martedì 22 maggio 2018

Qualcosa di nuovo a Gaza - Lorenzo Guadagnucci



La scrittrice palestinese Suad Amiry in un’intervista uscita sul manifesto ha evocato finalmente il tema della nonviolenza con riguardo a a quel che sta avvenendo a Gaza e in generale alla lotta in corso da decenni in Palestina. Amiry dice che la Marcia del ritorno e le proteste in corso ai confini della Striscia sono una forma di “resistenza non violenta e popolare. Famiglie, donne, ragazzi preoccupano Israele perché è una resistenza che non può battere”.
Si è detto spesso, negli anni passati, che ai palestinesi è mancato un Gandhi o un  Martin Luther King, e tuttora, a dire il vero, non si intravedono guide politiche di simile spessore, ma soprattutto è mancata quella che Aldo Capitini chiamava persuasione: la convinzione personale, civile e politica della forza della nonviolenza, da scrivere appunto in unica parola, per non confonderla con la semplice assenza di violenza. La nonviolenza di Capitini (e Gandhi e King e molti altri) è una strategia politica di liberazione, è lotta politica in grado di sovvertire l’ordine delle cose verso più libertà, più democrazia, più giustizia sociale. La politica palestinese non ha mai sposato questa visione, per quanto non manchino in Palestina movimenti d’azione nonviolenta.
Le proteste in corso a Gaza sono “popolari e non violente” come dice Amiry, ma non sono ancora, a quel che sembra, parte di un’autentica strategia di lotta nonviolenta. Non c’è ancora un chiaro indirizzo politico collettivo e le stesse azioni di protesta potrebbero avere connotati nonviolenti più limpidi, più evidenti, più coinvolgenti, con le mille forme che l’azione diretta può assumere.
Lo stato di Israele – ha ragione Amiry – è messo in difficoltà dalla protesta popolare e non armata in corso a Gaza: l’esercito preferisce confrontarsi con azioni violente, magari condotte con esplosivi e armi da fuoco, perché è cosciente della propria superiorità militare e perché gli interventi contro le “azioni terroristiche” sono facilmente giustificabili nel discorso pubblico. Nelle settimane scorse a Gaza l’esercito israeliano ha scelto comunque  la via della carneficina, alzando per l’ennesima volta la posta, ma potrebbe aver compiuto un errore esiziale, perché Israele si è esposto al biasimo interno e internazionale.
La reazione delle cancellerie, si dirà, è stata debole, ma intanto c’è stata, e le incerte giustificazioni portate dal governo israeliano (le decine di vittime indicate come terroristi, il pericolo di una violazione dei confini, la responsabilità attribuita ad Hamas di manipolare i propri cittadini) non hanno convinto e non reggeranno a un’eventuale inchiesta internazionale sui massacri. L’opinione pubblica israeliana è stata condotta dal governo Netanyahu lungo un binario sempre più fosco di militarizzazione e isolamento. Quanto potrà reggere, in Israele, tanta tensione?
C’è un’occasione da cogliere. Se a Gaza si riuscirà a sviluppare la protesta popolare in corso verso un’autentica strategia nonviolenta che punti a coinvolgere l’opinione pubblica israeliana e internazionale, la vicenda palestinese potrebbe giungere davvero a un punto di svolta. L’esercito israeliano è in difficoltà e fatica sempre più a sostenere, come è costretto a fare da decenni, d’essere l’esercito “più morale” al mondo: una retorica necessaria a giustificare agli occhi dei suoi stessi soldati la guerra asimmetrica che conduce, con militari di leva ben armati che affrontano civili, ragazzi, persone comuni in un’evidente disparità di forze. Non c’è niente di morale nel massacrare decine di persone disarmate e tutti lo sanno, i governanti israeliani, come i soldati e i cittadini: c’è quindi un varco che si apre, nonostante le roboanti dichiarazioni di ministri e generali.
Israele, nonostante tutto, è ancora una società pluralista e una lotta nonviolenta del popolo palestinese troverebbe appoggi e consensi in un’opinione pubblica che si ricompatta quando esercito e governo possono alzare la bandiera della difesa dei confini e del contrasto al terrorismo. Il passato, in questo senso, pesa molto. Un radicale, convinto ed evidente cambio di rotta nella politica palestinese provocherebbe alla lunga un terremoto nella società e nella politica israeliana.  
Ha ragione Amiry: Israele non può sconfiggere la resistenza popolare disarmata. A Gaza non c’è un Gandhi, ma forse non c’è bisogno di un Gandhi per aprire una stagione nuova e scommettere finalmente, senza riserve, sulla forza rivoluzionaria della nonviolenza. Non è facile, perché una svolta del genere implica grande maturità politica e una forte coesione sociale, mentre a Gaza la rabbia cresce, la vita è impossibile, la situazione sul terreno improba, eppure, se ha ragione Suad Amiry, qualcosa di nuovo è forse già in costruzione.
da qui


ecco l'intervista di Chiara Cruciati a Suad Amiry:


«Se domani Milano, Roma, Napoli venissero messe sotto assedio, come reagireste?». Così Suad Amiry risponde a chi in questi giorni (governi e stampa occidentale) pare incapace di descrivere per quel che è la Grande Marcia del Ritorno di Gaza. Architetto, tra le più note scrittrici palestinesi, era ieri a Firenze per un incontro organizzato dall’Associazione di Amicizia Italo-Palestinese.
Oggi i palestinesi, nella diaspora e nella Palestina storica, commemorano la Nakba mentre a Gaza è in corso una strage. La Nakba continua, ma continua anche la lotta palestinese per il ritorno.
Israele va ripetendo bugie: il responsabile delle violenze è Hamas. Per cosa esattamente è responsabile? Da tre anni non usa armi. Partiamo da questo: è impensabile mettere due milioni di persone dentro una prigione per 11 anni, impedendogli di studiare, muoversi, curarsi, uscire. La gente è disperata, davvero disperata. Se succedesse a voi? Oggi siamo a 70 anni dalla Nakba, quando siamo stati cacciati dalle nostre terre. La mia famiglia è stata cacciata da Gerusalemme, so che significa essere un profugo che non può tornare a casa. La Nakba continua: confiscano le nostre terre, costruiscono colonie. E ora gli Stati uniti si comportano come cent’anni fa fece la Gran Bretagna: Trump ha promesso Gerusalemme agli israeliani come Balfour promise la Palestina al movimento sionista. Eppure stiamo mettendo in difficoltà Israele: queste manifestazioni sono resistenza non violenta e popolare. Famiglie, donne, ragazzi preoccupano Israele perché è una resistenza che non può battere.
Da generazioni i palestinesi vivono la cacciata dalle proprie terre come un fatto temporaneo. Quanto questo senso di temporaneità, ma allo stesso tempo di precarietà, ha plasmato il popolo palestinese?
Per lungo tempo i palestinesi hanno provato in ogni modo a mantenere viva la speranza, anche con l’accettazione di Israele e della soluzione a due Stati, senza ottenere nulla. In mancanza di una soluzione il sentimento di instabilità, precarietà, preverrà impedendo la formazione di una società normale. L’altro elemento di cui tener conto è quello dell’assenza, un concetto che mi ossessiona: Israele ci considera assenti anche se siamo lì, a pochi chilometri. Assenti significa inesistenti.
Nonostante l’uso israeliano di forza letale senza alcuna giustificazione, la narrazione prevalente è quella della legittima «difesa dei confini». Il reale contesto di deprivazione e di lotta per la libertà dei palestinesi scompaiono. È una novità nel panorama internazionale o una narrativa consolidata a Occidente?
La narrativa israeliana è diventata quella europea e americana. La cultura occidentale ha fatto propria quella visione. Non esiste più una contro-narrativa, ma una mera accettazione delle politiche di Israele.
Nei suoi libri, da «Golda ha dormito qui» all’ultima opera «Damasco», sono centrali i concetti della perdita e della nostalgia, accanto a quello della memoria. Quanto ritrova di quei sentimenti nelle mobilitazioni di queste settimane?

Uno dei limiti che noi palestinesi abbiamo è il non parlare delle perdite personali subite. Non siamo stati capaci di raccontare le storie personali. Allora come oggi. Cosa significa per una famiglia aver perso lunedì un figlio o un marito, non vederlo tornare a casa, non trovarlo più nella sua stanza? Qualche anno fa durante le manifestazioni in Libano per la Nakba, un amico, Munib al-Masri, fu colpito dai proiettili israeliani e rimase paralizzato. Ho seguito la sua storia, cosa ha significato l’aver abbandonato la scuola, aver viaggiato all’estero sperando di tornare in piedi. Noi palestinesi siamo rimasti dei numeri. Nei miei racconti provo a fare questo: raccontare le storie individuali, non solo quella collettiva. Quando scrivo della perdita della mia scuola, del mio quartiere, del mio tinello, racconto cosa vuol dire Nakba per ognuno di noi. E dunque per l’intera società, per tutto il popolo.


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