Da oggi, come si suol dire, «le
chiacchiere stanno a zero». Nel senso che le nostre parole (da sole) non ci
basteranno più. D’ora in poi dovremo metterci in gioco più direttamente,
più “di persona”: imparare a fare le guide alpine al Monginevro, i passeur sui
sentieri di Biamonti nell’entroterra di Ventimiglia, ad accogliere e
rifocillare persone in fuga da paura e fame, a presidiare campi rom minacciati
dalle ruspe. Perché saranno loro, soprattutto loro – non gli ultimi, quelli che
stanno sotto gli ultimi – le prime e vere vittime di questo governo che (forse)
nasce.
Dovremmo anche piantarla con le
geremiadi su quanto siano sporchi brutti e cattivi i nuovi padroni che battono
a palazzo. Quanto “di destra”. O “sovranisti”. Forse fascisti. O all’opposto
“neo-liberisti”. Troppo anti-europeisti. O viceversa troppo poco, o solo
fintamente. Intanto perché nessuno di noi (noi delle vecchie sinistre), è
legittimato a lanciare fatwe, nel senso che nessuno è innocente rispetto a
questo esito che viene alla fine di una lunga catena di errori, incapacità di
capire, pigrizie, furbizie, abbandoni che l’hanno preparato. E poi perché
parleremmo solo a noi stessi (e forse non ci convinceremmo nemmeno tanto). Il
resto del Paese guarda e vede in altro modo. Sta già altrove rispetto a noi.
Forse resta dubbioso sulla
realizzabilità dei programmi, forse indugia incerto per horror vacui, ma non si
sogna neppure di usare le vecchie etichette politiche del Novecento per
qualificare un evento fin troppo nuovo e nel suo contenuto sociale inedito,
come inedita è la struttura della società in cui è maturata la svolta.
Il fatto è che questo governo è la
diretta espressione del voto del 4 di marzo. E che quel voto ha costituito e
rivelato non un semplice riaggiustamento negli equilibri politici, ma un
terremoto di enorme magnitudine, una vera apocalisse culturale, politica e
sociale. Piaccia o non piaccia (a me personalmente non piace) ma questa
coalizione giallo-verde esprime – per quanto sia esprimibile – il messaggio
emerso più che maggioritariamente dalle urne. Traduce in termini istituzionali
l’urlo un po’ roco che veniva dalle due metà dell’Italia, e che diceva, con
toni e sotto colori diversi, che come prima non si voleva e non si poteva più
continuare. Che non se ne poteva più. E che quegli equilibri andavano rotti.
Fosse solo l’asse tra Cinque stelle e un
Pd de-renzizzato avrebbe potuto corrispondere a quegli umori (e malumori), ma
la presenza ingombrante del cadavere politico di Matteo Renzi in campo dem l’ha
reso impossibile. Non certo un governissimo con tutti dentro, avrebbe potuto
farlo. O un governo del Presidente. Che avrebbero finito per generare una
gigantesca bolla di frustrazione e rancore da volontà tradita, velenosa per la
democrazia quant’altra mai. Cosicché non restava che questo ibrido a
intercettare i sussurri e le grida di una composizione sociale esplosa,
spaesata e spaventata come chi abiti un paesaggio post-catastrofico,
geneticamente modificato da una qualche mutazione di stato.
Ed è questo il secondo punto su cui riflettere.
Questo nostro trovarci a valle di una «apocalisse» come l’ho chiamata, pensando
all’accezione in cui Ernesto De Martino usava l’espressione «apocalisse
culturale». Cioè una «fine del mondo» (questo era il titolo del suo libro).
Anzi, la fine di un mondo. Che è appunto la nostra condizione. Perché un mondo
è davvero finito. È andato in pezzi: il mondo nel quale si sono formate
pressoché tutte le nostre categorie politiche, e si sono strutturate tutte le
nostre pregresse identità, dalla destra alla sinistra, e si sono formalizzati i
nostri linguaggi e concetti e progetti. Nessuna di quelle parole oggi acchiappa
più il reale. Nessuno di quei modelli organizzativi riesce a condensare un
qualche collettivo. Nessuna di quelle identità sopravvive alla prova della
dissoluzione del “Noi” che parte dal default del lavoro e arriva a quello della
democrazia.
Continuiamo testardamente a cercar di
cacciare dentro il cavo vuoto dei nostri vecchi concetti i pezzi di una realtà
che non vuol prenderne la forma e si ribella decostruendosi prima ancor di
uscire di bocca. Continuiamo a sognare la bella unità tra diritti sociali e
diritti umani universali che il movimento operaio novecentesco aveva
miracolosamente realizzato, e non ci accorgiamo che non sono più “in asse”. Che
oggi i primi sono giocati contro i secondi, da questo stesso governo che a
politiche feroci sul versante della sicurezza – alla negazione dei diritti
umani – associa un’attenzione alle politiche sociali (per lo meno per quanto
riguarda il loro riconoscimento nel programma) sconosciuta ai precedenti.
Liquidiamo come «il più a destra, in
tutta la storia della Repubblica» questo governo (non è che il governo Tambroni
nel 1960 o quelli Berlusconi-Fini della lunga transizione scherzassero…), senza
riflettere sul fatto che i due partiti che lo compongono hanno in pancia una
bella percentuale di elettorato “di sinistra” (un buon 50% i cinque stelle, un
30% o giù di lì la Lega). Mentre pressoché tutta la stampa “di destra” (da
Vittorio Feltri a quelli del Foglio e del Giornale), i quotidiani mainstream,
gli opinion leaders “di regime” (pensiamo a Bruno Vespa), le agenzie di rating,
i Commissari europei, ostenta pollice verso. Qualcosa evidentemente si è rotto
nei meccanismi della nostra produzione di senso.
D’altra parte nemmeno il popolo è più
quello di una volta: il popolo dei populismi classici, unità morale portatrice
di virtù collettive, unito a coorte e pronto alla morte. È al contrario una
disseminazione irrelata di individualità. L’ha mostrato perfettamente la
ricerca su «Chi è il popolo» realizzata da un gruppo di giovani ricercatori
nelle nostre periferie e presentata sabato scorso a Firenze: il tratto comune a
tutte le interviste era l’assenza di denominatori comuni. La perdita del senso
condiviso della condizione e dell’azione. La scomparsa dall’orizzonte
esistenziale del conflitto collettivo, in un quadro in cui l’unica potenza
sociale riconosciuta, l’unico titolare del comando, è il denaro, inattingibile
nella sua astrattezza e quindi incontrastabile.
Se un nome vogliamo dargli, è
“moltitudine”, non tanto nel senso post-operaista del termine, come nuova
soggettività antagonistica, ma in senso post-moderno e post-industriale:
l’antica «classe» senza più forma né coscienza. Decostruzione di tutte le aggregazioni
precedenti. In qualche misura «gente»… Cosicché anche i populismi che si
aggirano, nuovi spettri, per il mondo sono populismi anomali: populismi senza
popolo.
Per questo è bene rimetterci in gioco
«in basso». Nella materialità della vita comune. Corpi tra corpi. A imparare il
nuovo linguaggio di un’esperienza postuma. Lasciando da parte, almeno per il
momento, ogni velleità di rappresentanza che non riuscirebbe a essere neppure
rappresentazione.
[da il manifesto]
Nessun commento:
Posta un commento