In un testo
presentato in origine in una serie di conferenze e successivamente inserito
in La filosofia della storia (Germania, 1837), Hegel scrive:
“Il Negro... mostra l’uomo naturale nel suo stato completamente selvaggio e non
addomesticato. Noi dobbiamo mettere da parte ogni idea di riverenza e moralità
– tutto ciò che noi chiamiamo sentimento – se vogliamo comprenderlo
correttamente. In questo tipo umano non c’è nulla che si accordi con
l’umanità”. Hegel poi si ripromette di non menzionare più l’Africa, poiché “non
è una parte storica del mondo; non ha alcun movimento o sviluppo da esibire”.
Quello che noi intendiamo propriamente per Africa, conclude, “è lo Spirito Non
storico, Non evoluto, ancora connesso con le condizioni di natura pura.”
Più di un
secolo e mezzo dopo le ruminazioni di Hegel, Robert D. Kaplan, un giornalista e
guru politico americano, pubblicò L’imminente Anarchia, un ritratto
devastante dell’Africa occidentale, nell’edizione del febbraio 1994 del mensile
US, “The Atlantic”. La guerra fredda era appena finita e gran parte del mondo
occidentale stava cavalcando trionfalmente un’ondata di ottimismo. Celebrando
tale trionfo – dell’occidente e di ciò che egli chiamava l’idea occidentale –
Francis Fukuyama, scrivendo nell’edizione 1989 di “The National Interest”, un
bimensile americano di affari internazionali, suggerì “ciò di cui noi possiamo
essere testimoni non è semplicemente la fine della guerra fredda o il
superamento di un periodo particolare di storia post-bellica, ma la fine della
storia stessa.” Con “la fine della storia in sé”, Fukuyama non intese
semplicemente il capolinea dell’evoluzione ideologica dell’umanità. Più
fondamentalmente, egli intese la riconciliazione del principio di mercato e
dell’idea di libertà, e l’universalizzazione della democrazia liberale dell’occidente
in quanto forma finale del governo umano.
Ma,
proiettando se stesso nel periodo dopo la fine della storia, Fukuyama poteva
vedere soltanto malinconia e tristezza, una profonda nostalgia per il mondo
hegeliano: “la fine della storia sarà un tempo molto triste. La lotta per il
riconoscimento, la disponibilità a rischiare la propria vita per un obiettivo
puramente astratto, la lotta ideologica globale che ha chiamato in causa
temerarietà, coraggio, immaginazione, e idealismo, tutto ciò sarà rimpiazzato
dai calcoli economici, la soluzione senza fine di problemi tecnici, questioni
ambientali, e la soddisfazione di sofisticate esigenze dei consumatori.
Nel periodo
post-storico non ci saranno né arte né filosofia, solo la cura perpetua del
museo della storia umana”.
Quando
Fukuyama scrisse il suo epitaffio alla storia, l’Africa era nel bel mezzo di
una spettacolare collisione. L’Apartheid e il governo della minoranza bianca
stavano giungendo a una fine ufficiale in Sud Africa, mentre un genocidio di
proporzioni catastrofiche si stava svolgendo in Ruanda.
Liberazione
e apoteosi di lunghi anni di lotta da un lato, autodistruzione dall’altro.
Entrate
procapite e produzione in ribasso, bassi livelli del risparmio e degli
investimenti, crescita lenta della produzione in agricoltura, guadagni mancati
delle esportazioni, importazioni strangolate e onerosi debiti con l’estero –
tutte piaghe prevalenti dell’Africa Subsahariana.
Nel suo
scenario del 21esimo secolo, Kaplan argomentava che l’Africa occidentale in
particolare stava diventando: “il simbolo di un sovraccarico demografico,
ambientale e sociale, nel quale l’anarchia criminale emerge come il vero
pericolo “strategico”. Malattie, sovrappopolazione, criminalità spontanea,
scarsità di risorse, migrazione di rifugiati, la crescente erosione di
stati-nazione e confini internazionali, e il rafforzamento di corpi armati
privati, agenzie di sicurezza, e cartelli internazionali della droga sono
adesso chiaramente manifesti nel prisma dell’Africa occidentale.”
Nella
geografia di Kaplan – così come in Hegel nel secolo precedente – l’Africa
Occidentale divenne l’epitome di quelle regioni del mondo dove i governi
centrali stavano scomparendo, feudi tribali e regionali stavano nascendo e la
guerra era diventata pervasiva.
L’Africa
Occidentale, argomentò Kaplan, stava tornando “all’Africa dell’Atlante
Vittoriano”. Egli aggiunse: “Ora consiste in una serie di postazioni
commerciali costiere, come Freetown e Conakry, e un retroterra che, a causa di
violenza, instabilità e malattie, sta nuovamente diventando, come Graham Greene
osservò una volta, ‘vuota’ e ‘inesplorata’”. Kaplan evocò l’economista politico
inglese Thomas Malthus, descrivendolo come “il filosofo dell’apocalisse
demografica” e un “profeta” del futuro dell’Africa Occidentale.
“E il futuro
dell’Africa Occidentale, alla fine, sarà lo stesso della gran parte del resto
del mondo… in un’età di scontro culturale e razziale”.
Questa
visione apocalittica del futuro dell’Africa fu ripresa nel 2000, quando,
basandosi nuovamente su schemi hegeliani, l’influente settimanale finanziario
britannico, “The Economist”, dichiarò che l’Africa era “senza speranza”.
In un famoso
editoriale, intitolato “Il Continente senza speranza”, evocò immagini di
indigenza, fallimento, disperazione, alluvioni e carestie, povertà e
pestilenza, brutalità, despotismo e corruzione, terribili guerre e saccheggi,
stupri, cannibalismo, amputazioni, e perfino il clima, per suggerire che
l’Africa era definitivamente condannata. Gli operatori di aiuto umanitario,
missioni di mantenimento della pace, agenzie umanitarie e il mondo in generale,
a tutti non restava che arrendersi, così profondamente “radicate nelle loro
culture” erano le cause di tale miseria umana, queste le conclusioni.
Mentre
scrivo, povertà e disoccupazione sono ancora diffusi sul continente, in alcuni
casi più che in altri mercati emergenti. In molte aree del mondo ricco,
l’Africa, con le sue storie apparentemente senza fine di malattie e disordini,
ispira ancora pietà e sfiducia, quando non produce impulsi umanitari e
filantropici profondamente radicati – e il disprezzo che generalmente li
accompagna. La gente lotta ancora per sbarcare il lunario – ma oggigiorno,
dov’è che non succede? Si cercano comunque prodotti che possano essere a buon
mercato e affidabili. Le necessità sono ancora ovvie. La scarsità è ancora un
fatto. Non c’è ancora abbastanza da mangiare. Manca ancora l’educazione. Ci si
dispera di fronte all’ingiustizia quotidiana e alcuni vogliono emigrare. Molti
ancora temono una fine prematura e violenta.
Ma c’è
dell’altro.
L’iscrizione
alla scuola secondaria è cresciuta del 48% tra il 2000 e il 2008. Nello scorso
decennio, la morte per malaria in alcune delle zone più colpite è calata del
30% e l’infezione HIV fino al 74%. L’aspettativa di vita in Africa è aumentata
di circa il 10 % e il tasso mortalità infantile nella gran parte dei Paesi ha
avuto un forte declino. Negli ultimi dieci anni, il reddito reale procapite è
aumentato del 30% mentre nei precedenti 20 anni si era contratto di circa il 10%.
Solo il 20% di un miliardo di persone è online, ma tale quota sta crescendo
rapidamente dato che le reti mobili si stanno diffondendo e il costo dei
dispositivi che si collegano a internet è in continua caduta. Di fatto, 720
milioni di Africani hanno telefoni cellulari e 100 milioni erano su Facebook
nel 2014.
La telefonia
mobile in particolare ha rivoluzionato il modo di interagire degli Africani e
il modo di operare delle piccole e medie imprese, degli agricoltori e del
commercio informale. Come risultato, le rendite mobili equivalgono oggi al 3,7%
del PIL africano – più del triplo della quota dei paesi sviluppati dove era
un’innovazione incrementale. Se internet eventualmente pareggiasse o eccedesse
il livello di impatto già raggiunto dalla telefonia mobile, potrebbe
contribuire per circa 300 miliardi al PIL africano per il 2025, secondo un
rapporto della società di consulenza McKinsey.
Si calcola
che, in questo scenario “a salto di rana”, un’accresciuta penetrazione e uso di
internet potrebbe incentivare il consumo privato ad oltre 13 volte i livelli
correnti di 12 miliardi, raggiungendo circa 154 miliardi di dollari nel 2025.
Faccio un
altro esempio: le trasformazioni che stanno interessando i modelli urbani.
Queste sono
state causate in parte dall’emergere, nel continente, di megacities e
mega-regioni la cui densità, massiccia espansione spaziale, enorme incremento
demografico, alti livelli di rischio e grandi disparità di ricchezza, è stata
accompagnata da modalità dinamiche e inaspettate di crescita urbana. Le città
principali quali Lagos, Johannesburg, Kinshasa, Nairobi, Luanda, Dakar e
Abidjan hanno continuato ad espandersi in modo relativamente incontrollato,
decentralizzato se non casuale dagli anni ’80. Oggi, queste città sono meglio
definite come mega-regioni con multipli nuclei urbani.
Le miriadi
di spazi pubblici vengono sempre più privatizzati. Nuovi modelli di migrazioni
trans-regionali, insediamenti e alto consumo stanno trasformando il loro
tessuto economico e culturale, aprendo la strada a forme altamente stilizzate,
ibride e creolizzate. Reti visibili e invisibili di scambio sociale ed
economico partecipano ma sono anche separate dai flussi principali di capitale
globale, reale e fittizio. Una delle loro caratteristiche dominanti non è solo
la geografia sociale disgiunta, ma anche il modo in cui esseri umani e non,
sono interconnessi in insiemi eterogenei non riconosciuti che concorrono a
formare un’unica civilizzazione urbana. Più che in qualsiasi altro momento
della loro storia recente, queste mega-regioni sono il risultato diretto di
nuove forme socio-economiche come pure di differenti politiche di relazioni
umane/non umane/tecno-ecologiche.
Consideriamo
inoltre che cosa sta accadendo nell’arte contemporanea Africana. Nel paradigma
hegeliano, ovviamente non c’è una cosa come “l’arte contemporanea africana”.
Qualora esistesse, non avrebbe né autori né concetti, solo caratteri etnici e i
loro feticci. È sufficiente piazzare banali oggetti domestici o cerimoniali in
un museo o una galleria per trasformarli in oggetti d’arte. In ogni caso, da
quando l’artista francese Marcel Duchamp ha definito come arte oggetti di consumo,
non ci sono più opere come tali nell’occidente.
Duchamp ha
siglato la morte dell’opera d’arte nel senso classico del termine. Non c’è più
nessuna immagine da isolare o da catturare. O almeno non c’è più niente da
interpretare. Ci sono solo delle selezioni da fare e collezioni di oggetti da
assemblare, da curare ed esporre.
Da Duchamp,
si potrebbe dire che l’atto di dare forma, di animare, è finito in secondo
piano.
Quando
l’occidente “scopre” l’art nègre (Arte negra) all’inizio del
20° secolo, è affascinato prima di tutto da ciò che ha dimenticato – che non
era necessario separare l’immagine e la forma; infatti potevano essere
riconciliate nell’oggetto; e la loro riconciliazione è ciò che conferì ad
entrambe una singolare forza animatrice. Da qui la vitale costruzione degli
oggetti Africani all’inizio del 20° secolo.
La magia
dell’arte dell’Africa e della sua diaspora è sempre derivata dal suo potere di
dematerializzazione, la sua capacità di risiedere nei luoghi comuni e nel
sensibile, precisamente al fine di trasformarlo in un’idea e un evento.
Storicamente deriva da un inequivocabile riconoscimento del fatto che
l’infinito non può essere catturato in un forma.
L’infinito
va oltre ogni forma – anche se, di quando in quando, passa attraverso la forma,
ovvero attraverso il finito. Ma ciò che fondamentalmente caratterizza la forma
è la sua finitezza. La forma può essere soltanto effimera, evanescente e
labile. “Formare” è occupare uno spazio di essenziale fragilità e
vulnerabilità. Questa è la ragione per cui prendersi cura e nutrire la vita
sono le funzioni principali delle arti.
L’idea
dell’arte come un tentativo di catturare le forze dell’infinito; un tentativo
di calare l’infinito in una forma sensibile, ma un formare che consiste in un
costante fare, disfare e rifare; assemblare, disassemblare e riassemblare –
questa idea è tipicamente ‘Africana’. È in piena consonanza con lo spirito
digitale dei nostri tempi. Ecco perché ci sono buone probabilità
che l’arte del 21° secolo sia Afropolitan.
Comunque
sia, oggi, un’altra geografia culturale del mondo si sta configurando. Piaccia
o no, l’Africa si sta fermamente inscrivendo in un una nuova storia, decentrata
ma globale, delle arti.
Si sta
sganciando da paradigmi etnologici che l’avrebbero imbrigliata nel primitivismo
o neo-privitivismo. Il termine “Africa” in sé tende, sempre più, a riferirsi ad
una categoria geo-estetica.
Essendo
l’Africa soprattutto il corpo di una vasta diaspora, è per definizione un corpo
in movimento, un corpo deterritorializzato costituito nel crogiolo di varie
forme di migrazione. Anche i suoi oggetti d’arte sono soprattutto oggetti
in movimento, derivanti direttamente da un immaginario fluttuante. Questa è la
modernità africana – una forma migrante di modernità, scaturita da genealogie
sovrapposte, all’incrocio di incontri multipli con multipli altrove.
Anzi se
l’arte moderna è una risposta alla crisi dell’immagine, è possibile che questa
crisi sia sul punto di essere risolta dalla creazione afro-diasporica
contemporanea, che ci consentirà di uscire dalla crisi dell’idea dell’immagine
aperta dall’arte moderna.
Quando si
entra nel 21° secolo, la mitologia hegeliana – e le sue molteplici varianti –
evidentemente non tengono più. Questa mitologia si sta chiaramente sfaldando.
Qualcos’altro sta accadendo. Sta venendo raccolta sia dagli stessi Africani
che, per quanto sembri strano, dal mondo dell’alta finanza. Un tacito consenso
si sta formando attorno all’idea che dopo la Cina, quello che sta accadendo in
Africa avrà un enorme impatto non solo sulla stessa Africa ma sul nostro
pianeta. Il tacito consenso emergente è che il destino del nostro
pianeta si giocherà, in larga misura, in Africa.
Se c’è
una singola idea che vorrei tratteneste da questo intervento, è proprio questa.
Questa
svolta planetaria del paradigma africano costituirà l’evento culturale e
filosofico centrale del 21° secolo. Ci porterà molto lontano dai miti hegeliani che ho
citato in apertura di questo discorso.
Tale svolta
planetaria è il risultato di uno spostamento concettuale in corso – e non
ancora del tutto manifesto – rispetto al quale vorrei fare tre
osservazioni.
Primo, che
l’Africa sia percepita gradualmente come il luogo in cui il nostro futuro
planetario è in ballo – o si sta giocando – è dovuto al fatto che, in tutto il
mondo e in particolare in Africa, concetti superati di spazio e tempo basati su
nozioni lineari di sviluppo e progresso stanno per essere rimpiazzati da nuovi
concetti di tempo e orizzonti futuri fondati su modelli di racconto aperti.
Secondo, nel
continente stesso, il futuro dell’Africa è pensato sempre più come pieno di
possibilità inattuali, di mondi agognati, di potenzialità. Molti credono sempre
più che tramite l’auto-organizzazione e piccole rotture, si possa realmente
creare miriadi di “punti critici” che potrebbero portare a profonde alterazioni
della direzione che il continente sta prendendo.
Terzo, in
effetti, è ormai una questione di tacito consenso, specialmente tra istituzioni
finanziarie ed esperti internazionali, che l’Africa rappresenti
l’ultima frontiera del capitalismo.
Lasciatemi
finire dove ho cominciato: con Hegel, cioè, con la razza e il razzismo, e il
futuro della specie umana in questa era post-hegeliana e la svolta planetaria
del paradigma africano. La razza è ancora una volta rientrata nella sfera della
verità biologica, osservata a livello molecolare. Una nuova evoluzione
molecolare della razza è emersa dal pensiero genomico.
In tutto il
mondo, siamo testimoni di un rinnovato interesse in termini di identificazione
di diversità biologiche. In questi tempi di migrazioni globali, molti stanno
cullando il sogno di “Nazioni senza stranieri”. La genomica ha iniettato nuova
complessità nell’immagine dell’umano. E tuttavia la tipologia razziale centrale
del 19° secolo procura tuttora la lente dominante attraverso cui viene compresa
questa nuova conoscenza genetica della diversità umana – e, in effetti, si
stanno formando e sviluppando nuovi concetti di natura medica e laica della
variazione umana.
Fondamentali
nella corrente di riarticolazione della razza e ricodificazione del razzismo
sono gli sviluppi delle scienze biologiche. Ho già menzionato la genomica.
Dovrei aggiungere la nostra rinnovata comprensione della cellula, della
neuroscienza e biologia sintetica. L’ultimo quarto del 20° secolo ha visto il
sorgere di uno stile di pensiero molecolare e neuro-molecolare che analizza
tutti i processi viventi del corpo e del cervello in termini di proprietà
materiali di componenti cellulari come basi DNA, canali ionici, potenziali di
membrana e affini. Questo processo è iniziato all’inizio del 20° secolo e ha
raggiunto il suo acme durante il suo ultimo quarto – e continua a esercitare un
influsso nel 21°.
È un
processo che è stato reso ancora più potente dalla sua convergenza con due
sviluppi paralleli. Il primo è l’emergere delle tecnologie digitali dell’era
informatica, e il secondo è la finanziarizzazione dell’economia. Questi
sviluppi hanno a loro volta creato due serie di conseguenze. Da un lato, questa
è una rinnovata preoccupazione per il futuro della vita stessa, e dall’altro,
il capitale sta operando in modo nuovo nelle condizioni attuali. Grazie al
lavoro del capitale, non siamo più radicalmente diversi dalle cose. Le
trasformiamo in persone. Ce ne innamoriamo. Non siamo più solo persone, o forse
non siamo mai stati solo persone.
Ora ci
rendiamo conto che nell’idea di razza c’è più di quanto Hegel aveva immaginato.
Nuove configurazioni di razzismo stanno emergendo ovunque. Poiché il concetto
di razza implica profonde domande sulla natura della specie umana in genere, la
necessità di ripensare le politiche di razzializzazione e i termini in base ai
quali si sviluppa la battaglia per la giustizia razziale – qui e ovunque nel
mondo – oggi è diventato sempre più urgente. Il razzismo agisce ancora come un
supplemento intrinseco del nazionalismo. Come creiamo un mondo oltre il
nazionalismo? Dietro il velo della neutralità e imparzialità, il potere
razziale dipende ancora strutturalmente da vari regimi legali per la sua
riproduzione. Come trasformiamo radicalmente la legge?
Cosa ancora
più minacciosa, la politica razziale sta prendendo una svolta genomica. Al fine
di rafforzare pensieri e prassi anti-razziste, e per rianimare il progetto di
non-razzismo, abbiamo particolarmente bisogno di esplorare i nessi emergenti
tra biologia, geni, tecnologie e le loro articolazioni con nuove forme di umana
miseria. Nella attuale riconfigurazione e mutazione della razza e del razzismo
è in gioco la divisione dell’umanità stessa in specie e sottospecie separate
come risultato della liberalizzazione del mercato e della tecnologia
genetica.
Sono pure in
gioco, di nuovo, le vecchie domande su chi è chi; chi può avanzare pretese su
chi, e su quale terreno; e chi possiede chi, e che cosa. In un ordine
neoliberale contemporaneo che si vanta di essere andato oltre il razziale, la
lotta per la giustizia razziale deve prendere nuove forme.
Ma guardando
semplicemente al passato e al presente, riarticolazioni locali e globali della
razza non basteranno. Per promuovere alternative possibili di pensiero sulla
vita e il futuro dell’uomo in questa era di individualismo neoliberale,
dobbiamo collegare in modi completamente diversi il progetto non-razzismo a
quello della solidarietà umana.
In ultima
istanza, non-razziale ha veramente a che fare con la condivisione radicale e
l’inclusione universale. Riguarda il genere umano che governa in comune in nome
di un bene comune più grande, che include non-umani – questo è il termine
esatto per democrazia. In questo senso, non-razzismo è l’antitesi del potere
del mercato. Il dominio del capitale sulla politica ha avuto come risultato
la perdita di innumerevoli vite umane e la produzione in ogni angolo del
mondo di vaste distese di terre aride e morte.
Per riaprire
il futuro del nostro pianeta a tutti coloro che lo abitano, dovremo imparare a
condividerlo di nuovo, tra i suoi abitanti umani e non umani, tra le molte
specie che lo popolano. È solo a queste condizioni che, consapevoli della
nostra precarietà come specie di fronte a minacce ecologiche, saremo in grado
di superare la prospettiva certa dell’estinzione umana che si è aperta in
questa nuova epoca, l’era dell’Antropocene.
* This
article originally
appeared in City Scapes, the publication of the
African Center for Cities.
La
traduzione è a cura di Gian Carlo Gianesin.
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