinistra. Ha moderato discussione Achim Truger, professore di Macroeconomia alla Berlin School recentemente indicato dai sindacati come successore di Peter Bofinger alla Commissione economica del governo tedesco. L’evento è stato organizzato dell’Istitute for Political Economy (IPE) della Berlin School.
Tra le pratiche più comuni utilizzate delle multinazionali per eludere il fisco c’è quella della cosiddetta rilocalizzazione degli utili (dall’inglese profit shifting). La pratica consiste nel trasferimento degli utili tra società collegate o tra filiali dello stesso gruppo da un Paese con elevata tassazione ad un Paese con una giurisdizione fiscale più amichevole causando non pochi problemi alle autorità fiscali.
Valutare l’entità e la portata delle transazioni all’interno di uno stesso gruppo aziendale è compito arduo. Manca spesso un prezzo di mercato che possa identificare il valore del pagamento per determinati servizi che vengono scambiati all’interno della stessa impresa lasciando così ampi margini di manovra nello stabilire il valore della transazione. Nei casi invece in cui il trasferimento dei capitali si configura sotto forma di prestito per il finanziamento di nuovi investimenti verso Paesi con tassazione elevata, l’azienda è in grado di dedurre dal proprio carico fiscale il pagamento degli interessi dovuti sul prestito a se stessa. Si verificano inoltre casi in cui un marchio o un brevetto sia detenuto da una società controllata risiedente in un paradiso fiscale. In questo caso l’impresa che risiede nel Paese ad elevata tassazione deve pagare licenze e royalties per l’utilizzo di marchi e brevetti. Anche in questo caso è difficile determinare il contributo del marchio o del brevetto nella formazione del valore di mercato del prodotto lasciando così ampio margine di manovra all’azienda nello stabilire l’origine degli utili.
Da alcune stime recenti ottenute da dati macroeconomici si evince che nell’Unione europea circa il 15-22% delle entrate fiscali siano perse a causa di tale fenomeno. Dai dati emerge infatti una evidente incoerenza nella distribuzione dei profitti e delle effettive attività economiche. Si nota come nei paradisi fiscali il guadagno delle imprese multinazionali sia sproporzionato rispetto al costo complessivo dei dipendenti, arrivando fino a 8 euro di profitti per ogni dollaro speso in lavoro in Irlanda e a 4 nel caso del Lussemburgo.
La conferma che questa differenza sia dovuta al trasferimento del reddito tra Paesi e non da un affettivo vantaggio competitivo è dimostrata dal fatto che le imprese nazionali risiedenti in questi paesi non sembrano essere altrettanto redditizie. Un’altra metodologia applicata su dati microeconomici prevede l’utilizzo di tecniche econometriche per misurare la sensitività dei profitti alle differenze nelle aliquote fiscali tra i paesi in cui è attiva una multinazionale. Se i profitti reagiscono alle variazioni dei differenziali delle aliquote, può essere considerato come il segnale di una manipolazione dei profitti.
Uno studio condotto dalla stessa Godar su dati microeconomici suggerisce che le mancate entrate dovute a questo fenomeno siano tra il 2,9 e il 10,7 per cento (pari a 1,5-5,6 miliardi di euro nel 2015) del totale delle imposte sugli utili delle multinazionali. Anche se a prima vista questo effetto non sembra essere particolarmente rilevante, occorre pensare che si tratti delle imposte perse dalle sole affiliate tedesche con investitori risiedenti in paradisi fiscali.
 “I contribuenti nell’Ue perdono ogni anno centinaia di miliardi di euro a causa dell’evasione fiscale delle grandi multinazionali. Il Lussemburgo e molti altri Paesi dell’Ue offrono alle imprese accordi fiscali vantaggiosi che tramite trucchi contabili riescono a ridurre l’aliquota fiscale fino sotto il singolo punto percentuale”, afferma De Masi. Fabio De Masi è stato eletto nel 2017 parlamentare del Bundestag tra le file della Linke. In precedenza (2014-2017) è stato parlamentare Europeo nel gruppo GUE/NGL (Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica) occupandosi tre le altre cose dei Panama Papers come vice presidente della Commissione di inchiesta istituita dal parlamento dell’Unione. Grazie al suo lavoro è stato nominato dalla rivista International Tax Review tra le 50 persone al mondo più influenti sul tema della politica fiscale.
“Il problema della tassazione è che non ci sono le immagini delle vittime”, dice con triste ironia De Masi riferendosi alle parole di un suo amico e collega di partito. Chi sono effettivamente le vittime dei paradisi fiscali? Anche se il problema e le conseguenze dell’evasione fiscale è ormai evidente, basti pensare alle politiche di austerità imposte durante la recente recessione, è chiaro manca la spinta necessaria per smuovere le coscienze dei politici di governo e le riforme proposte fino ad ora in Europa non hanno prodotto alcun cambiamento sostanziale.
Occorrono invece misure drastiche. Le multinazionali come Amazon, Google e Co. devono essere tassate alla fonte dei loro profitti e occorre rendere difficile il trasferimento artificioso degli utili verso paesi a bassa tassazione. Occorre che i profitti delle società vengano riportati sulla base delle reali attività economiche sostenute dalle imprese nei vari paesi dell’Ue e devono essere inserite delle sanzioni per i flussi finanziari diretti nei paradisi fiscali. Tra le varie proposte di riforma avanzate da De Masi e dalla Linke c’è inoltre quella dell’armonizzazione della tassazione all’interno dell’Ue basata su un’imposta minima che impedisca la concorrenza al ribasso tra Paesi. Le banche che contribuiscono all’evasione fiscale dovrebbero essere private della licenza. Occorre una volontà politica seria a livello dell’Unione Europe che affronti il problema realmente a favore dei suoi cittadini e che non sia vittima di singoli interessi di breve periodo.

lunedì 25 febbraio 2019

Treni, zingari e posti al sole - Patrizia Cecconi



Ormai le mie giornate, quando sto in Italia, o mi passano schiacciata sul pc a leggere e a scrivere, o in treno su e giù per la penisola.
Il treno, come tutte le cose che finiscono per prendere un posto nella tua vita, non è solo un mezzo, è un mini-universo, è animato dai viventi che lo frequentano e dà o toglie qualcosa a ognuno. Ma non tutti ci pensano, e salgono e scendono come se lui, il treno, non esistesse ma semplicemente trasportasse.
E invece quel che succede in treno e intorno al treno è un mondo infinito.
Oggi ho capito perché Loretta Merenda, che per anni ha insegnato all’università di Bologna prendendo tre volte a settimana il treno da e per Ravenna, è riuscita a scrivere una raccolta di poesie “dal treno” che è un vero gioiello.
Io non sono poeta e solo per gioco, a volte, oso esprimere qualche pensiero in versi, ma normalmente mi esprimo in prosa. La prosa in fondo è una forma che può contenere poesia. E quel che succede nel treno o intorno al treno, qualche volta, è davvero poesia.
Dunque, stamattina a Milano c’era il sole. Ma mica siamo a Palermo, o almeno a Napoli, siamo a Milano, e il sole delle 8 a Milano è freddo gelido. Visto che io abito in periferia, per andare in centro ho due vie, o il tram, che però impiega un bel po’, o il treno, che però è un treno speciale che qui chiamano “passante” perché passa per Milano ed esce raggiungendo pure il Piemonte.
I milanesi qualche volta parlano strano, un po’ come quando si sono inventati l’uso del “piuttosto” come addizionale invece che lasciarlo pacificamente all’uso dell’alternativo, per cui capita che ti dicano: “Vuoi i biscotti piuttosto che i salatini?” e poi ti portano biscotti e salatini anche se tu hai detto solo biscotti! Tempo addietro un fiorentino li avrebbe ripresi. Capirai, quelli non è che accettino così facilmente le barbarie linguistiche del nord! Avrebbero usato subito la metafora manzoniana per riportare il “piuttosto” al posto giusto. Ma ormai, con quel che è diventato l’Arno chi ci prova più a risciacquarci i panni? Così, pian pianino, ci stiamo abituando tutti al “piuttosto” addizionale.
Ma perché dico questo? Be’ semplicemente per spiegare che i milanesi parlano un po’ strano e all’inizio, quando ero appena arrivata quassù, mi dicevano: “Per andare al duomo vedi il passante che è meglio del 12”.
Vedi il passante!
No, dico, il passante è uno al quale magari chiedo, non uno che vedo e arrivo al duomo! Il “passante” è un uomo che passa!
Poi ho capito.
Loro chiamano passante il treno mezzo urbano e mezzo no che ha la fermata vicino casa mia, e così, ormai, è diventato il mio mezzo quotidiano ovunque io debba andare perché in 3 o 4 minuti mi porta alla metro.
Il problema però è che siccome il leghista Salvini, tra le tante divise indossate non ha ancora vestito l’orbace, il “passante” non arriva quasi mai in orario.
‘Sto treno comodissimo che mi porta in mezz’ora sul lago di Como e in 4 minuti al centro di Milano, il più delle volte si fa aspettare.
E ora arrivo al dunque!
Attenti però, non siate tanto leggerini da chiamare prolissità quel che ha preceduto “il dunque”. Faceva parte del necessario contorno. Ma se voi siete per il cinguettio che riduce la seconda guerra mondiale a chi ha vinto e chi ha perso, lasciate stare, non andate oltre. Avete già letto troppo.
In caso contrario, se vi piacciono le atmosfere, seguitemi ancora un po’.
Dunque, mi trovo alla fermata del famoso passante, che non è un signore ma una linea ferroviaria. Fa un freddo boia. Una voce metallica dice che a causa di non so che i treni potranno portare fino a 30 minuti di ritardo.
Mi viene da dire a voce alta ” cazzzzo pure oggi, e che stiamo a Roma!?” Poi fermo la mia esclamazione, sia perché non sta bene per una signora dire: cazzo … Magari meglio dire: oh buondio! E sia perché, se penso alla vispa teresa di Roma che è stata così impegnata, lei, assessori, prefetti e consiglieri, a trovare la giustificazione per mantenere i fascisti di Casapound nello stabile occupato – dopo aver fatto la cupa teresa con la Casa internazionale delle donne, col centro Angelo Mai, con i senzacasa e così via – mi si rivolta lo stomaco e allora abbozzo sul ritardo del passante, che, nello specifico, segna 21 minuti. E cerco un sedile al sole.
Sì, al sole, perché questo sole siberiano, quando lo prendi dritto sotto uno dei suoi raggi riesce a scaldarti.
Mattinata perfetta, non solo fa freddo e il treno è in ritardo ma tutti i sedili sono occupati, ecchec… Oh, buondio!
Vabbè, 21 minuti al freddo e al gelo e pure in piedi. Ok, sopravviverò.
Poi però vedo da lontano che un sedile in pieno sole ha posto per almeno altre due persone e mi ci tuffo prima di essere anticipata da qualcun altro.
Niente da fare, sono arrivata tardi. Una coppia di ragazzi è davanti me. Uff… butta male stamattina! Però succede qualcosa, i ragazzi appena si avvicinano al sedile tornano indietro. La ragazza mi guarda mentre mi avvicino e mi fa un cenno negativo con la testa. Il suo ragazzo fa una smorfia come a dire “peccato!” e stringe le spalle. Boh! io vado.
Et voila, ecco la sorpresa! Da lontano non me ne ero accorta, ma la parte occupata del sedile ospita due zingare. 
Ecco perché la coppia non si è seduta. Due zingare! Non ho detto due portatrici di malattie, ho detto due zingare. Be’ sono fortunata, così posso aspettare il mio passante – che intanto ha aggiunto altri minuti al ritardo – seduta al sole.
Ma non finisce qui. La coppia torna sui suoi passi e io temo che ci abbiano ripensato e vogliano chiedermi il posto tipo “c’eravamo prima noi”, macché! Tornano, mi guardano con aria interrogativa e poi se ne vanno.
Che gli sarà passato per la testa? Che magari sono un’ingenua da avvertire che le due donne vicine a me sono pericolose zingare o, come dice chi si crede rispettoso e corretto, due pericolose rom o sinti e quindi devo fare attenzione? Boh!
Non perdo tempo a chiedermi cose che non hanno risposte, Chiudo la borsa perché il vizietto delle zingare lo conosco, poi ci scambio due parole in attesa del treno e poi, ognuna sul proprio smartphone, io a scrivere queste note e loro non lo so.
Giornata faticosa oggi. Quando torno a casa sto qualche ora sul pc per organizzare un evento e poi esco di nuovo e di nuovo vado a prendere il solito passante che stavolta porta solo 6 minuti di ritardo.
Certo, quando Salvini cambierà divisa e indosserà l’orbace sarà tutto più preciso, i treni arriveranno in orario e i pentagrullini andranno pure al Parlamento europeo a esporre gli avanzamenti dell’italia gialloverde, ma per il momento dobbiamo sottostare ai treni che portano un po’ di ritardo e che fanno salire anche gay, lesbiche, zingari, arabi ed ebrei. Questi ultimi magari non creano più problemi come una volta, si sono riscattati grazie al comportamento di Israele che è talmente occidentale e progressista che sarebbe capace di pavimentare in cinque giorni il corridoio di Danzica e annettersi la Polonia con tutto il suo presidente Andrzej Duda, così la pianta di voltare le spalle a Bibi!!
Comunque sia, ‘sti treni un po’ di ritardo lo portano quasi sempre pure se stiamo nel fantastico asburgico nord che ha fatto propria la wiener schnitzel chiamandola cotoletta alla milanese e si sente tanto meglio del profondo sud.
Poi, se gli ricordiamo che loro avevano ancora le pezze quando in qualche angolo del profondo sud c’era già la ferrovia e prima che quassù s’inventassero il triangolo industriale, ti dicono che è un complotto sudista. Allora tu lasci perdere e pensi alle parole di Gesù dalla croce sperando in un futuro improvvisamente, magicamente, consapevole.
Insomma, arriva la sera e io devo riprendere il passante. Sono stanca. Madonnamia quanto sono stanca oggi! Poi, da quando a capodanno ho pensato bene di fare la grulla e cadere dalla bici, seguita pure a farmi male un ginocchio e il dolore arriva fino all’anca quando salgo un gradino o cammino molto.
E oggi ho camminato molto, ho litigato abbastanza, ho risolto poco e ora vorrei solo una doccia e un letto, ma devo prima arrivarci!
Adesso mi basterebbe sedermi perché ho un po’ male alla schiena e un po’ alla gamba. Il treno finalmente arriva. Pieno come un uovo. Eccheè? una congiura?
Salgo.
Tra una testa e l’altra vedo un sedile appena lasciato libero. Un bel ragazzo alto quasi due metri, tatuaggi e muscoli in bella mostra mi batte in volata. Penso a Rosa Parks, ma no, non c’entra niente. Penso al fatto che ho la tessera senior e che le rughe agli angoli delle labbra denunciano la mia data di nascita. Lo guardo un momento, hai visto mai che vedesse le rughe e mi lasciasse il posto! Macchè!
Pazienza, tra un quarto d’ora sarò a casa. Fuck you palestrato, goditi la seduta.
Il passante è così affollato che sembra una metro romana nelle ore di punta. Mi torna alla mente la vispa teresa che ospita i fascisti a scaccia le femministe e cambio subito pensiero. Mi giro, vedo un posto libero. Ma che è, un miraggio? Decine di persone in piedi e un posto libero!
Ahahah, ahahah, ma certo! Sono le due zingare di stamattina che tornano a casa. La gente le evita, le teme, le disprezza, le qualche cosa che non so ma comunque non le avvicina. E così trovo posto per questi pochi minuti in cui sogno una doccia e un letto.
Ah, che bello poter godere dell’altrui razzismo! Le due zingare se ne infischiano alla grande. Hanno in mano (esattamente come quasi tutti) lo smartphone e stanno conversando con qualcuno lontano. E ridono, ridono e parlano, del tutto avulse da chi le disprezza. Chissà che si dicono per ridere così di cuore. Poi la zingara più giovane mi guarda, credo sia infastidita dalla mia presenza, unica “civilizzata” che ha osato sedersi accanto a lei! No, mi guarda e mi da una pacca sulla gamba sorridendomi. Mi ha riconosciuto. Sono la stessa che stamattina s’è seduta accanto a lei sotto il sole aspettando il treno.
Sì, è esattamente così e lo capisco quando dice qualcosa alla zingara più adulta e quella muove la testa in segno di assenso e mi sorride.
Ora mi chiederanno i soldi. Di sicuro, tanto tutti mi chiedono soldi ultimamente. Aspetto.
Macché, mi sorridono e basta. 
Be’, avevo iniziato dicendovi che c’era della poesia in questo racconto, ricordate? Ebbene, ora vi chiederete ma dove cavolo sta ‘sta poesia. Eccola, è semplicemente qui, in quel sorriso che le due zingare, forse madre e figlia, ma non lo so, mi hanno regalato semplicemente per essermi seduta accanto a loro. Una volta sotto il sole e una volta sul treno.
Ah, per chi avesse avuto l’ardire di arrivare fino in fondo e ora tentasse di venirmi a criticare per il fatto di aver chiamato zingare le zingare esattamente come chiamo ciechi i ciechi, bianchi i bianchi e neri i neri, sappia – chi avesse questo ardire – che io ho un bisnonno zingaro e un bisnonno ebreo e quindi eviti di dire sciocchezze, a me, circa il politically correct che non è roba che mi riguarda.
Il disprezzo sottile, quello che è così sottile che passa inosservato, sta pure nel cambiare i nomi, come se quelli veri fossero un oltraggio. Lasciate perdere, un cieco non riprende la vista se lo chiamate “non vedente” come se la cecità fosse un insulto. E uno zingaro è uno zingaro sia che lo chiamiate rom o sinti, sia che lo chiamiate zingaro, come il Melquiades di Cent’anni di solitudine, per esempio, o come Rita Hayworth o Charlie Chaplin o Antonio Banderas, zingari anche loro. Che ci piaccia o meno è così.
E il rispetto non passa per il politically correct ma più semplicemente per un posto sul treno, e a dimostrare che rispetto c’è ci pensa un sorriso. Che poi, in una giornata nera come la pece, fa pure poesia.

Oshrat Kotler afferma in TV che l'occupazione trasforma i soldati in "animali"

Promemoria: Israele tiene ancora prigioniera a tempo indeterminato una parlamentare palestinese - Gideon Levy e Alex Levac



Ghassan Jarrar dice che la sua vita non ha senso senza Khalida. Nell’ufficio della fabbrica di giocattoli e mobili per bambini che possiede a est di Nablus, a Beit Furik, con le sedie foderate di finta pelliccia rossa, il volto dell’uomo si illumina ogni volta che parla della moglie. È detenuta in una prigione israeliana da 20 mesi, senza processo, senza imputazioni, senza prove, senza nulla. Entro due settimane, però, potrebbe finalmente essere rilasciata. Ghassan è già immerso nei preparativi: sa che potrebbe rimanere di nuovo deluso, per la quarta volta.
Khalida Jarrar è la prigioniera politica israeliana numero uno, leader delle detenute nella prigione di Damon, sul monte Carmelo, è la donna palestinese più anziana che Israele abbia imprigionato, senza essere mai stata condannata per alcun reato.
La mobilitazione per la sua liberazione è stata lunga e frustrante, con più risonanza all’estero che in Israele. Qui incontra gli intralci implacabili delle autorità di occupazione e la sorprendente indifferenza dell’opinione pubblica israeliana: la gente in Israele non si preoccupa di vivere sotto un regime che conta tanti prigionieri politici. C’è anche il silenzio delle parlamentari israeliane e il mutismo delle organizzazioni femministe.
Haaretz ha dedicato almeno cinque editoriali per chiedere che siano presentate prove a suo carico o che vada rilasciata immediatamente. Senza successo. La Jarrar è ancora detenuta senza alcuna accusa.
È finita in detenzione amministrativa – vale a dire, incarcerazione senza accuse o processo – diverse volte: la prima volta è stata arrestata il 15 aprile 2015 e condannata a 15 mesi di prigione, che ha scontato. Circa 13 mesi dopo il rilascio, è stata di nuovo sottoposta a detenzione amministrativa, rinnovata senza sospensioni per 20 mesi, a partire dalla metà del 2017: con due proroghe di sei mesi e due di quattro mesi.
L’ultima proroga arbitraria della sua detenzione si concluderà il 28 febbraio. Come al solito, fino a quel giorno nessuno saprà se verrà liberata o se la sua prigionia sarà prolungata ancora una volta, senza spiegazioni. Un procuratore militare ha promesso, al momento della proroga quasi trascorsa, che sarebbe stata l’ultima, ma non c’è modo di esserne certi. È tipico dell’occupazione e della sua arbitrarietà.
In ogni caso, Ghassan sta ridipingendo la loro casa, sostituisce i condizionatori d’aria e lo scaldabagno, appende nuove tende, pianta fiori nei vasi, ordina cibo e dolci in grande quantità, e sta organizzando l’accoglienza davanti a un checkpoint e diverse macchine per aspettarla ad altri due posti di blocco – non si può mai sapere dove verrà rilasciata esattamente. Una grande festa avrà luogo nella chiesa cattolica di Ramallah, che Ghassan ha affittato per tre giorni, l’ultimo fine settimana del mese. Eppure, resta tutta una questione fatta di se e di quando.
Promemoria: il 2 aprile 2015 le truppe delle Forze di Difesa Israeliane hanno fatto irruzione nella casa della famiglia Jarrar a El Bireh, vicino Ramallah, e hanno rapito Khalida, membro del Consiglio Legislativo Palestinese.
È stata posta in detenzione amministrativa. Sulla scia delle proteste internazionali contro l’arresto da parte di Israele di una parlamentare democraticamente eletta senza alcuna accusa, le autorità di occupazione hanno deciso di processarla. Ha ricevuto 12 capi d’accusa, tutti assolutamente grotteschi, compreso il sospetto di aver visitato le case delle famiglie dei prigionieri, di aver partecipato a una fiera del libro e di aver chiesto il rilascio di Ahmad Saadat, un leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina in prigione da anni.
Il foglio d’accusa contro la Jarrar – un’oppositrice all’occupazione, una femminista determinata e un membro del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina – un giorno servirà come prova schiacciante del fatto che non c’è il minimo nesso tra “giustizia militare” e legge e giustizia effettiva.
L’estate del 2015, l’abbiamo vista nel tribunale militare di Ofer, orgogliosa e solenne, mentre le sue due figlie, Yafa e Suha, tornate dai loro studi in Canada dopo l’arresto della madre, piangevano amaramente insieme al padre nei banchi in fondo all’aula. Nessuno è rimasto indifferente quando le guardie hanno permesso alle due figlie di andare ad abbracciare la madre, in un raro momento di grazia e umanità, mentre il padre continuava a piangere dietro di loro. Una scena indimenticabile.
Tre mesi fa, Khalida è stata trasferita, con altre 65 prigioniere palestinesi, dalla struttura di detenzione di Sharon a Damon, dove le condizioni sono più dure: le autorità di Damon non hanno esperienza nel trattare con le donne e i loro specifici bisogni, dice Ghassan. Le docce sono lontane dalle celle e, quando le detenute hanno le mestruazioni, il liquido rossastro scorre nel cortile mettendole in imbarazzo. Ma allo stesso tempo, dice, le autorità carcerarie rispettano lo stato di salute di Khalida: soffre di un problema di coagulazione del sangue e ha bisogno di farmaci e test settimanali, che riceve regolarmente nella sua cella.
“Sei il mio tesoro” è la frase incisa su alcuni dei giocattoli in pelliccia sintetica nella sala di produzione di Beit Furik. Ci sono i pupazzi di Topolino e di altri personaggi del mondo dei cartoni animati, con colori audaci, accanto a sedie e lampade imbottite per le camerette dei bambini, tutte disegnate da Ghassan, e tutte espressione di una dolce innocenza e creatività. Ha dedicato molto meno tempo alla sua fabbrica dopo l’incarcerazione della moglie. Dei 19 dipendenti che aveva, ne son rimasti solo sette, tra loro una donna sorda, una lavoratrice eccezionale. C’è un negozio di falegnameria, un centro di tappezzeria e un laboratorio di cucito, sotto lo stesso tetto. Ghassan vende la maggior parte dei suoi prodotti in Israele, anche se per anni gli è stato negato l’ingresso nel paese.
Ora la sua mente è focalizzata sul rilascio della moglie. L’ultima volta che l’ha visitata in prigione è stato un mese fa, 45 minuti al telefono separati da un vetro blindato. Durante i mesi di prigionia, la Jarrar è diventata un’esaminatrice ufficiale agli esami di maturità per il Ministero della Pubblica Istruzione palestinese. I documenti degli esami vengono portati in prigione dalla Croce Rossa Internazionale. Tra i tanti diplomati, Ahed Tamimi e sua madre Nariman. Questa settimana Ahed ha chiamato Ghassan per chiedergli quand’è prevista la liberazione di Khalida. La chiama “mia zia”.
L’orologio sul muro dell’ufficio di Ghassan si è fermato. “Tutto è privo di significato per me senza Khalida”, dice. “La vita non ha significato senza Khalida. Il tempo si è fermato quando Khalida è stata arrestata. Khalida non è solo mia moglie. Lei è mio padre, mia madre, mia sorella e mia amica. Respiro Khalida invece dell’aria. Venti mesi senza significato. Anche il mio lavoro non ha senso”.
Una telefonata d’affari interrompe questa poesia d’amore, chiaramente sincera e dolorosa. Cosa accadrà se non verrà rilasciata, ancora? “Aspetterò altri quattro mesi. Niente mi spezzerà. Non lascio che qualcosa mi distrugga. Questa è la mia filosofia, nella vita. Mi ha sempre aiutato”.
Anche Ghassan ha trascorso 10 anni della sua vita in una prigione israeliana. Come sua moglie, è stato accusato di essere attivo nel FPLP.
Nel frattempo, la loro figlia maggiore, Yafa, 33 anni, ha completato il suo dottorato in giurisprudenza all’Università di Ottawa ed è impiegata in uno studio legale canadese. Suha, 28 anni, è tornata dal Canada dopo aver completato, lì e in Gran Bretagna, laurea e master in studi ambientali. Sta lavorando per l’organizzazione per i diritti umani di Ramallah, “Al-Haq”, e vive con suo padre.
Entrambe le figlie sono impegnate nella campagna pubblica per la liberazione della madre, soprattutto attraverso i social network. Khalida era in prigione quando Yafa ha sposato un avvocato canadese. Ghassan ha invitato tutta la famiglia e i suoi amici a guardare la cerimonia nuziale, che si stava svolgendo in Canada, su un grande schermo in diretta via internet. Anche a Ghassan è proibito andare all’estero.
Durante l’ultimo arresto di Khalida, ricorda il marito, i soldati dell’IDF e gli agenti del servizio di sicurezza Shin Bet hanno fatto irruzione in casa con la forza, nel cuore della notte. Sono entrati nella stanza di Suha e l’hanno svegliata. Lui ricorda le sue urla, in preda al panico, alla vista dei fucili branditi nella sua camera da letto da strani individui, col viso coperto da maschere nere, e di come i soldati l’abbiano ammanettata da dietro. Mentre Ghassan rivive la scena nella sua mente e ricorda le urla della figlia, appare sconvolto, come se fosse successo proprio questa settimana.
Non sapendo cosa i soldati le stessero facendo, e sentendone solo le urla, ha cercato di andare a salvare la figlia, ricorda. Dice che i soldati l’hanno quasi ucciso per aver tentato di farsi strada verso la camera da letto di Suha.
Dopo che i soldati hanno preso Khalida, impedendo persino a Ghassan di baciarla, nonostante l’avesse chiesto, ha trovato la figlia incatenata con manette di plastica. Una volta liberata, voleva correre in strada per seguire i soldati e la madre prigioniera. Lui l’ha bloccata e allora lei è corsa al balcone di casa e ha cominciato a urlare istericamente, a gridare di rabbia senza freni.
Lo scorso sabato ricorreva il 56° compleanno di Khalida. Non era il primo compleanno trascorso in prigione, forse neanche l’ultimo. La faccia di Ghassan si illumina di gioia quando parla del compleanno di sua moglie. Fa parte di un gruppo su WhatsApp chiamato “Migliori amici” e dedicato a Khalida. Hanno pubblicato la sua foto preferita: indossa una camicetta viola e alza le braccia in alto nella sala del tribunale di Ofer. I membri del gruppo si sono congratulati con lui. Umar ha citato una poesia su un prigioniero, seduto nella sua cella in totale oscurità, incapace persino di vedere la propria ombra. Hidaya ha scritto qualcosa sulla libertà. Khamis ha scritto un tradizionale saluto di compleanno e Ghassan ha riassunto: “Sei la sposa della Palestina, ti rinnovi ogni anno. Tu sei la corona sulla mia testa, al-Khalida, l’eterna”.