Sentiamo
spesso parlare di finanziarizzazione dell’economia senza capirne a fondo il
significato. Ma ciò che sta
attraversando l’Argentina è un tipico esempio di economia sacrificata
sull’altare della finanza che dà ragione delle parole scritte da
Papa Francesco nel libro curato da Zanzucchi: «Quando si verifica il crollo di
una finanza staccata dall’economia reale, tanti pagano le conseguenze e tra i
tanti soprattutto i poveri e quanti poveri diventano, mentre i ricchi in un
modo o nell’altro spesso se la cavano.»
L’Argentina è tornata all’onore delle cronache
perché la sua situazione economica sembra averla riportata al 2001
quando si trovò con un tale debito estero da dover dichiarare fallimento. Allora come oggi, i segnali erano un pesos in caduta
libera, la crescita del debito pubblico, un’alta inflazione, un forte debito
commerciale e finanziario verso l’estero. Per uscire dalla crisi, Nestor
Kirchner, che rimase al potere dal 2003 al 2010, aveva puntato su una politica
articolata che comprendeva la ristrutturazione del debito pubblico,
la limitazione del movimento dei capitali, una politica monetaria e
creditizia che favorisse gli investimenti produttivi da parte
dell’imprenditoria nazionale. E benché molti gli abbiano contestato di non
avere fatto abbastanza per fare aumentare i salari e per ridurre la
povertà, tutti gli riconoscono il merito di avere saputo condurre l’Argentina
fuori dalla palude. Ma la corsa cominciò a frenare nel 2008, allorché la crisi
mondiale impattò negativamente anche sull’Argentina che gradatamente tornò a
confrontarsi con i suoi demoni storici: inflazione,
debito pubblico e disavanzo estero. Per di più nel 2012 arrivò la
tegola dei fondi avvoltoi che non riconoscendo la ristrutturazione effettuata
nel 2001 pretendevano la restituzione piena del valore nominale dei titoli con
l’aggiunta degli interessi e delle more. Una partita che è stata chiusa nel
2016 dal governo successivo con un esborso di 9 miliardi dollari a danno degli
argentini.
Nel 2015,
quando cessò l’era Kirchner, prima gestita dal marito, poi dalla moglie,
l’Argentina non navigava in ottime acque, ma disponeva di
meccanismi per evitare la totale disfatta sociale ed economica. Poi
arrivò Mauricio Macrì, convinto
sostenitore della teoria neoliberista secondo la quale il sereno torna da solo
se si libera il mercato da tasse, lacci e lacciuoli. Detto fatto, per prima
cosa tolse ogni meccanismo di difesa del pesos e lasciò che si attestasse sul
valore deciso dal mercato tramite il libero incontro fra offerta e
domanda. Era il dicembre 2015 e il pesos, in un
solo giorno, si svalutò del 30 per cento per la gioia delle multinazionali
dell’agroindustria e dell’industria estrattiva che essendo al tempo
stessi produttori e acquirenti, hanno tutto l’interesse a fare uscire dal paese
prodotti a basso prezzo che poi generano guadagni nelle fasi di rivendita
successiva sotto forma di dollari riparabili nei paradisi fiscali. E per non
lasciare le cose a metà, Macri tolse anche tutti i limiti alle esportazioni
creando una situazione concorrenziale fra la domanda interna e quella
internazionale che ebbe la peggio per la domanda interna. Il prezzo interno di
soia e cereali crebbe addirittura del 150% mettendo in crisi non solo i
consumatori finali, ma anche l’industria intermedia della carne.
Contemporaneamente anche le importazioni vennero rimesse in totale libertà e
nonostante la svalutazione del pesos, i
manufatti stranieri invasero l’Argentina mettendo in crisi settori chiave del
paese come l’industria tessile, meccanica e calzaturiera. La
conclusione è stata che fra il 2016 e il 2017 le importazioni hanno superato di
gran lunga le esportazioni generando un deficit commerciale verso l’estero per
14 miliardi di euro.
Ma le cose sono andate di male in peggio anche sul
piano sociale e finanziario. Sul piano sociale il paese sta registrando una crescita della disoccupazione
per licenziamenti non solo in ambito privato, ma anche pubblico come conseguenza del dogma neoliberista che impone allo stato di
ridurre la sua presenza in tutti gli ambiti, sia quello dei servizi
che del sostegno sociale. E’ del dicembre 2017 una sforbiciata alle pensioni di
anzianità e ai contributi a favore delle categorie svantaggiate con
contemporanea soppressione delle integrazioni a luce, acqua e gas che hanno
rappresentato una vera mazzata per i salari già bassi e taglieggiati da un inflazione
che fra il 2016 e il 2017 è stata del 65 per cento.
La giustificazione del governo è che deve
risparmiare per riportare i conti pubblici in pareggio considerato che nel 2016 ha registrato un deficit di
32 miliardi di dollari, 6,3 per cento del Pil. Un male non casuale considerato
il minor gettito fiscale dovuto ai tagli di imposta sulle esportazioni e sui
redditi più alti e il maggior esborso per interessi su un debito pubblico che
sta crescendo, non per finanziare servizi e opere pubbliche a vantaggio della
collettività, ma per ripristinare riserve in dollari che si
stanno prosciugando a causa della possibilità data alle classi agiate di
accumulare dollari all’estero. Un film già visto al tempo della
giunta militare.
Al grido di libertà, Macrì ha tolto ogni limite alla
possibilità di esportare capitali all’estero e gli argentini più ricchi ne
hanno approfittato. Fra il
2016 e il 2017, i dollari acquistati dagli argentini ammontano a 76 miliardi,
che depurati dei capitali in entrata danno una fuga netta di capitali pari a 32
miliardi di dollari. Un esborso, che sommato al deficit nella bilancia
commerciale, porta a circa 50 miliardi di dollari di disavanzo verso l’estero
che il governo argentino ha cercato di riequilibrare con misure di richiamo di
capitali esteri emettendo titoli di debito pubblico a tassi elevatissimi, fino
al 30 per cento. La conclusione è che
fra il 2016 e il 2017 il debito pubblico argentino è aumentato di 73
miliardi di dollari mentre è previsto che per il 2018 possa aumentare di altri
47. In tre anni, insomma, il governo Macrì ha regalato
all’Argentina 120 miliardi di nuovo debito, più di quanto non abbiano fatto i
coniugi Kirchner in 12 anni. Al 31 dicembre 2017 il debito pubblico argentino
ammontava a 300 miliardi di dollari di cui 160 verso l’estero. Magari soldi
precedentemente fuggiti dall’Argentina che tornano nel proprio paese per
riscuotere la lauta rendita in dollari assicurata dallo stato. In Argentina la spesa per interessi è la
prima voce di spesa pubblica rappresentando il 28 per cento del bilancio.
E considerato che non ci saranno abbastanza soldi per pagarli
verrà chiesto nuovo debito su cui saranno pagati nuovi interessi in una corsa
senza fine tipica dell’anatocismo, un meccanismo che noi italiani conosciamo
molto bene.
Ma ora il governo argentino deve vedersela con un
nuovo concorrente che si chiama Stati Uniti d’America. Anche Trump è in cerca di capitali
per finanziare un debito crescente e pur di ottenerli ha aumentato il tasso di
interesse sui titoli di stato americano che dal gennaio all’aprile 2018 sono
passati dal 2,4 al 3%. E ritenendoli più sicuri dei titoli argentini, molti investitori hanno deciso di
abbandonare l’Argentina e dirigersi verso gli Stati Uniti, provocando nel 2018,
in soli quattro mesi, un saldo negativo nel movimento dei capitali pari a 7
miliardi di dollari. Il resto è venuto da sé: ulteriore
svalutazione del pesos del 12 per cento nel solo mese di aprile ed inutile
rialzo dei tassi di interesse al 40 per cento. L’emorragia è continuata e Macrì
è dovuto volare a New York per chiedere al Fondo Monetario Internazionale un
prestito di almeno 30 miliardi di dollari. Lagarde non lo ha rimproverato per i
danni fatti. Anzi lo ha accolto a braccia aperte: mandare un paese in rovina
per servire il neoliberismo non è reato, ma semplice effetto indesiderato.
da qui
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