giovedì 31 maggio 2018

ITALIA MATTARELLA, EUROPA PARANOICA - Gian Luigi Deiana



per ragionare con un minimo di senno sul pasticcio italiano dovremmo metterci per cinque minuti dal punto di vista di un extraterrestre, assumendo “tutte” le ragioni in campo come relative e “nessuna” di esse come assoluta; se proviamo ad elencarle una a una infatti appaiono l’una più irrinunciabile dell’altra, ma in realtà la loro irrinunciabilità è tale soltanto all’interno del rispettivo schema di riferimento: risultati elettorali, prerogative istituzionali, trattati internazionali, unità monetaria, regole europee, stabilità finanziaria ecc.: e in estrema sintesi, 1, espressione democratica, 2, osservanza europea, 3, primato dei mercati; è vero che sarebbe bene rendere compatibili le diverse irrinunciabilità, ma per fare questo sarebbe necessario rendere compatibili i diversi piani di riferimento, per esempio i principi costituzionali di ciascun paese con una forma costituzionale comune costruita democraticamente, e così i sistemi fiscali, i regolamenti bancari ecc., ma curiosamente l’intero meccanismo si regge proprio sull’esatto contrario, cioè sulla incompatibilità dei piani, sul pre-dominio di alcuni di questi su tutti gli altri e quindi su una compatibilità forzata e apparente che a breve, se si continua così, farà saltare tutto, e quel che è peggio farà saltare tutto verso risoluzioni reazionarie; infatti la meravigliosa unione europea è forse l’unico sistema di strapotere al mondo a reggersi su fondamenti e su istituzioni privi di espressione democratica del consenso, e quando un sistema di questo genere salta, salta in modi incontrollabili;
il caso mattarella, ennesimo botto del versante italiano del vulcano, non è solo un botto di un giorno, è invece una bocca eruttiva dall’evoluzione imprevedibile e potenzialmente catastrofica; quel che è peggio è che i pro e i contro sul recente operato presidenziale si stanno affrontando in modo equivoco e quindi di fatto non sanno l’un l’altro di cosa stanno discutendo; infatti l’atto compiuto dal presidente della repubblica è soggetto non ad un pro e ad un contro (ha fatto bene-ha fatto male) ma a un doppio pro e a un doppio contro; il primo pro o contro è questo: il presidente può far pesare “politicamente” la prerogativa affidatagli dall’art. 92 della costituzione (la nomina dei ministri)?; risposta 1: sì-no; il secondo pro o contro è quest’altro: ammesso che la prerogativa di cui all’art. 92 possa essere fatta pesare “politicamente” (il veto su savona) nel caso concreto era davvero questa la scelta “politicamente” più avveduta per il prossimo futuro? risposta 2: sì-no;
alla prima questione si deve rispondere no, per il fatto che il presidente della repubblica “può” negare la nomina di un ministro, se vi sono elementi ostativi ad personam, ma “non può” dettare condizioni politiche al governo; può avanzare rilievi di costituzionalità sul programma, per es. sulle coperture di spesa o sui trattati internazionali, ma questi rilievi riguardano il presidente del consiglio e non possono essere scaricati in forma di veto ad personam su un candidato ministro; quindi ci troviamo qui di fronte ad un precedente molto grave: un qui pro quo esumato scientemente, del costo contabile di elezioni che si dovranno rifare, di un costo spread che ha doppiato in otto ore quello realizzato in alcune settimane dall’accordo lega-cinquestelle, e che per effetto indotto ha portato alla degenerazione più nauseabonda i commentatori più in voga;
alla seconda questione si deve rispondere con una certezza, che a breve ci saranno sicuramente nuove elezioni, e per di più con questa medesima legge elettorale, e in secondo luogo si deve rispondere prevedendo realisticamente il più probabile esito di queste: se lega e cinque stelle andassero benissimo e se riproponessero savona o chi per lui al ministero dell’economia, mattarella avrebbe davanti a sé tre possibilità, una più catastrofica dell’altra: 1, far valere di nuovo l’art. 92 e rimandare di nuovo tutto a ulteriori nuove elezioni; 2, accettare la proposta savona e nicchiare come anatra zoppa e sorda fino a fine mandato; 3, dimettersi e lasciare il paese nel caos; e se questo tragico terno dovesse giocarsi nella giostra di una manovra speculativa su larga scala saremmo a breve tutti morti: scacco matto, anzi scacco mattarella per tutti;
quindi mattarella, pur potendosi avvalere della prerogativa di discutere a fondo le condizioni politiche sovraordinate al programma di governo, non poteva mettere su savona un veto “politico”; e se pure un tale atto fosse costituzionalmente corretto esso sarebbe comunque politicamente irresponsabile, in quanto finisce inevitabilmente per esasperare lo stato di confusione, mostrare all’europa le mutande della nazione ed esibire senza velo ai mercati quello che c’è sotto le mutande; ad ardauli ci sono circa settecento persone che il presidente lo saprebbero fare con un po’ più di attenzione;
tuttavia, se veniamo al sodo nel gioco di irrinunciabilità e di compatibilità delle ragioni, le ragioni che non scendono a compromessi sono costituite appunto dai mercati e dall’europa; i mercati stanno sopra, in una condizione perennemente fantomatica che usa esprimersi soltanto per via oracolare tramite i vati della finanza, e l’europa sta sotto, in una condizione istituzionale circoscritta in un sinedrio di squallidi sommi sacerdoti (moscovici, kataaineen ecc.);
che i mercati esistano per stare sempre in caccia è nella loro natura; ma l’europa non esiste per fare il cane da caccia a servizio di un tal genere di cacciatore, esiste proprio per controllare l’esercizio della sua caccia; questo cane di servizio non è l’europa mia e tua, ed è normale che io e te come tutte le sue possibili prede lo si voglia morto; l’europa è un’altra cosa, talmente tanto un’altra cosa che i veri antieuropeisti sono proprio gli osservanti addetti a imbonire le democrazie (di cui mattarella e rajoi sono oggi i campioni più rappresentativi), e sopra di essi il sinedrio sovranazionale stesso, quello che usa i debiti pubblici come strumento di usura; e che i veri europeisti sono quelli che si stanno sollevando per ripulire da questa impostura il piccolo continente che è alla fine è la loro casa.


La narrazione capovolta delle migrazioni - Fulvio Vassallo Paleologo





Il “surriscaldamento” del clima politico sta riproponendo l’ennesimo capovolgimento della narrazione dei fatti concernenti le più importanti questioni di politica estera e interna, con particolare riferimento ai temi della migrazione e dei rapporti con i paesi terzi, ai quali si affida da tempo il compito di intercettare i migranti e impedire che possano raggiungere l’Europa. Si enfatizzano anche gli ultimi soccorsi in mare, oltre 4.000 persone salvate negli ultimi giorni, per rilanciare l’allarme su una invasione che non si vede, ma che serve per aumentare il consenso elettorale. E dietro gli allarmi per gli “sbarchi” si ripropongono gli attacchi contro le Organizzazioni non governative, accusate ancora una volta di agevolare il traffico di esseri umani, malgrado le  reiterate decisioni della magistratura giudicante, che qualifica la Libia come un paese privo di luoghi sicuri di sbarco.
Siamo in guerra. Prima era guerra contro i migranti, ai quali si voleva impedire di raggiungere le nostre coste, sia pure per presentare una richiesta di protezione, e che in territorio italiano venivano additati come il “nemico interno”, una guerra che avevamo previsto si sarebbe presto estesa all’intero corpo sociale. Poi è stata guerra, piuttosto che alle povertà, ai poveri, ai giovani senza lavoro, alle classi economicamente più deboli, mentre il divario sociale all’interno della nostra società si ampliava giorno dopo giorno. L’intera campagna elettorale, ed i tentativi di formare un nuovo governo si sono giocati su uno scarto crescente tra promesse, come l’espulsione di oltre 600.000 “clandestini”, e gli obiettivi effettivamente realizzabili. Neppure Frontex sarà in grado di garantire una minima parte di queste espulsioni. Sarà ben difficile che le regioni, anche quelle a guida leghiste, accettino l’apertura di decine di centri di detenzione per irregolari sul loro territorio. I paesi terzi chiederanno cifre impossibili per garantire qualche centinaio di rimpatri con accompagnamento forzato all’anno, ma tutto questo viene tenuto nascosto all’opinione pubblica. Vedremo come e quando l’Unione Europea troverà davvero le risorse per finanziare paesi falliti come la Libia o quello che ne rimane.  Il modello dell’accordo UE-Turchia non è replicabile con le autorità di Tripoli e Bengasi, che dipendono da decine di milizie in conflitto tra loro.
Adesso è guerra di tutti contro tutti, di fronte a una crisi finanziaria senza fondo, indotta anche dai devastanti attacchi che i partiti vincitori delle ultime elezioni hanno rivolto al nostro sistema costituzionale. Come succede in questi passaggi storici, come è successo nel secolo scorso, la prima vittima di questo scontro è la verità, manipolata da ciascuna delle parti in lotta per dimostrare la fondatezza delle proprie posizioni e per raccogliere maggiori consensi. Lo sbocco di questo tipo di crisi può consistere in una svolta autoritaria, magari con l’avallo di un vasto consenso elettorale. I diritti di cittadinanza e le prestazioni sociali non possono essere oggetto di scambio con i diritti umani e con i diritti di libertà sanciti dalle Costituzioni democratiche e dalle Convenzioni internazionaliGli accordi con gli stati per “combattere l’immigrazione irregolare” non possono violare i diritti fondamentali che spettano a tutti gli esseri umani, ovunque siano nati e ovunque si trovino.

In queste giornate di grande confusione istituzionale occorre ricordare come la “questione Libia” abbia pesato in modo determinante sul posizionamento della politica estera italiana, prima con gli accordi tra Berlusconi e Gheddafi, e poi nel costante tentativo dei governi Renzi e Gentiloni, di inserire il governo di Tripoli nell’ambito dei processi di esternalizzazione delle frontiere, “benedetti” dai vertici dell’Unione Europea, soprattutto dopo l‘Agenda europea sulle migrazioni del 2015. Una scelta che è costata migliaia di vittime in mare, ed a terra, nei lager libici, senza distinzioni possibili tra i centri governativi e quelli gestiti dalle milizie. Una “Agenda” che mirava a ricacciare indietro i migranti in fuga dalla Libia, anche se veniva all’indomani della più grande tragedia del Mediterraneo, con oltre 800 vittime. Da allora un primo ribaltamento del senso della narrazione, dopo tante vittime, piuttosto che aprire canali legali di ingresso e missioni di soccorso in acque internazionali, la scelta di insistere sugli accordi per il respingimento dei migranti in mare e per incrementare i rimpatri forzati e il numero dei centri di detenzione amministrativa. Accordi che sono stati conclusi con autorità di governo e milizie, come si è verificato in Libia, che non hanno certo garantito i diritti umani ed i corpi delle persone che venivano intercettate prima del loro arrivo in Italia.
Adesso l’iniziativa del governo Macron, con la Conferenza di Parigi che si è svolta oggi, aggiunge altra confusione ad una situazione che sembra sfuggire di mano a tutti gli attori internazionali presenti sulla scena libica. Una partita alla quale non sono estranei gli interessi delle grandi potenze (Russia, Cina e Stati Uniti) che hanno tutto l’interesse a ridimensionare il ruolo dell’Unione Europea. La questione libica andava e va risolta a livello di Nazioni Unite e non saranno certo appuntamenti “regionali” come il vertice di Parigi, per sbloccare processi di riconciliazione che appaiono, allo stato dei risultati del vertice parigino, sempre più incerti. È mancata del tutto una politica estera comune dei diversi paesi appartenenti all’Unione Europea, ed il vertice di Parigi ne costituisce una ennesima conferma. In Libia si profila un’altra guerra, anche se raccontano di elezioni già stabilite per il mese di dicembre.
Di certo appare sconfitta la politica di “normalizzazione” della Libia, portata avanti dall’Italia sulla base di relazioni bilaterali, come il Protocollo d’intesa del 2 febbraio 2017, e poi intensificata con gli accordi con la Guardia costiera libica e con l’invio di ONG italiane in alcuni centri di detenzione libici. Malgrado il forte calo degli sbarchi, i corpi dei migranti che ancora continuano ad arrivare dalla Libia testimoniano il fallimento di una intera politica basata sugli accordi con milizie di incerta provenienza e sulla delegittimazione delle attività di soccorso in acque internazionali. Eppure la narrazione continua ad essere rovesciata, e nelle dichiarazioni del nostro ambasciatore a Tripoli sembrerebbe che i risultati positivi siano ormai a portata di mano, e che l’unico problema sia costituito dalle ONG.  Si vantano successi inesistenti sia dal punto di vista del contenimento degli “sbarchi”, che sotto il profilo del rispetto dei diritti umani in Libia. Una valutazione smentita frontalmente dai più recenti rapporti delle Nazioni Unite. Mentre l’ambasciatore italiano a Tripoli dichiarava ieri che senza una Costituzione generalmente condivisa in Libia non si può andare alle elezioni, dalla Conferenza di Parigi arriva un segnale nettamente opposto che lo smentiva. Mentre Salvini ribadisce la chiusura dei porti italiani.
Sul piano del governo delle migrazioni a livello nazionale appare evidente come i tentativi di demolire il diritto di asilo, di ampliare i tempi e gli spazi di detenzione amministrativa per i migranti irregolari, di criminalizzare le attività delle ONG rendendo sempre più difficili le attività di ricerca e soccorso nelle acque del Mediterraneo centrale, tentativi già portati avanti da Minniti, saranno rinnovati ed inaspriti nei prossimi mesi, anche nell’immediato, a livello di apparati dello stato che non rispondono ad un governo nel pieno dei poteri. Una situazione gravissima che può anticipare una svolta autoritaria che, dopo avere colpito i migranti, potrebbe estendersi a tutti i cittadini italiani. Dietro l’apparente moderazione di Salvini si celano proposte che quando saranno operative comporteranno una sostanziale restrizione delle garanzie e dei diritti di libertà previsti dalla Costituzione.

Anche sul terreno interno il capovolgimento di senso della narrazione che riguarda i migranti è totale. La libertà dei mezzi di informazione è sempre più condizionata, neppure la Guardia costiera italiana comunica dei soccorsi in atto con le stesse modalità adottate negli anni precedenti, la Marina militare tace sulle attività di coordinamento svolte da Tripoli. Scompare dalle cronache il default del sistema di accoglienza basato sui CAS ( Centri di accoglienza straordinaria) convenzionati con le Prefetture, si nasconde lo sfruttamento sistematico al quale sono sottoposti i lavoratori e le lavoratrici migranti, mentre si esaltano gli episodi di criminalità che diventano pretesto per giustificare vere e proprie campagne d’odio.
Le proposte contenute nel “Contratto di governo” in materia di asilo ed immigrazione hanno un contenuto fortemente discriminatorio, con una rappresentazione delle migrazioni tutta incentrata sulla “sicurezza”. Si prevede un trasferimento di risorse dal sistema di accoglienza alle procedure di espulsione forzata che prelude ad una moltiplicazione della condizione di “clandestinità”, ed a una diffusa conflittualità sui territori. Si nasconde che l’Italia ha adottato politiche di sbarramento per corrispondere alle richieste sempre più pressanti giunte da Bruxelles con i Migration Compact, sperando in un allentamento delle regole stabilite dal Regolamento Dublino. Si sperava anche che il “buon lavoro” fatto dal ministro Minniti con le autorità di Tripoli fosse ricompensato da un allentamento dei vincoli di bilancio stabiliti da Bruxelles. Un’attesa che è andata delusa. Mentre continuano i respingimenti alle frontiere interne (come a Ventimiglia) e i trasferimenti in Italia di richiedenti asilo denegati da altri paesi europei. Adesso Salvini chiede all’Europa di cambiare, ma ancora in peggio, le regole stabilite dall’Unione Europea, e la prima vittima designata di queste richieste sono proprio i richiedenti protezione internazionale. Il leader leghista insiste su dati visibilmente falsificati.

La narrazione capovolta delle migrazioniè cominciata da tempo, con gli attacchi alle ONG, ma i residui brandelli di libera informazione o le associazioni e le Organizzazioni non governative sono state in grado di restituire verità alle vittime di queste politiche ed chi voleva andare oltre i resoconti ufficiali. Malgrado tutto, anche sul piano della difesa legale, si è riusciti a contrastare efficacemente prassi illegittime che venivano applicate nell’esame delle domande di protezione e nella organizzazione dei voli di rimpatrio. Si è arrivati anche ad importanti sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea per censurare norme interne che penalizzavano il soggiorno irregolare ed estendevano a 18 mesi la detenzione amministrativa. Come vorrebbe fare adesso la Lega di Salvini. Questa Europa ha imposto regole democratiche che un governo nazionale voleva trasgredire. Si sta determinando oggi un tale concentramento di poteri in capo ai leader dei partiti populisti, che potrebbe ripercuotersi sull’assetto del governo e sulle scelte parlamentari, anche attraverso il ricorso ai decreti legge, in settori, come l’immigrazione e l’asilo, nei quali la “narrazione capovolta” ha già prodotto effetti devastanti a livello di consenso elettorale.
Non si vedono ancora all’orizzonte formazioni politiche sufficientemente forti da contrastare in parlamento una maggioranza che contrappone i diritti umani ai diritti di cittadinanza, ed individua nei migranti il capro espiatorio di tutto il malessere sociale. Il compito di contrastare la “narrazione capovolta” contro i migranti, e chi li assiste, in terra o in mare, passa dall’impegno quotidiano di tante persone in carne ed ossa, capaci di vivere questo tempo senza accettare le ricorrenti mistificazioni ed i continui richiami alla logica del nemico. L’aggregazione di queste persone attorno alle associazioni ed alle ONG sotto attacco dovrà costituire nuclei di resistenza a livello territoriale, anche in sinergia con gli enti locali che si renderanno disponibili. Comunque si arrivi ad un governo che metta al centro la questione migrante in chiave sicuritaria per garantirsi consenso, la difesa dei diritti dei migranti coinciderà con la difesa dello stato di diritto e della democrazia in Italia.

Il Paese è altrove, finiamola con le geremiadi - Marco Revelli



Da oggi, come si suol dire, «le chiacchiere stanno a zero». Nel senso che le nostre parole (da sole) non ci basteranno più. D’ora in poi dovremo metterci in gioco più direttamente, più “di persona”: imparare a fare le guide alpine al Monginevro, i passeur sui sentieri di Biamonti nell’entroterra di Ventimiglia, ad accogliere e rifocillare persone in fuga da paura e fame, a presidiare campi rom minacciati dalle ruspe. Perché saranno loro, soprattutto loro – non gli ultimi, quelli che stanno sotto gli ultimi – le prime e vere vittime di questo governo che (forse) nasce.
Dovremmo anche piantarla con le geremiadi su quanto siano sporchi brutti e cattivi i nuovi padroni che battono a palazzo. Quanto “di destra”. O “sovranisti”. Forse fascisti. O all’opposto “neo-liberisti”. Troppo anti-europeisti. O viceversa troppo poco, o solo fintamente. Intanto perché nessuno di noi (noi delle vecchie sinistre), è legittimato a lanciare fatwe, nel senso che nessuno è innocente rispetto a questo esito che viene alla fine di una lunga catena di errori, incapacità di capire, pigrizie, furbizie, abbandoni che l’hanno preparato. E poi perché parleremmo solo a noi stessi (e forse non ci convinceremmo nemmeno tanto). Il resto del Paese guarda e vede in altro modo. Sta già altrove rispetto a noi.
Forse resta dubbioso sulla realizzabilità dei programmi, forse indugia incerto per horror vacui, ma non si sogna neppure di usare le vecchie etichette politiche del Novecento per qualificare un evento fin troppo nuovo e nel suo contenuto sociale inedito, come inedita è la struttura della società in cui è maturata la svolta.
Il fatto è che questo governo è la diretta espressione del voto del 4 di marzo. E che quel voto ha costituito e rivelato non un semplice riaggiustamento negli equilibri politici, ma un terremoto di enorme magnitudine, una vera apocalisse culturale, politica e sociale. Piaccia o non piaccia (a me personalmente non piace) ma questa coalizione giallo-verde esprime – per quanto sia esprimibile – il messaggio emerso più che maggioritariamente dalle urne. Traduce in termini istituzionali l’urlo un po’ roco che veniva dalle due metà dell’Italia, e che diceva, con toni e sotto colori diversi, che come prima non si voleva e non si poteva più continuare. Che non se ne poteva più. E che quegli equilibri andavano rotti.
Fosse solo l’asse tra Cinque stelle e un Pd de-renzizzato avrebbe potuto corrispondere a quegli umori (e malumori), ma la presenza ingombrante del cadavere politico di Matteo Renzi in campo dem l’ha reso impossibile. Non certo un governissimo con tutti dentro, avrebbe potuto farlo. O un governo del Presidente. Che avrebbero finito per generare una gigantesca bolla di frustrazione e rancore da volontà tradita, velenosa per la democrazia quant’altra mai. Cosicché non restava che questo ibrido a intercettare i sussurri e le grida di una composizione sociale esplosa, spaesata e spaventata come chi abiti un paesaggio post-catastrofico, geneticamente modificato da una qualche mutazione di stato.
Ed è questo il secondo punto su cui riflettere. Questo nostro trovarci a valle di una «apocalisse» come l’ho chiamata, pensando all’accezione in cui Ernesto De Martino usava l’espressione «apocalisse culturale». Cioè una «fine del mondo» (questo era il titolo del suo libro). Anzi, la fine di un mondo. Che è appunto la nostra condizione. Perché un mondo è davvero finito. È andato in pezzi: il mondo nel quale si sono formate pressoché tutte le nostre categorie politiche, e si sono strutturate tutte le nostre pregresse identità, dalla destra alla sinistra, e si sono formalizzati i nostri linguaggi e concetti e progetti. Nessuna di quelle parole oggi acchiappa più il reale. Nessuno di quei modelli organizzativi riesce a condensare un qualche collettivo. Nessuna di quelle identità sopravvive alla prova della dissoluzione del “Noi” che parte dal default del lavoro e arriva a quello della democrazia.
Continuiamo testardamente a cercar di cacciare dentro il cavo vuoto dei nostri vecchi concetti i pezzi di una realtà che non vuol prenderne la forma e si ribella decostruendosi prima ancor di uscire di bocca. Continuiamo a sognare la bella unità tra diritti sociali e diritti umani universali che il movimento operaio novecentesco aveva miracolosamente realizzato, e non ci accorgiamo che non sono più “in asse”. Che oggi i primi sono giocati contro i secondi, da questo stesso governo che a politiche feroci sul versante della sicurezza – alla negazione dei diritti umani – associa un’attenzione alle politiche sociali (per lo meno per quanto riguarda il loro riconoscimento nel programma) sconosciuta ai precedenti.
Liquidiamo come «il più a destra, in tutta la storia della Repubblica» questo governo (non è che il governo Tambroni nel 1960 o quelli Berlusconi-Fini della lunga transizione scherzassero…), senza riflettere sul fatto che i due partiti che lo compongono hanno in pancia una bella percentuale di elettorato “di sinistra” (un buon 50% i cinque stelle, un 30% o giù di lì la Lega). Mentre pressoché tutta la stampa “di destra” (da Vittorio Feltri a quelli del Foglio e del Giornale), i quotidiani mainstream, gli opinion leaders “di regime” (pensiamo a Bruno Vespa), le agenzie di rating, i Commissari europei, ostenta pollice verso. Qualcosa evidentemente si è rotto nei meccanismi della nostra produzione di senso.
D’altra parte nemmeno il popolo è più quello di una volta: il popolo dei populismi classici, unità morale portatrice di virtù collettive, unito a coorte e pronto alla morte. È al contrario una disseminazione irrelata di individualità. L’ha mostrato perfettamente la ricerca su «Chi è il popolo» realizzata da un gruppo di giovani ricercatori nelle nostre periferie e presentata sabato scorso a Firenze: il tratto comune a tutte le interviste era l’assenza di denominatori comuni. La perdita del senso condiviso della condizione e dell’azione. La scomparsa dall’orizzonte esistenziale del conflitto collettivo, in un quadro in cui l’unica potenza sociale riconosciuta, l’unico titolare del comando, è il denaro, inattingibile nella sua astrattezza e quindi incontrastabile.
Se un nome vogliamo dargli, è “moltitudine”, non tanto nel senso post-operaista del termine, come nuova soggettività antagonistica, ma in senso post-moderno e post-industriale: l’antica «classe» senza più forma né coscienza. Decostruzione di tutte le aggregazioni precedenti. In qualche misura «gente»… Cosicché anche i populismi che si aggirano, nuovi spettri, per il mondo sono populismi anomali: populismi senza popolo.
Per questo è bene rimetterci in gioco «in basso». Nella materialità della vita comune. Corpi tra corpi. A imparare il nuovo linguaggio di un’esperienza postuma. Lasciando da parte, almeno per il momento, ogni velleità di rappresentanza che non riuscirebbe a essere neppure rappresentazione.

mercoledì 30 maggio 2018

Mattarella ha fatto il suo dovere? - Mauro Scardovelli

quando incontri tre bimbette rom sulla tua strada… - baruda



Un incontro inaspettato, bello e doloroso. Come ogni mercoledì abbiamo passato la mattinata in day hospital al Bambin Gesù Palidoro. Poi io Jenny e Sirio torniamo verso casa su strade di campagna, che si inseriscono a Roma nel quadrante portuense-corviale, dove la città ha le sue pecore, i suoi campi e luoghi strani.
Al ponticello dopo Ponte Galeria (a pochi passi da dove venne uccisa e bruciata viva quella ragazza poco tempo fa), vedo dall’altra parte della strada tre bimbette rom che si sbracciavano chiedendo un passaggio ad un autista di un autobus, che ovviamente NON si è fermato.
Ho fatto inversione a U senza pensarci un secondo e mi sono accostata accanto a loro chiedendo di cosa avessero bisogno.
La più grande, che avrà avuto 8 anni a dir tanto ci è venuta subito al finestrino chiedendoci un passaggio a casa.
“Salite tutte e tre, vi mettete dietro con Sirio”
“Davvero signora bella porta tutte a casa al campo?”
“Certo piccolè, salite su”
“No sesso signora eh, solo a casa!”
Gelo.
Non riuscivo più a proferire parola.
Tre bambine tra i 5 e gli 8 anni che chiedono aiuto sperando di non ricevere come risposta la richiesta di un pompino.
Quel brivido lo porto ancora dentro, malgrado la gioia di portarle al campo, e di vederle sporgersi dal finestrino della mia macchina urlando FELICI e chiamando tutte le loro amiche per vantarsi di quell’arrivo in grande stile
Un orrore che non passa:
la bellezza di quegli occhi che non mi lascia, e l’idea tremenda di quel che avranno già visto.


QUESTA STORIA HA UN SECONDO CAPITOLO:

Il giorno dopo
Ieri vi ho raccontato dell’incontro con le tre bambine rom e che mi ha lasciato un pesante amaro in bocca.
A nemmeno 24 ore , oggi esco dalla Conad e sento “signora capelli rosa!”
Mi giro, e mi trovo il ragazzone che spesso chiede cibo o soldi fuori al supermercato e con cui avevo sempre scambiato solo un veloce saluto o un passaggio di qualche panino. “Tu ieri hai portato al campo tre bambine?”
“Sì, ero io”
“Grazie. La famiglia di quelle bambine non si comporta bene, le lascia abbandonate per strada e non è giusto. Anche io vivo al campo ma quando i miei genitori sono a lavorare e non possono controllare i piccoli ci rimango io coi miei fratelli. Grazie signora, che chissà chi poteva prendersele.
Sai, l’altro giorno mia zia a quella fermata cosa ha vissuto? Era stata tutto il giorno a lavorare, mica a rubare, e alla fermata un tipo si è fermato dopo una sgommata, si è calato i pantaloni e le ha pisciato quasi addosso. Scusa se ho detto questa parolaccia.
Grazie ancora ragazza dai capelli rosa”
“Mi chiamo Valentina”.

Il gran rifiuto di Mattarella e la crisi delle democrazie - Francesco Gesualdi


I provvedimenti discriminatori e persecutori contro gli immigrati, aggiunti alla flat tax che avrebbe aggravato le disuguaglianze, per me erano e restano scelte inaccettabili che inficiano l’intero programma presentato da M5S e Lega, che eppure contiene elementi condivisibili. Ma la scelta del Presidente della Repubblica di non accettare Paolo Savona come ministro dell’economia, rappresenta una grave ferita per la democrazia. Le ragioni addotte da Mattarella per rifiutare la sua firma sotto quel nome sono che “la designazione del ministro dell’economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari”. Ed ha continuato “ho chiesto per quel ministero la designazione di un esponente politico della maggioranza che non sia visto come sostenitore di una linea che potrebbe provocare, probabilmente o inevitabilmente, l’uscita dell’Italia dall’euro”.
Tradotto, Mattarella ha detto che siamo tutti dei vigilati speciali e che l’ultima parola sul tipo di governo che si deve insediare nei singoli paesi l’hanno i mercati che attraverso le loro scelte di acquisto o di vendita di valute e titoli del debito pubblico possono decretare la vita a la morte delle economie nazionali. E a sottolineare come il potere di banche, assicurazioni e fondi di investimento sia assoluto, nel senso che non c’è modo di portare il mercato ad alcun tavolo di negoziazione, Mattarella ha usato l’aggettivo ”immediato”. Come dire: il mercato osserva, ascolta e reagisce immediatamente ora per salvaguardare i propri capitali, ora per creare condizioni propizie ai propri calcoli di guadagno. Non a caso la sua richiesta era che venisse proposto un altro nome percepito dai mercati come meno dirompente di Paolo Savona.
Diciamolo con chiarezza: Paolo Savona è un economista di sistema convinto sostenitore del mercato e della crescita, che non mette in discussione l’obbligo dello stato a pagare i suoi creditori. Però è altrettanto persuaso che per rilanciare l’economia italiana bisogna spendere di più come cittadini e come stato. Di qui il suo sostegno ad un pacchetto economico che al tempo stesso prevede riduzione delle tasse ed espansione della spesa pubblica. Una possibilità che oggi è preclusa dai rigidi parametri di Maastricht che in nome della stabilità dell’euro pongono limiti molto stretti alla possibilità di fare altro debito. Di qui l’affermazione di Savona che se non funziona il piano A, bisogna avere di riserva il piano B che prevede l’uscita dall’euro per recuperare piena sovranità sulle politiche monetarie, fiscali e di bilancio.
In termini di obiettivi economici personalmente sono su posizioni diverse rispetto a quelle di Savona. Credo che il nostro obiettivo non debba essere la crescita, ma una distribuzione più equa della ricchezza e una riconversione ecologica della produzione e del consumo, in una logica di inclusione lavorativa che passa al tempo stesso tramite una riduzione dell’orario di lavoro e di più stato per la fornitura di servizi pubblici e tutela dei beni comuni. Il grande macigno che blocca la strada di questo percorso è un debito pubblico verso privati che sottrae risorse enormi alla collettività. Per questo credo che la grande battaglia debba essere condotta per liberarci dal debito, senza fare pagare i più deboli. Che significa aprire un contenzioso con i mercati ancora più acuto di quello aperto dall’ipotesi di uscire dall’euro finalizzato a raggiungere meglio gli obiettivi di sistema.
In conclusione, che si persegua un obiettivo o l’altro, la necessità di recuperare tutti gli strumenti che permettono ai governi di esercitare a pieno la loro funzione di promozione sociale e di indirizzo economico, si pone in ogni caso. Gli europeisti che credono in un’Europa sociale, chiedono di provare fino in fondo a recuperare questa condizione tutti insieme, ma forse dobbiamo ammettere che i margini per riuscirci sono molto scarsi, visti gli egoismi nazionali che dominano a livello europeo. Per cui uno scontro con l’Europa, ma ancora di più con i mercati sembra ineludibile. Uno scontro che pur essendo economico, diventa inevitabilmente istituzionale perché pone il problema di chi comanda. Mattarella ha ammesso che comandano i mercati e un’affermazione del genere è di una gravità inaudita da parte del garante di una Costituzione che afferma solennemente che la sovranità appartiene al popolo.
Mattarella avrebbe dovuto rispettare la volontà popolare e annunciare nel tempo stesso che si andava alla guerra. Informare i cittadini della situazione era suo obbligo, poi i cittadini o meglio i suoi rappresentanti in Parlamento avrebbero deciso le misure da assumere nel giorno per giorno. L’esito avrebbe anche potuto essere una grande ritirata o l’apertura di una nuova stagione in cui si tornava a ridiscutere il ruolo dello stato, il ruolo dei mercati e quale Europa vogliamo davvero. Ne abbiamo bisogno e Mattarella doveva permetterlo, anche se dovevamo accettare di andare verso l’ignoto.

martedì 29 maggio 2018

àremu rindinèddha - Ninfa Giannuzzi, Valerio Daniele





Chissà rondinella, quale mare hai attraversato e donde tu arrivi con questa bella stagione. Hai bianco il petto, nere le ali, il dorso color del mare e la coda aperta in due. Seduto di fronte al mare io ti contemplo; un po' ti levi, un po' cali, un po' sfiori l'acqua. Chissà per quali paesi, per quali luoghi sei passata; chissà dove ti sei fatta il nido tu. Se sapessi che sei passata dalle parti del mio paese, quante cose ti chiederei perchè me le dicessi. Ma tu nulla mi dici per quanto io ti domandi; un po' ti levi, un po' cali, un po' sfiori l'acqua.

La leggendaria risposta di Troisi sugli striscioni razzisti

lunedì 28 maggio 2018

intervista ad Alberto Mario Delogu

(di Anthony Muroni)




Alberto Mario Delogu, agronomo sassarese, dopo alcune esperienze professionali nell’Isola, dal 1998 si è trasferito in Canada. Dal 2005 è a Montreal, dov’è direttore di una corporate biovegana.
Lei è sardo, attento osservatore di cose sarde e italiane, pur da una terra lontana. Che idea si è fatto sul post-elezioni Politiche e sui teatrini a proposito della formazione del governo?
Dopo le elezioni del 2010 in Belgio ci sono voluti quasi 20 mesi perché si potesse formare un nuovo governo. L’Olanda l’anno scorso ci ha impiegato 7 mesi, la Germania 5 mesi. I due mesi italiani sono del tutto normali. Quel che non trovo normale è che negli ultimi 25 anni d’illusione maggioritaria i politici italiani abbiano disimparato l’arte della politica, cioè dialogare, discutere e imparare a trovare un accordo.
Non è dunque peregrina l’idea che in Sardegna venga aggiornato il concetto di “voto utile”, oggi integralmente riferito a quello per i partiti italiani che vanno per la maggiore.
Il corpo elettorale di un paese moderno è frammentato ed è giusto che lo sia. Il professor Mariotto Segni 25 anni fa ha commesso l’errore di pensare che gli italiani fossero anglosassoni e ha promosso l’OGM del maggioritario in nome della governabilità. Erano gli anni di Ghino di Tacco, degli aghi della bilancia e dell’idea che gli italiani si dovessero vergognare di avere avuto 60 governi in 60 anni. Ma l’Italia non è il Canada, e l’OGM è stato rigettato. La Sardegna poi è rimasta alla ruota di tutto questo, da ubbidiente provincia dell’impero.
Nella nostra isola i partiti “sardi” che vanno per la maggiore (Psdaz e PdS) sono in alleanza con i partiti italiani.
Avrei anche capito un’alleanza con la Liga Veneta degli anni ’80 che ha avuto un breve periodo di sincero indipendentismo, ma un’alleanza con questa Lega salviniana e nativista sinceramente non la capisco. Ammettiamo pure che si tratti di strategia, e che un Salvini al governo apra realmente le porte al federalismo. Ma anche alla scaltrezza strategica c’è un limite.
Il futuro del bipolarismo italiano è quello Di Maio-Salvini? E in Sardegna, nel caso, che accadrà?
Non ho una grande opinione del bipolarismo. La Sardegna dovrebbe mettere mano alla propria legge elettorale in senso proporzionale e darsi da fare per costruire pian piano un suo panorama politico autonomo.
In quale maniera, prima ancora che politicamente e a livello di partiti, in Sardegna si può combattere una vera battaglia culturale?
Nelle scuole e nelle università, nelle radio e nelle televisioni, nei giornali e su internet. Ci sono secoli di colonialismo culturale da scrostare, l’affresco della lingua e della cultura sarda da restaurare e da riportare ai colori e allo splendore originale. Serve alla cultura sarda una vera “operazione Ultima Cena”.
C’è un futuro per l’economia sarda?
Altroché se c’è. La Sardegna ha una serie invidiabile di risorse naturali. Ha sole, vento e terra, le fonti di energia del domani. La Germania ricava il 7 per cento della propria elettricità dal sole, con un’insolazione media al 60% di quella sarda. Invece di dover scegliere tra rifiuto e rapina i sardi devono farsi capaci di decidere, negoziare i benefici, trattare sulle royalties e sulle ricadute tecnologiche per imprese locali, sui fondi per la dismissione. Le comunità locali devono sedersi al tavolo. Ma c’è un’altra risorsa, la più importante, sulla quale bisogna investire: quella umana. Bisogna riportare i sardi a scuola e all’università. Anzi, bisogna portare le scuole e le università ai sardi. In America a fine ottocento nascevano università nei posti più sperduti, a ore di distanza dalle città più vicine. Stanford, Cornell, Yale, Berkeley, Davis sono nate così. Poi tutt’attorno nasceva una città. Invece in Sardegna è tutto sempre centripeto, si investe dove si è già investito. Bisogna cambiare, fare un atto di fede nel futuro. Prendiamo Cipro: ottanta anni di dominazione inglese hanno reso il popolo cipriota biligue, e una delle due è la lingua del commercio internazionale. Idem per Malta. Ai sardi invece è toccata la diglossia con l’italiano, che come lingua veicolare non vale granché.
Il deficit di vero rinnovamento delle classi dirigenti è quel che più potrebbe frenare la credibilità delle proposte della classe politica sarda. Come pensa, concretamente, che si possa superare questa difficoltà?
L’umorista tedesco Karl Valentin ipotizzava il teatro obbligatorio come strumento formativo per i giovani tedeschi. Ecco, a me piacerebbe l’emigrazione obbligatoria. Siamo, tra tutti i popoli insulari mediterranei, quello più restìo a muoversi. Non parlo di viaggi, parlo di uscire per stabilire ponti, vite, relazioni. Trovo che i politici sardi siano in genere pagu bessidos. Forse perché l’arte della coltivazione dell’orticello politico non lascia in genere molto altro tempo, e si sa che “chi va a Roma perde la poltrona”.
Ora si parla di Pd sardo, federato con Roma. Una proposta che Cabras e Maninchedda lanciarono già a inizio di questa legislatura. Non le pare che questa proposta arrivi fuori tempo massimo? Lei come la giudica?
Credo che si tratti di nominalismi, di riverniciature estetiche. Nelle quali gli italiani eccellono, per carità, sono bravissimi nel restyling. Ma a noi sardi spetta il dovere di essere più concreti. L’“operazione Ultima Cena” di cui parlavo prima è un restauro profondo, non una ripitturata.
La lingua sarda può essere una chiave culturale e politica?
Lo è, e lo deve essere. Con quel pizzico d’intolleranza draconiana della quale siamo stati vittime noi, a parti invertite, quando ci hanno imposto l’italiano. Vivo in Quebec e vivo ogni giorno il miracolo culturale di una scuola e di una politica che hanno saputo arrestare e invertire il declino di una lingua ormai data per morta. Si può fare.
Si chiede mai come sarà la nostra terra fra cinquant’anni?
Con i bambini che nascono oggi nel ruolo di noi ultracinquantenni. Sembra una battuta, ma quel che voglio dire è che ho una fiducia immensa nelle nuove e nuovissime generazioni. Come vorremmo fosse la Sardegna tra cinquant’anni lo decidiamo noi oggi, nelle famiglie e nelle scuole sarde.

QUESTIONI MIGRANTI: LA QUADRA TRAPEZIA (proclamazioni verbali e risultante pratica dell’accordo di governo sui flussi) - Gian Luigi Deiana



supponendo che la proposta di governo prenda la fiducia delle aule parlamentari e la conservi per un po’, e mettendo via per cinque minuti le legittime ragioni di pre-giudizio, se oggi si passano in rassegna le questioni che hanno avuto maggiore peso specifico nel consenso elettorale, ci si trova a fare il trapezista su appoggi e corde estremamente variabili ed elastici: in primo luogo perché le proclamazioni elettorali hanno risposto in modo apparentemente univoco ad aspettative sociali fattualmente diverse, e in secondo luogo perché il cosiddetto “contratto” di governo è destinato, per come è combinato, a risultanti concrete in buona parte imprevedibili; quindi, se partiamo dall’ingrediente fondamentale della campagna elettorale, quello dei migranti, sul trapezio di questo circo dobbiamo saltare dalle proclamazioni verbali a ruota libera, precedenti le elezioni, alla presunta quadra delle clausole scritte nel contratto di governo, e di qui all’ imprevedibile risultante concreta; quest’ultima, secondo me, non caverà un ragno dal buco sul tema specifico (i flussi) ma non potrà fare a meno di mettere in mostra una compensazione sostitutiva in termini di più generale pressione securitaria su alcuni specifici settori sociali (più telesorveglianza, più legittima difesa, più arbitrio poliziesco, più popolazione carceraria ecc.): e a fare i trapezisti in questo modo c’è da rompersi l’osso del collo;
la responsabilità di questa falsa quadra che in sede governativa è in realtà un pericoloso trapezio non risiede solo nella classe politica, ma anche nel discount dell’ oscurantismo di strada, di cui in mancanza d’altro si alimenta il senso comune; per vedere un poco più chiaro in questo argomento oscuro è necessario distinguere in primo luogo fra il cosiddetto razzismo e la cosiddetta xenofobia, e di qui fra le disposizioni buoniste o cattiviste e le strategie ragionevoli o irragionevoli;
razzismo e xenofobia, che danno luogo ad un connubio assassino quando combaciano, come tali non sono affatto la stessa cosa; il razzismo consiste nel “concetto” che i gruppi umani sono diversi per indole e per storia evolutiva, e che si rapportano gli uni rispetto agli altri in termini di compatibilità o incompatibilità e di superiorità o inferiorità rispetto ai modi della condotta individuale e sociale; la xenofobia consiste invece nella “fobia” dello straniero, e paradossalmente in quella paura che il gruppo più forte, quello autoctono, esprime nei confronti del gruppo più debole, quello immigrato: che cioè chi ti sta dietro nella dinamica sociale stia avanzando per prenderti alle spalle e mettere a rischio la tua posizione; a sua volta chi sta in cima alla piramide sociale non ha nulla da temere alle sue spalle, proprio perché l’oscura terra di mezzo della xenofobia è concentrata non sull’ineguaglianza che viene dall’alto, ma sull’insicurezza che preme dal basso; è su questa mappa che può realizzarsi, in fasi di crisi, il corto circuito tra la pulsione xenofoba e la concezione razzistica;
dunque si può essere razzisti senza essere xenofobi e paradossalmente persino senza fare danno, e si può essere xenofobi senza essere razzisti ma sempre disseminando malvagità; è questa separazione che rende possibile alla massa xenofoba la bizzarra affermazione “io non sono razzista ma…”; il corto circuito avviene quando il razzismo mette capo concettualmente a un presunto diritto di sangue (o di dna) e la xenofobia mette capo istintivamente a una autoproclamata titolarità di suolo (o di territorio), e quando la periferia di massa dell’ordine sociale (ordine che è invece strutturato da un centro dominante, monopolista della ricchezza, del rango e del potere) unifica psicologicamente la propria multiforme condizione di precarietà sociale in una pulsione aggressiva nei confronti dell’estraneo;
la ‘lega’ è stato il partito politico italiano che ha massimamente suonato, nella sua storia ormai trentennale, tutti i tasti di questa cacofonia; se borghezio ha rappresentato ieri l’incarnazione della praticabilità diretta del soddisfacimento xenofobo, salvini rappresenta oggi l’incarnazione della praticabilità governativa della razionalità razzistica; questo può apparire un passo in avanti ed è su questo passo avanti che il principio di razionalizzazione dei flussi ha temporaneamente consentito la convergenza contrattuale col movimento cinque stelle;
ora, prima di chiudere la questione sanzionando che questa convergenza è la precipitazione della politica italiana nel buco nero del razzismo+xenofobia, è anche necessario considerare se i processi migratori necessitino o no di una strategia di regolazione, come quando si regola il traffico coi semafori o il numero di persone in ascensore, e se una strategia di questo genere sia stata davvero pensata e messa in pratica; poiché respingimenti in mare o contenimenti in libia non sono una strategia di regolazione ma una condotta da bestie, e che i campi di internamento o gli alloggiamenti a in camping sono solo uno spostamento del problema, va riconosciuto che questi vent’anni intercorsi dalle navi degli albanesi ad oggi non sono serviti a nulla, se non a saldare la concezione razzistica con la pulsione xenofoba, col rischio di fare di questa saldatura il perno di una intera visione di governo;
non si può disinnescare questo rischio semplicemente con la retorica dell’accoglienza (il cosiddetto buonismo) poiché i propositi non sono soluzioni; ma il cattivismo (a parte la sua sconcezza morale) è solo un proposito e non una soluzione; quindi la pallina torna sempre lì, una strategia ragionevole dimensionata sui numeri del problema e sul diritto superiore, quello che ciascuno abbia la sua possibilità di trovare un luogo per la propria vita;
quando si afferma che “qui non c’è posto” si nega a qualcuno la possibilità del luogo; il posto è una cosa fisica, il luogo è una cosa mentale; se il luogo può essere creato (per esempio favorendo la ri-abitazione di immense aree spopolate come tutta la montagna appenninica) il posto sovviene di suo; se invece il luogo viene strozzato in un cie o in una periferia degradata, il risultato è che ben presto il posto non c’è;
questo accordo di governo parla alla pancia xenofoba, ma si propone anche di mettere in capo allo stato e non ai privati la cosiddetta accoglienza (e questo può essere un bene) con la mannaia dei contenimenti, dei filtri in mare e dei rimpatri (e questa è una schifezza fascista); il gioco va sulla risultante: come che sia, la nazione italiana non reggerebbe a pratiche di selezione bestiale (del genere ungherese, polacco, austriaco o francese), quindi resta forse possibile coniugare la regia statale con una costrittiva partecipazione dei comuni e di qui con il libero coinvolgimento dei cittadini: sono tre passaggi: stato-comuni-cittadini senza di che questo luogo nuovo non potrà prendere forma, e resterà solo un posto impaurito e blindato.

ricordo di Paolo Pillonca



“Aiutiamoli a casa loro”, l’urlo arrogante degli illusi - Antonella Sinopoli


Toni Iwobi, 63 anni nato in Nigeria, naturalizzato italiano, primo nero eletto senatore della Repubblica italiana;  Idy Diene, 54 anni, ambulante senegalese con regolare permesso di soggiorno ucciso a Firenze per nessun motivo, tranne il colore della sua pelle; Segen (di lui non si sa neanche il cognome), 22 anni eritreo, morto di fame appena sbarcato in Italia a seguito di mesi di sofferenze, privazioni e torture nei centri libici. È successo tutto nel giro di poche settimane, tutto in Italia. E questo tutto, queste tre generazioni di africani concentrano in sé tante storie. La storia dell’Africa degli ultimi decenni (migliorata molto ma peggiorata per molti); la storia dei rapporti umani completamente distorti e in una fase regressiva che sembrerebbe senza ritorno; la storia delle disillusioni di un’Europa e di un mondo occidentale fondato sullo sfruttamento, sull’ingiustizia, sul doppio binario dei diritti.
Erano gli anni Ottanta del secolo scorso e dopo solo un paio di decenni dall’indipendenza molti Paesi africani cominciarono ad essere investiti da una forte crisi economica. Diversi i fattori: tra i principali il calo drammatico del prezzo del petrolio innescato dalla guerra del Kippur; la scelta di continuare l’errore delle amministrazioni coloniali di investire a livello agricolo sulla monocultura; l’emergere dei Big Man, leader impegnati a creare un’immagine di sé simile a quella degli ex colonizzatori – paternalistica,  non criticabile e tendente ad accumulare beni e prestigio per sé e per il proprio entourage – che stava quindi creando sempre più uno spartiacque tra l’élite al potere e la popolazione.
Fu a quell’epoca che cominciò per l’Africa la neo-colonizzazione fatta di “aiuti allo sviluppo” e soprattutto di prestiti “condizionati” da parte degli IFI, Istituti Finanziari Internazionali (leggi Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale). Alcune delle condizioni furono: svalutazione delle monete locali e riduzione della spesa pubblica. Come si può immaginare i tassi di disoccupazione – derivati anche all’allontanamento dalle aree rurali verso le città – aumentarono notevolmente ed è in questa fase che cominciò la prima ondata di emigrazione verso i Paesi europei. Paesi europei – Italia compresa – che erano invece in piena espansione economica e dove il nero era qualcosa di esotico, non ancora percepito come una minaccia. Di questa fase felice si sono avvantaggiate tante classi medio alte africane o ragazzi al seguito di  congregazioni religiose o missionari. È di quella stagione che fa parte il fortunato Toni Iwobi, che oggi farebbe parte della categoria del “migrante economico”.
I peggiori nemici degli africani sono i  ‘fratelli’ africani”.  Non sono io a dirlo. Di questa “inimicizia” gli africani fanno le spese da secoli. A cominciare dalla tratta degli schiavi, quando i mercanti bianchi dovevano necessariamente trovare appoggi e accordi con i chief locali per il rifornimento della merce e per avere strada libera sui territori di caccia. Si passò poi alla colonizzazione. Epoca in cui lo sfruttamento si spostava dalla forza lavoro, le braccia negre, alla terra e ai suoi prodotti, compresi quelli minerari. Ma anche la colonizzazione – come era stato per i mercanti di schiavi – aveva bisogno di “alleati” in loco. Il cambiamento delle strutture sociali e comunitarie africane provocato dall’indirect rule di stampo britannico, ad esempio, fu enorme, come sempre più enorme fu il divario che si determinò tra i “capi” e il resto delle popolazioni.
Era di questi capi che il potere coloniale si serviva per controllare, amministrare, gestire, sfruttare i territori. Questo lungo, eppure sintetico, preambolo storico, è necessario per sottolineare che solo chi non conosce la storia – o non vuole farci i conti – può salire su un palco (o palcoscenico…) e urlare “Aiutiamoli a casa loro!” E questo vale se l’urlo viene da uno di pelle bianca o di pelle nera. Anzi no, se viene da un africano non è affatto una presa di coscienza della realtà contemporanea, è piuttosto prova di chiusura e mancanza di conoscenza. Se non fosse così Iwobi – e quelli che la pensano come lui – saprebbe che il federalismo nel suo Paese di origine ha forse funzionato in qualche misura, poi sono cominciati i drammi, comprese le parcellizzazioni del potere, gli estremismi religiosi – che spesso coprono gli estremismi di casta (non uso questo termine a caso) e di appartenenza tribale (e anche questo termine è adeguato alla realtà africana voluta dai colonizzatori). Se il senatore nero avesse coscienza di ciò che dice non oserebbe dire ai fratelli neri di restarsene a casa, laddove il loro presidente lascia la gestione dello Stato per mesi e mesi per andarsi a curare all’estero perché non si fida – e a ragione – degli ospedali del Paese che dirige. E questo non vale solo per la Nigeria.
Da qualche anno gli africani hanno ricominciato i viaggi della speranza in Europa, ma dagli anni Ottanta del secolo scorso molte cose sono cambiate. E gli africani di tutte le età si sono incrociati con un numero imprecisato di volontari venuti a salvarli e probabilmente molti giovani si sono domandati (e si domandano): perché lui può venire qui da me e io non posso? Perché devo farmi accudire e fotografare e trattare con superiorità da lui (o lei) che ha 18-20 anni come me ma sembra saperla lunga su tutto? Intanto la globalizzazione è scoppiata anche in Africa, peccato che però abbia reso i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Nel frattempo la prima ondata di migranti ha continuato a spedire soldi a casa e con quelle rimesse ci hanno vissuto intere famiglie i cui figli pensano: posso farlo anch’io, anch’io posso andare a lavorare in Europa e mantenere la mia famiglia.
In seguito dopo l’allontanamento forzato dei primi anni dell’indipendenza i coloni bianchi sono tornati, sotto forma di prestiti degli IFI, sotto forma di aziende e multinazionali, sotto forma di espatriati – non me ne vogliano visto che lo sono anch’io. Si sono stabiliti, hanno aperto uffici, aziende, business vari e siamo solo all’inizio perché, per chi non lo sapesse, l’Africa negli ultimi anni è una delle mete preferite dagli italiani.
Ovvio che poi tra i neri che stanno a casa loro ci sia qualcuno che si domanda: Perché il mio Paese apre le porte a tutti ma gli altri ci chiudono le porte in faccia? Perché è proprio questo quello che succede. Gli africani sono in realtà prigionieri in casa loro. Il sistema dei passaporti (che in molti casi valgono niente) e dei visti (spesso rifiutati) e la chiusura sistematica delle frontiere rende impossibile alla maggior parte di loro viaggiare in modo regolare. Essì perché quando si urla all’”immigrato clandestino”, all’”immigrazione illegale”, si dimentica che sono le leggi europee a farne un clandestino.
Leggi ingiuste, create ad hoc per controllare una parte del mondo, leggi che – se ci fosse una norma di incostituzionalità con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – sarebbero leggi illegali.  All’africano medio non è permesso viaggiare per turismo – metti che uno voglia andare a Roma a vedere il Colosseo… Macché, solo gli africani ricchi e quelli sponsorizzati possono accedere alla cultura.
All’africano medio non è consentito guardare al resto del mondo come un luogo “normale” ma solo come una terra promessa, un luogo magico dove tutto diventerà possibile. Ma sappiate che comunque non tutti gli africani medi stanno lì a sognare l’America e, pensa un po’, c’è anche chi sa bene che l’Europa non è una cuccagna, ma… ci si prova, finché si ha la forza, la speranza, finché si ha un sogno. Finché la parola giustizia ha un senso. Perché questo termine, giustizia, non può essere spiegato. Non è un termine giuridico. Viene da dentro e anche chi non è mai andato a scuola, non ha mai letto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo o non sa cosa sia il diritto ne percepisce il senso, ne conosce profondamente il significato. La giustizia, il senso del giusto, quella sì che non ha colore.
Nadine Gordimer era una bianca, una bianca sudafricana, ha scritto tra le pagine di impegno civile più belle che abbia letto. E non si limitava a scrivere, marciava. Marciava con i neri e per i neri, e certo non ne avrebbe avuto bisogno. I diritti civili erano tutti dalla sua parte. Ma lei marciava con gli altri, i neri, e scriveva. Contro l’apartheid, contro la discriminazione razziale. Contro una legge disumana. Raccontando cosa accadeva. Questo è un esempio reale in cui il nero e il bianco davvero si fondono, si fondono in una parola: giustizia.
Ma per applicare la giustizia, per sentirla dentro come valore morale assoluto oggi che sembriamo vivere e agire in stato confusionale abbiamo bisogno di agganci, di supporti forti e sicuri. Uno di questi è la conoscenza. “Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza è l’illusione della conoscenza” – Stephen Hawking. Con questo torniamo al lungo preambolo di apertura. L’arroganza di sapere impedisce di studiare, di approfondire, di leggere, e quindi di capire. “Siamo condannati a vivere non solo con quello che abbiamo prodotto ma anche con quello che abbiamo ereditato”, scrive Achille Mbembe, uno dei più lucidi intellettuali contemporanei.
Il passato non è affatto archiviato, per due semplici motivi. Il primo è che il passato è tuttora presente, faccio solo un esempio: 14 Stati africani sono ancora obbligati a utilizzare la moneta francese con conseguenze che hanno a che fare con la sovranità politica ed economica del Paese e con la – reale – percezione di essere rimasti sotto il controllo coloniale. Il secondo è che solo il passato può spiegare le dinamiche e i rapporti di forza tra Europa e Africa oggi. Ritorno a Mbembe: “Non si può fare come se la schiavitù e la colonizzazione non fossero esistiti o come se le eredità di queste tristi epoche fossero state totalmente superate. Per fare un esempio, la trasformazione dell’Europa in ‘Fortezza’ e le leggi anti-straniero di cui si è dotato il Vecchio Continente all’inizio del secolo affondano le loro radici in una ideologia della selezione tra differenti specie umane, ideologia che continua a rafforzarsi, bene o male, mascherata”.
Dunque, a proposito di aiutarli a casa loro, se li lasciassimo per esempio gestire i propri affari a casa loro come noi pretendiamo per noi stessi sarebbe un primo passo verso la normalizzazione. Ma non sarà così perché ci piace la botte piena e la moglie ubriaca.  O, per dirvela a modo mio, ci piace l’Africa ma non ci piacciono gli africani. Ma questi africani, comunque la mettiate, non se ne staranno con le mani in mano aspettando le vostre decisioni. Continueranno ad essere la vostra spina nel fianco come noi lo siamo stati – o lo siamo ancora – per loro.
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