Vivo dentro di me una contraddizione che se ci
penso, mi toglie il respiro. Trascinerò a breve in tribunale l’Inail e l’Inps,
quindi lo Stato. Quello Stato sulla cui Costituzione ho giurato nei tre mandati
da sindaco e che ogni giorno, mattina sera e anche spesso notte, servo e
presidio nella trincea più avanzata. Sì, li guardavo negli occhi i miei
compagni di lavoro in quella straordinaria assemblea a Ottana, una settimana
fa. Presenza forte di politici, sindacati, combattenti dell’Aiea, Associazione
contro l’amianto, persone comuni. Io scrutavo i volti dei miei colleghi, ne ho
colto la sofferenza intima, le paure, le angosce delle loro mogli e dei figli,
sono tornato come in flash back, indietro nel tempo e mi sono deciso a parlare
e confessare una verità che volevo nascondere anche a me stesso: anch’io porto
nel mio corpo i segni dell’asbestosi, convivo come tanti miei colleghi con
questa spia rossa accesa.
Certo, quando giro lo sguardo, dal mio ufficio
di sindaco e vedo i tetti di Orotelli, le case nuove e ordinate, la rivoluzione
di cultura e di stili di vita, rispetto agli anni Sessanta, non posso non
riconoscere il radicale cambiamento portato e imposto dall’epopea industriale
della media valle del Tirso. Passaggio rapido e repentino, rottura netta tra
una civiltà immobile, contadina, carri a buoi e scarponi bullonati, aratri e
botteghe di artigiani del ferro, case basse, igiene zero, servizi dietro
cespugli e muretti, povertà dignitosa, emigrazioni, intere generazioni in fuga
tra Francia, Belgio e Germania, da indici di esodo biblico. Ho vissuto quelle
stagioni e ho vissuto il cambiamento. Di ragazzi che maturavano dentro la
fabbrica, di pullman e treni carichi di studenti verso le scuole superiori
della città. Ho vissuto la rivoluzione dell’industria. E ora, come tanti miei
colleghi di lavoro, sono qui a rigirarmi tra le mani i certificati e le
descrizioni e le diagnosi dei medici dello Spresal dell’Assl. Oggi però
paghiamo un prezzo troppo alto, morti e malati che per vedere riconosciuti i
loro diritti sono costretti a rivolgersi ai giudici e attivare una lunghissima
e costosa, anche per lo Stato, trafila giudiziaria.
L’ho voluto dire di fronte a loro, in
quell’assemblea. Nessuno è immune. Un giorno nel 2005, mi decido alle visite
come esposto all’amianto. Da allora annualmente alla medicina del lavoro. Dalla
Tac risulta che la mia esposizione è stata undici volte superiore al normale,
risultano gli ispessimenti pleurici e le placche dovute all’attività
lavorativa: asbestosi. L’Inail, come per tutti, è ancora un muro vischioso di
gomma, per due volte ha respinto le domande di riconoscimento dell’esposizione
perché nel 1993 una relazione ha sancito che a Ottana l’esposizione all’amianto
non superava i limiti di legge. Le burocrazie ministeriali, portatrici sane di
morte lenta negano questo diritto solo alle fabbriche sarde e l’hanno
riconosciuto a quelli degli stabilimenti chimici del Continente, dove gli
impianti e i processi di lavorazione erano identici a quelli di Ottana.
Sostenuto dall’Associazione nazionale mutilati e invalidi sul lavoro (Anmil),
li trascino in tribunale. Voglio essere, proprio da servitore dello Stato, il
megafono di chi non ha voce. Ci hanno mollato per strada, metodo usa e getta.
Io non ho reddito da anni e anni, altri hanno perso la vita, altri convivono
con tumori espansivi aspettando la fine. Il mio paese ha la più alta
percentuale, dati Aiea, dei colpiti da asbestosi. Con il riconoscimento
dell’esposizione potrei andare in pensione. Invece devo aspettare e dire ai
miei cittadini che quelle istituzioni a cui ogni giorno invito a rivolgersi con
fiducia, costringono anche a me ad andare in tribunale.
Sì, uso il ruolo di sindaco per dare voce. Lo
dirò al Prefetto per cortesia istituzionale. Mi mancavano tre mesi per compiere
i 18 anni e ho varcato i cancelli della fabbrica che allora si chiamava Anic
nel 1974 come dipendente di un’impresa esterna per le manutenzioni. Montavamo
gli impianti, poi per 16 anni sino al 1990, coibentazioni. Le tubazioni ad alta
temperatura venivano coibentate con cuscini di amianto. Avevo la
specializzazione. Vivevamo a pane e amianto, tra le dodici linee dei polimeri,
producevano la fibra acrilica per il Pet. Amianto e lana di roccia, tra i
serbatoi dell’intero stabilimento. Zero informazione su rischi o su
precauzioni, zero mascherine, da nessuno è mai arrivata una nota, quelle che si
trovano anche nei tubetti di dentifricio: “leggere le istruzioni prima
dell’uso”.
Complicità implicite? Non lo so. So dei
silenzi e oggi, mettendo in fila storie e sensazioni, di colpevoli silenzi e
complicità di dirigenti, tecnici e sindacalisti. Anzi preferivamo lavorare
l’amianto rispetto alla lana di roccia, era meno abrasivo. E non posso tenermi
la rabbia dentro. Quando penso alla cultura di democrazia e di passioni che da
quella piana sono uscite. Sindaci, amministratori, i partiti popolari hanno
potuto attingere dalla ricchezza di quella straordinaria vicenda della fabbrica
di Ottana. Messa a disposizione di Istituzioni nei comuni e nelle comunità
della Barbagia, del Marghine e del Goceano, ponendosi come leva di profondi
cambiamenti. Siamo rimasti noi, con la nostra guerra in solitudine, contro lo
Stato che scappava con l’Eni, lasciando dietro di sé macerie, tumori, acque e
terre inquinate. Se qualcuno provava a mettere in discussione quelle procedure
di morti annunciate, veniva messo di fronte alla drammatica scelta: o i silenzi
o il lavoro. Il ricatto del secolo diventato doppio per i dipendenti delle ditte
esterne che, come me, non possono neanche vantare un rapporto diretto con
l’Eni.
Oggi non sto più zitto. Alziamo il grido, non
più dei singoli ma delle comunità che rappresentiamo. Occorre una guerra di
popolo come nei tornanti più duri e ne abbiamo scavalcato tanti nella nostra
storia. Bonifiche subito, lavoro, riconoscimento dei diritti negati finora.
Vivo in un bel paese, tra rocce e graniti modellati da un artista superiore,
tra il verde di pascoli, tra storia e cultura. Sollevo lo sguardo oltre la
croce di Crastidorzi, vedo l’orizzonte delle ciminiere spente ma che continuano
a sputare morte.
(*) ripreso da “Medicina Democratica” con
questa nota: “Ringraziamo per l’autorizzazione a pubblicare questa
significativa testimonianza da parte del giornale
L’Ortobene (lortobene.ita.newsmemory.com/). Si
tratta della testimonianza dell’ex sindaco di Ottana e riguarda la strage
operaia per l’esposizione all’amianto nel petrolchimico di quella città sarda,
lavoratori che faticano ad aver riconosciuto (almeno!) la malattia
professionale nonostante le evidenze dell’esposizione al cancerogeno amianto (e
non solo).
La lana di roccia, diversamente dall'amianto, non è cancerogena.
RispondiEliminaInfatti la IARC (International Agency for Research on Cancer, massimo esperto in materia ed afferente all’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha inserito lana di roccia e lana di vetro nel gruppo 3 “non classificabile come cancerogeno per gli esseri umani” (cfr. http://monographs.iarc.fr/ENG/Classification/latest_classif.php).
L’Unione Europea mantiene una classificazione più cautelativa, ma anch’essa riconosce che le lane minerali sono sicure se conformi alla "Nota Q" (ovvero bio-solubili, come quelle prodotte dai soci FIVRA).
Anche il d.lgs 81/2008 riconosce che lana di roccia e lana di vetro sono "agenti chimici" e non "agenti cancerogeni".