La
scrittrice palestinese Suad Amiry in un’intervista uscita sul manifesto ha
evocato finalmente il tema della nonviolenza con riguardo a a quel che sta
avvenendo a Gaza e in generale alla lotta in corso da decenni in Palestina.
Amiry dice che la Marcia del ritorno e le proteste in corso ai confini della
Striscia sono una forma di “resistenza non violenta e popolare. Famiglie,
donne, ragazzi preoccupano Israele perché è una
resistenza che non può battere”.
Si è detto
spesso, negli anni passati, che ai palestinesi è mancato un Gandhi o un
Martin Luther King, e tuttora, a dire il vero, non si intravedono guide
politiche di simile spessore, ma soprattutto è mancata quella che Aldo Capitini
chiamava persuasione: la convinzione personale, civile e politica della forza
della nonviolenza, da scrivere appunto in unica parola, per non confonderla con
la semplice assenza di violenza. La nonviolenza di Capitini (e Gandhi e King e
molti altri) è una strategia
politica di liberazione, è lotta politica in grado di sovvertire
l’ordine delle cose verso più libertà, più democrazia, più giustizia sociale.
La politica palestinese non ha mai sposato questa visione, per quanto non
manchino in Palestina movimenti d’azione nonviolenta.
Le proteste
in corso a Gaza sono “popolari e non violente” come dice Amiry, ma non sono
ancora, a quel che sembra, parte di un’autentica strategia di lotta
nonviolenta. Non c’è ancora un chiaro indirizzo politico collettivo e le stesse
azioni di protesta potrebbero avere connotati nonviolenti più limpidi, più
evidenti, più coinvolgenti, con le mille forme che l’azione diretta può
assumere.
Lo stato di
Israele – ha ragione Amiry – è messo in difficoltà dalla protesta popolare e
non armata in corso a Gaza: l’esercito
preferisce confrontarsi con azioni violente, magari condotte con
esplosivi e armi da fuoco, perché è cosciente della propria superiorità
militare e perché gli interventi contro le “azioni terroristiche” sono
facilmente giustificabili nel discorso pubblico. Nelle settimane scorse a Gaza
l’esercito israeliano ha scelto
comunque la via della carneficina, alzando per l’ennesima volta la
posta, ma potrebbe aver compiuto un errore
esiziale, perché Israele si è esposto al biasimo interno e
internazionale.
La reazione
delle cancellerie, si dirà, è stata debole, ma intanto c’è stata, e le incerte
giustificazioni portate dal governo israeliano (le decine di vittime indicate
come terroristi, il pericolo di una violazione dei confini, la responsabilità
attribuita ad Hamas di manipolare i propri cittadini) non hanno convinto e non
reggeranno a un’eventuale inchiesta internazionale sui massacri. L’opinione
pubblica israeliana è stata condotta dal governo Netanyahu lungo un binario
sempre più fosco di militarizzazione e isolamento. Quanto potrà reggere, in
Israele, tanta tensione?
C’è un’occasione da cogliere. Se a Gaza si riuscirà a sviluppare
la protesta popolare in corso verso un’autentica strategia nonviolenta che
punti a coinvolgere l’opinione pubblica israeliana e internazionale, la vicenda
palestinese potrebbe giungere davvero a un punto di svolta. L’esercito
israeliano è in difficoltà e fatica sempre più a sostenere, come è costretto a
fare da decenni, d’essere l’esercito “più morale” al mondo: una retorica
necessaria a giustificare agli occhi dei suoi stessi soldati la guerra
asimmetrica che conduce, con militari
di leva ben armati che affrontano civili, ragazzi, persone comuni in
un’evidente disparità di forze. Non c’è niente di morale nel massacrare
decine di persone disarmate e tutti lo sanno, i governanti israeliani, come i
soldati e i cittadini: c’è quindi un varco che si apre, nonostante le roboanti
dichiarazioni di ministri e generali.
Israele,
nonostante tutto, è ancora una società pluralista e una lotta nonviolenta del
popolo palestinese troverebbe appoggi e consensi in un’opinione pubblica che si
ricompatta quando esercito e governo possono alzare la bandiera della difesa
dei confini e del contrasto al terrorismo. Il passato, in questo senso, pesa
molto. Un radicale, convinto ed evidente cambio
di rotta nella politica palestinese provocherebbe alla lunga un terremoto
nella società e nella politica israeliana.
Ha ragione
Amiry: Israele non può sconfiggere la resistenza popolare disarmata. A Gaza non
c’è un Gandhi, ma forse non c’è bisogno di un
Gandhi per aprire una stagione nuova e scommettere
finalmente, senza riserve, sulla forza rivoluzionaria della nonviolenza. Non è
facile, perché una svolta del genere implica grande maturità politica e
una forte coesione sociale, mentre a
Gaza la rabbia cresce, la vita è impossibile, la situazione sul terreno
improba, eppure, se ha ragione Suad Amiry, qualcosa di nuovo è forse già in
costruzione.
da qui
ecco l'intervista di Chiara Cruciati a Suad Amiry:
ecco l'intervista di Chiara Cruciati a Suad Amiry:
«Se domani Milano, Roma, Napoli venissero messe sotto assedio, come
reagireste?». Così Suad Amiry risponde a chi in questi giorni (governi e stampa
occidentale) pare incapace di descrivere per quel che è la Grande Marcia del
Ritorno di Gaza. Architetto, tra le più note scrittrici palestinesi, era ieri a
Firenze per un incontro organizzato dall’Associazione di Amicizia
Italo-Palestinese.
Oggi i palestinesi, nella
diaspora e nella Palestina storica, commemorano la Nakba mentre a Gaza è in
corso una strage. La Nakba continua, ma continua anche la lotta palestinese per
il ritorno.
Israele va ripetendo bugie: il responsabile delle violenze è Hamas. Per
cosa esattamente è responsabile? Da tre anni non usa armi. Partiamo da questo:
è impensabile mettere due milioni di persone dentro una prigione per 11 anni,
impedendogli di studiare, muoversi, curarsi, uscire. La gente è disperata,
davvero disperata. Se succedesse a voi? Oggi siamo a 70 anni dalla Nakba,
quando siamo stati cacciati dalle nostre terre. La mia famiglia è stata
cacciata da Gerusalemme, so che significa essere un profugo che non può tornare
a casa. La Nakba continua: confiscano le nostre terre, costruiscono colonie. E
ora gli Stati uniti si comportano come cent’anni fa fece la Gran Bretagna:
Trump ha promesso Gerusalemme agli israeliani come Balfour promise la Palestina
al movimento sionista. Eppure stiamo mettendo in difficoltà Israele: queste
manifestazioni sono resistenza non violenta e popolare. Famiglie, donne,
ragazzi preoccupano Israele perché è una resistenza che non può battere.
Da generazioni i palestinesi
vivono la cacciata dalle proprie terre come un fatto temporaneo. Quanto questo
senso di temporaneità, ma allo stesso tempo di precarietà, ha plasmato il
popolo palestinese?
Per lungo tempo i palestinesi hanno provato in ogni modo a mantenere viva
la speranza, anche con l’accettazione di Israele e della soluzione a due Stati,
senza ottenere nulla. In mancanza di una soluzione il sentimento di
instabilità, precarietà, preverrà impedendo la formazione di una società
normale. L’altro elemento di cui tener conto è quello dell’assenza, un concetto
che mi ossessiona: Israele ci considera assenti anche se siamo lì, a pochi
chilometri. Assenti significa inesistenti.
Nonostante l’uso israeliano di
forza letale senza alcuna giustificazione, la narrazione prevalente è quella
della legittima «difesa dei confini». Il reale contesto di deprivazione e di
lotta per la libertà dei palestinesi scompaiono. È una novità nel panorama
internazionale o una narrativa consolidata a Occidente?
La narrativa israeliana è diventata quella europea e americana. La cultura
occidentale ha fatto propria quella visione. Non esiste più una
contro-narrativa, ma una mera accettazione delle politiche di Israele.
Nei suoi libri, da «Golda ha
dormito qui» all’ultima opera «Damasco», sono centrali i concetti della perdita
e della nostalgia, accanto a quello della memoria. Quanto ritrova di quei
sentimenti nelle mobilitazioni di queste settimane?
Uno dei limiti che noi palestinesi abbiamo è il non parlare delle perdite
personali subite. Non siamo stati capaci di raccontare le storie personali.
Allora come oggi. Cosa significa per una famiglia aver perso lunedì un figlio o
un marito, non vederlo tornare a casa, non trovarlo più nella sua stanza?
Qualche anno fa durante le manifestazioni in Libano per la Nakba, un amico,
Munib al-Masri, fu colpito dai proiettili israeliani e rimase paralizzato. Ho
seguito la sua storia, cosa ha significato l’aver abbandonato la scuola, aver
viaggiato all’estero sperando di tornare in piedi. Noi palestinesi siamo
rimasti dei numeri. Nei miei racconti provo a fare questo: raccontare le storie
individuali, non solo quella collettiva. Quando scrivo della perdita della mia
scuola, del mio quartiere, del mio tinello, racconto cosa vuol dire Nakba per
ognuno di noi. E dunque per l’intera società, per tutto il popolo.
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