venerdì 25 maggio 2018

Ugo Mattei, Ilvo Diamanti, le fake news e il complotto di Internet - Gennaro Carotenuto




Ho letto con crescente disagio un lungo intervento molto condiviso in Rete di Ugo Mattei, Ordinario di diritto privato a Torino, esperto in particolare di beni comuni, e molto stimato anche nei movimenti sociali, che lo iscrive al partito degli apocalittici su Internet. Un paio di giorni fa Repubblica apriva, con Ilvo Diamanti, Ordinario di Scienza Politica a Urbino, su quanti italiani avrebbero veicolato (presunte) fake news diffuse dai social, un botto. Il sottotesto era che i social siano sinonimo di balle e che invece le bufale diffuse dal mainstream, da Repubblica come da Libero, da CNN o dal TG4, siano informazione professionale e seria.
Mi hanno colpito questi due interventi di autorevoli studiosi democratici perché ormai è dilagante la lettura della Rete come caotica terra incognita, luogo di complotti, grandi fratelli e pericoli per la democrazia, nonché di naturale dilagare del modello economico vigente, con le corporazioni, a braccetto con spioni e censori, che marcerebbero sul mondo in un nuovo fascismo. Dell’interpretazione di Internet come massima espressione di un villagio globale, dove la circolazione delle idee e la libertà di espressione possano essere garantite da autoritarismi e gerarchie, in questo scorcio di XXI secolo non vi è più traccia. Da Lovink a Morozov fino a Mattei, tanto più la Rete è parte indissolubile delle nostre vite, tanto più il net-pessimismo prevale.
Mi ha colpito in particolare Mattei, che mette insieme preoccupazioni ragionevoli, dal quanto energivora sia la Rete (ma una lettera cartacea resta più energivora di un email!), a timori sulla debolezza legale dell’individuo rispetto alle corporazioni digitali, a tesi francamente azzardate. Per Mattei sarebbe un dramma che oggi nessuno possa più scrivere a mano un biglietto di treno (sic), ed è terrorizzato da chi controlli l’hardware della Rete. Le dorsali interoceaniche (le autostrade dell’informazione) sono un mistero e un pericolo mortale, trascurando che il primo cavo sottomarino fu posato quando ancora in Francia regnava Luigi Filippo d’Orleans e a Roma Gregorio XVI. Sono 170 anni che ci spiano intercettando comunicazioni sotto il mare, ma sono 170 anni che le usiamo per conoscere il mondo.
Per Mattei la Rete è dunque il luogo dove si realizzerebbero le Costituenti tecno-fasciste che, da Putin a Trump a Xi, starebbero svuotando la democrazia. Avendo fatto per anni da postino di articoli e siti censurati ad amici cubani (che peraltro dovevano il loro isolamento anche al fatto che a Cuba era impedito posare cavi sottomarini) mi risulta indigeribile l’idea che Internet non sia un meraviglioso strumento di circolazione di idee. Ma soprattutto, avendo insegnato per 15 anni “storia dei media digitali”, ho trasmesso a una generazione di studenti l’idea che proprio la struttura decentralizzata e reticolare di Internet fosse la base politico-culturale – ideologica – della stessa e che, per quanto facciano governi e corporazioni, la sua essenza democratizzante.
L’Internet dalla quale è spaventato Mattei invece non è una rete, è centralizzata. I server di Internet (verificabili, per proprietà e geolocalizzazione, con strumentini vecchi di quarant’anni come ping o whois) non sarebbero un reticolo di milioni di macchine senza gerarchia sparso in tutto il mondo, ma sarebbero da qualche parte segreta nel vecchio West (o forse in Canada, per Mattei “non v’è certezza”, sic). Soprattutto per il giurista piemontese vi sarebbe un pulsantone, che chiama Master Switch (facendo una rilettura complottista del noto saggio di Tim Wu) “in un sottomarino nucleare al largo di Seattle” dal quale si controllerebbe e si potrebbe addirittura spegnere la Rete. Si mormora.
In realtà Wu diceva ben altro che pensare a un interruttore della Rete, e cioè che ogni mezzo di comunicazione tenderebbe col tempo a piegarsi a una logica di concentrazione economica. Vero, ma se oggi quattro amici al bar non possono fondare una televisione nazionale, esattamente come non potevano farsela a metà anni Cinquanta, possono ancora farsi un blog e, presumibilmente, potranno ancora farselo in futuro. Non solo questi possono farsi in mille maniere piccoli broadcaster ma, soprattutto, possono scambiarsi punto a punto informazioni in qualunque momento del giorno e della notte senza essere pendenti da un singolo strumento. Cade Whatsapp, ti contatto via Facebook, e sennò via email o in mille altri modi, non tutti controllati da corporazioni. Perfino con l’ipercontrollata Cina posso parlare quando voglio.
La Rete è un luogo problematico? Vero, ma né più né meno (semmai meno) della nostra società. Ci spiano? Certo, anche se al 99% ci profilano come consumatori. Fanno profitti con noi utenti? Questo è poco ma è sicuro, come li fa il nostro salumiere. Possiamo/vogliamo rinunciarci? Personalmente no. Voglio fare il biglietto del treno da sotto il piumone e, pensando cose spesso antitetiche al mainstream, voglio continuare a poterle comunicare senza dover contrattare le mie idee – anche queste – con un editore, né finalizzarle a una utilità economica. Queste idee, ovviamente del tutto opinabili, non producono profitti, né per me né per chi legge. Voglio perfino, in determinati casi che darebbero per un altro post, che sia garantito l’anonimato, e non riesco a pensare luogo migliore della Rete per farlo.
Il problema non mi sembra Internet in sé, e l’opportunità storica mi sembra la caduta del paternalismo informativo che lasciava in balia de “La Stampa” o dei titoli del TG1 o a “L’Unità”, spesso per tutta la vita, generazioni intere nella loro interfaccia verso il mondo. Era quello il pluralismo? Continuo a considerare la Rete come il luogo che ha destrutturato le concentrazioni editoriali monopoliste e reso effettivo un pluralismo dell’informazione mai esistito prima nella storia dell’umanità, sostanzialmente irreversibile e pressoché impossibile da controllare da qualunque potere costituito (che ovviamente cerca di farlo, ma la Rete è bella anche perché le sue maglie sono piene di buchi).
Il problema dunque è che la caduta di autorevolezza e centralità del paternalismo informativo non si accompagni alla crescita del pensiero critico nella società, al possesso di capacità di analisi da parte di fasce crescenti della società che solo il rafforzamento, non l’indebolimento di scuola e università, possono dare.
Non esiste alcun Master Switch di Internet, il pulsantone di spegnimento di Internet che secondo Mattei sarebbe in un sottomarino nucleare gringo al largo di Seattle, mentre temo che esista un master switch della capacità critica delle persone manipolate – dalla Rete o dal mainstream? – a prendersela non con il modello sociale vigente e con le classi dirigenti ma, per esempio, con gli immigrati e altri soggetti deboli.
Detto ciò, gli spazi per la libertà di espressione e la circolazione di idee non sono mai stati così ampi nella storia, checché possa o voglia fare Putin o Trump o Zuckerberg e finché al mondo ci saranno due nodi della Rete funzionanti, di centinaia di milioni, il protocollo TCP/IP troverà il modo di instradare un emoticon dall’uno all’altro. Il problema è che il pensiero critico, non degli ottimi Mattei e Diamanti, ci mancherebbe, è come il coraggio di Don Abbondio; se non si possiede non ci se lo può dare. Nonostante Internet.
Qui, tra i molti siti che hanno ripubblicato Mattei.


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