Il grande
esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia
Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di
anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi
seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione
di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A
sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su
circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è
approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno
chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi
seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con
l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.
Nel tempo si
sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano
l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero
sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici,
mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i
dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola
bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli
studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare – ad
esempio – gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella
prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o – chissà –
addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.
Anche l’affermazione che le prove non potevano
essere valutate e che l’Invalsi stessa sostenesse la non opportunità di
allenarsi ad esse stravolgendo la programmazione scolastica è progressivamente
caduta, sostituita
tutt’al più da generici suggerimenti di non eccedere negli allenamenti comunque
predisposti anche nei siti istituzionali.
Le resistenze diffuse opposte nei primi anni da
parte del personale docente e da gruppi di genitori organizzati si sono
progressivamente indebolite, lasciando oggi l’onere della contestazione del test a piccoli gruppi di
docenti determinati e a isolati genitori, mentre
le case editrici scolastiche hanno infarcito orrendamente i già poco appetibili
libri di testo di sfilze di quiz a risposta multipla.
La stessa
macchina Invalsi si è evoluta, traendo insegnamento dalle resistenze e
modificando la propria articolazione (nelle scuole medie e superiori ad esempio
disseminando le prove su un intero mese e automatizzando le procedure di
correzione, in modo da vanificare in gran parte l’indizione di scioperi)
estendendo in questo modo la capacità dei test di sconvolgere la normale
programmazione scolastica per tutta l’ultima parte dell’anno.
D’altra
parte, accanto a quello che sembra proprio un trionfo della macchina-Invalsi,
cresce un ostinato insieme di interventi critici che raccolgono, incrementano,
combinano e ripropongono le critiche che hanno accompagnato l’evoluzione del
Grande Esperimento in questi ultimi quindici anni. In questi testi interessanti
che circolano sulle riviste e nei social sono molti gli aspetti dei test
Invalsi che vengono messi in discussione; mi pare tuttavia che poco si sia
riflettuto seriamente su un aspetto, forse ingannati dall’apparentemente
inoppugnabile trasparenza della risposta, e cioè su chi fossero i soggetti
sottoposti all’esperimento.
Milgram
Facciamo un
passo indietro, al 1961. Il
sociologo statunitense Stanley Milgram organizza un esperimento di psicologia
sociale per raccogliere dati sulla possibilità dei soggetti di compiere azioni
in contrasto con i propri principi etici se sottoposti ad ordini provenienti da
un’autorità scientifica riconosciuta. Milgram è influenzato dal processo
Eichmann che si sta svolgendo in Israele e vuole scavare attorno
all’affermazione di tanti soggetti implicati nella Shoah che si difendono
affermando di aver solamente eseguito degli ordini.
Nell’esperimento
vengono contattate persone cui viene chiesto di collaborare ad una raccolta
dati in una serie di prove di apprendimento. Il loro compito consiste nel
somministrare un rinforzo negativo – scosse elettriche di intensità crescente –
ai soggetti che sbagliano le risposte. In realtà le scariche elettriche sono
finte e gli allievi che le ricevono sono collaboratori di Milgram che fingono
la sofferenza con grida e lamenti, mentre altri collaboratori – che
interpretano gli scienziati – sollecitano gli insegnanti a non derogare dal
protocollo sperimentale e ad infliggere le scosse previste.
I risultati dell’esperimento furono inquietanti: dei quaranta soggetti sottoposti alla
procedura una buona percentuale proseguì nel protocollo infliggendo scariche
elettriche visibilmente dolorose per molto tempo, in alcuni casi spingendosi
fino ad infliggere le scariche più intense sufficienti a far svenire
l’allievo. L’obbedienza spingeva cioè i soggetti a
derogare dai principi etici cui erano stati educati e nei
quali si riconoscevano. Questo stato
eteronomico, nel quale il soggetto non si considera più capace di prendere
decisioni autonome ed agisce come strumento delle decisioni di un’autorità
superiore, in questo caso era stato indotto dalla autorevolezza del
soggetto superiore che dettava gli ordini e il protocollo sperimentale: la
scienza. Era in nome dell’indiscutibilità della scienza che i soggetti
sottoposti all’esperimento rinunciavano ai propri principi etici, convinti di
operare secondo un principio superiore e di non essere responsabili delle
sofferenze inferte ai (finti) allievi.
Certo
influivano altri fattori sulla decisione di obbedire fino in fondo o di
interrompere l’azione, come la distanza da colui che riceveva le scariche
elettriche e la vicinanza e l’insistenza dello “scienziato”, ma tutti
risultavano subordinati alla trasformazione che il “protocollo scientifico”
operava sulla situazione, sul contesto. All’interno del contesto definito
dall’esperimento – piccolo tassello di quel grande apparato tendenzialmente
indiscutibile che si chiama Scienza – il soggetto riconosceva l’autorità del
“protocollo” e quindi la propria azione obbediente cessava di venir percepita
come immorale, ma al contrario appariva legittima e ragionevole.
Il Grande Esperimento Invalsi
Torniamo al
presente. Ai circa 50mila docenti della scuola
primaria impegnati nelle prove Invalsi viene consegnato ogni anno un Manuale
del somministratore. I test infatti, per affermazione degli stessi
scienziati Invalsi, sono rilevazioni scientifiche che devono svolgersi secondo un rigido protocollocui non
si può assolutamente derogare, pena la perdita di validità dei dati raccolti.
Così nel Manuale (nel 2017 contava 25 pagine) leggiamo i vincoli organizzativi
e metodologici che i docenti somministratori devono far rispettare a tutti i
soggetti testati, siano essi sedicenni o bambini e bambine di sette anni.
Vediamo alcune di queste regole.
Prima di
tutto l’insegnante viene investito dell’autorevolezza dell’apparato scientifico
che organizza il test. In carattere grassetto gli organizzatori
dell’esperimento si rivolgono al docente affermando che “in qualità di
Somministratore, lei è responsabile della somministrazione di questi strumenti
agli alunni della classe che le è stata assegnata”. La scelta dei termini
attraverso i quali viene affidato il compito non è certo casuale, la distanza
da una pratica didattica è evidente e netta, qui il docente viene interpellato
non più come tale, ma come “Somministratore
di strumenti”, deve svestire i suoi panni professionali per vestirne
altri e compiere azioni cui deve essere guidato. Nessuna autonomia di giudizio
può essere concessa: “Lei si attenga in maniera precisa e rigorosa [grassetto
nell’originale] alle procedure di seguito descritte” che – sole – permetteranno
di “somministrare le prove nel modo indicato nel presente manuale” e di
“assicurare che la somministrazione avvenga nei tempi stabiliti”.
Gli ordini sono perentori e passo passo traghettano
l’insegnante dal regno della didattica al regno della scienza statistica, in
cui ogni elemento di relazione umana costituisce problema e disturba:
“Lei dovrà
seguire le seguenti regole generali durante la somministrazione:
NON risponda alle eventuali richieste di aiuto degli
alunni sulle
domande delle prove cognitive (Italiano e Matematica).
NON dia alcuna informazione aggiuntiva, indicazione o suggerimento
relativamente al contenuto di alcuna delle domande della Prova”.
Qui il manuale è particolarmente insistente, perché
le e gli insegnanti hanno nel loro codice deontologico non scritto il principio
sacro di aiutare bambine e bambini a comprendere il sapere e la realtà. Derogare ad una richiesta di aiuto
in questo senso significa rinunciare a qualcosa che, anno dopo anno, diventa un
habitus della personalità di un docente, si incorpora in lei o in lui. Allora il Manuale dedica molti passaggi
a questo elemento, arrivando fino a dettare parola per parola ciò che dovrà
venire risposto al bambino o alla bambina che si rivolgesse per una spiegazione o
un chiarimento:
“LA MIGLIORE RISPOSTA da dare a qualunque richiesta
di aiuto è: ‘Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda. Se ti può
essere utile, rileggi le istruzioni e scegli la risposta che ti sembra
migliore’”.
Appello correlato:
Dopo aver
proibito ogni tentazione didattica, il Manuale istruisce sulla vigilanza delle
prove. Anche qui il testo è molto chiaro, ricorda molto le indicazioni per i
concorsi pubblici ma le supera in rigidità disciplinare e burocratica. Così
ordina ai somministratori (gli ex docenti): “Prima dell’inizio delle prove si
assicuri che gli allievi siano disposti nei banchi in modo che non possano
comunicare tra di loro durante lo svolgimento delle prove stesse”; “mentre gli
allievi sono impegnati nello svolgimento delle prove, giri costantemente tra i
banchi”; “Durante tutte le somministrazioni eserciti una costante vigilanza
attiva…”; “gli alunni [devono essere] attentamente
sorvegliati”; “È sua responsabilità adottare tutte le misure idonee
affinché […] gli allievi non comunichino tra di loro”.
Se
l’obiettivo è impedire la comunicazione (non solo il copiare) tra bambine e
bambini, per farlo occorre mettere mano anche agli ambienti. Così “si
raccomanda vivamente, nel limite del possibile, che la somministrazione non
avvenga nella loro aula, ma in locali
appositamente predisposti e di dimensioni tali da consentire di disporre i
banchi in file singole e convenientemente distanziati uno dall’altro”. Questa architettura perfetta, che
va dai banchi al linguaggio al divieto assoluto di comunicare non può venire modificata neppure per
l’urgenza di bisogni fisiologici, tanto che il Manuale accorda il
permesso di autorizzare l’uscita del bambino o della bambina “solo in
situazioni di emergenza (ad esempio, nel caso si sentano male)”, e quindi non
in caso scappi la pipì o la cacca.
A questo punto, trasformati i docenti in
somministratori e sorveglianti e l’aula in una cella di massima sicurezza,
l’esperimento può avere inizio con una frase precisa: “Dare il via dicendo ‘Ora
girate la pagina e cominciate’”[grassetto nell’originale].
Ovviamente,
come ogni somministratore di esperimenti, l’insegnante deve essere pronto a
mentire, sempre per il fine superiore della scienza. Così il Manuale suggerisce
di “rassicura[re] coloro che non fossero riusciti a portare a termine la prova”
e di “spiegare agli alunni […] se ritenuto opportuno, che non verrà dato alcun
voto per lo svolgimento della prova”, anche se ormai moltissime scuole usano le
prove come verifiche della materia testata e da quest’anno l’esito delle prove
di terza media viene inserito nel curriculum dello studente e farà parte della
certificazione sulle competenze del primo ciclo.
Si arriva
all’assurdo della prova di lettura per la classe seconda elementare, che
prevede il somministratore con il
cronometro e lo svolgimento in due minuti esatti per misurare
quante parole vengono riconosciute. In questa prova l’indicazione del Manuale
dice una cosa e il suo contrario: “Quando vi darò il via, dovete cominciare la
prova vera e propria e cercare di fare più in fretta che potete ma non vi
preoccupate se non riuscite a finire”. Ma se non devo preoccuparmi se non
finisco, perché mi si cronometra?
Il protocollo nascosto
Spesso mi sono chiesto in questi anni: perché un
insegnante dovrebbe rinunciare ai propri principi pedagogici e – in fin dei
conti – etici, per contraddirli facendo il “somministratore”? Per giunta senza il riconoscimento di alcun emolumento
economico. C’è probabilmente il timore delle sanzioni, di essere considerati
dei rompiscatole, per alcuni sicuramente c’è la convinzione che questa sia la
strada giusta per una rigenerazione di stampo neopositivista della scuola
italiana (anche se a quindici anni dall’inizio dei test ho visto molti fervori
raffreddarsi). Però ugualmente, per lungo tempo, non riuscivo a capire fino in
fondo come facesse ad andare avanti questo Grande Esperimento. Poi mi è tornato in mente Milgram.
Come le
persone interpellate da Milgram, i docenti in questi anni hanno creduto che i
soggetti sottoposti alla sperimentazione fossero le alunne e gli alunni delle
loro classi, mentre i veri bersagli di questa enorme operazione
pseudoscientifica erano loro stessi. Era
la loro obbedienza a venire messa alla prova, ad essere osservata e
studiata per capire fino a che punto un insegnante medio era capace di
rinunciare a principi etici e convinzioni pedagogiche profondamente radicate
nel proprio statuto professionale per trasformarsi in un burocrate che eseguiva
gratuitamente ordini lontani dalle proprie convinzioni. Questo era il vero,
sotterraneo, protocollo dell’esperimento Invalsi. Gli insegnanti italiani
sarebbero stati capaci di abiurare alla propria etica e professionalità e
divenire “somministratori di test” allontanandosi gratuitamente dalla propria
pratica didattica? Era possibile far loro rinunciare al principio cardine di
ogni didattica relazionale, cioè indurli a interrompere la comunicazione tra
loro stessi e le bambine e i bambini che esprimevano il desiderio di un
chiarimento o di un incoraggiamento? Era possibile convincere maestre e maestri
a rispondere come automi alle richieste di aiuto didattico di bambine e bambini
di sette anni con una frase standard come “Mi dispiace ma non posso rispondere
a nessuna domanda”?
Non sembri
solamente un paradosso. Se si pensa alle prove previste per la classe seconda
elementare si può comprendere che la burocratica e ubbidiente esecuzione delle
indicazioni del manuale assume la forma di un’odiosa imposizione incomprensibile,
irrispettosa dei piccoli e delle piccole persone che vengono a scuola per
apprendere in una relazione di rispetto e riconoscimento reciproco. Cos’è, per
un bambino o una bambina di sette anni, il rifiuto assoluto del permesso di
andare in bagno, cui viene anteposto il primato del rispetto dei parametri
dell’esperimento? Cos’è l’organizzazione di una prova di velocità di lettura
con cronometro alla mano fingendo che la rapidità non costituisca il parametro
di giudizio? Dopo decenni nei
quali l’amore della lettura viene proposto come piacere da coltivare senza
fretta, perché un docente dovrebbe cronometrare i suoi bambini, trasmettendo
principi didattici opposti?
Cos’è l’allontanamento dell’insegnante di classe per
rendere più anonima la somministrazione e evitare ogni intervento di aiuto,
quando è evidente che la tranquillità di un bambino di quell’età è legata alla
presenza dei soggetti adulti con i quali ha costruito un rapporto di fiducia? Anche nella vecchia formula
dell’esame di quinta elementare i docenti della classe erano affiancati da
altri docenti della scuola, perché la pratica della valutazione fosse condotta
in un contesto nel quale la serenità dei bambini non fosse tradita. In questi
test invece la preoccupazione per il profilo emotivo dei bambini è inesistente,
come fossero quei topolini bianchi chiamati non a caso cavie, e tutta
l’organizzazione sembra costruita apposta per imporre uno shock emotivo ai
soggetti testati. Perché 50mila maestri e maestre ogni anno accettano di
imporre quegli shock emotivi e didattici?
Perché lo
dice la scienza. Perché c’è un protocollo, perché ci
sono dirigenti e docenti
incaricati che premono da vicino affinché il protocollo non venga interrotto
con fastidiosi dubbi etici o inopportuni principi pedagogici, come facevano i
(finti) scienziati di Milgram per spronare i soggetti dell’esperimento a
spingersi più avanti possibile.
Ricordo che
qualche anno fa l’Invalsi richiedeva di allontanare i bambini diversamente
abili dalle classi perché i loro risultati non erano conteggiati e la presenza
dei docenti di sostegno poteva disturbare lo svolgimento della prova. Un’amica
docente di sostegno affermò che lei sarebbe rimasta in classe con la bambina;
di rimando il dirigente la mattina della prova fece spostare tutti i banchi in
un’altra classe, lasciando in quell’aula solo il banco della bambina con
disabilità.
Preferisco di no
Cosa
succederebbe se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e
presentassero le prove Invalsi senza tenere conto del Manuale del
somministratore? Il Grande
Esperimento Invalsi si regge sull’obbedienza gratuita dei docenti,
cinquantamila ogni anno nella scuola primaria. Se queste maestre e maestri
decidessero di far affrontare le prove come fossero semplici pagine di sussidiario?
Se decidessero di consentire ai bambini con la pipì di andare in bagno? Se
concedessero il tempo di cui ogni bambino ha bisogno per provare a risolvere
con calma i quesiti o per leggere con tranquillità il brano previsto, e magari
di godersi la lettura? Se incoraggiassero l’aiuto reciproco di fronte alle
difficoltà?
Se così
facessero, immediatamente tutto l’esperimento crollerebbe, si affloscerebbe
sotto il peso di una macchina burocratica enorme ma priva di colonne atte a
sorreggerla. Eppure non dovrebbe essere così difficile rivendicare il diritto
di esercitare la propria capacità professionale, di essere umani nei confronti
dei propri alunni, di aiutare i bambini e le bambine a comprendere e a svolgere
gli esercizi, di farli sentire a proprio agio. Non sono certo azioni di cui ci
si dovrebbe vergognare, bensì le basi di una presenza in classe didatticamente
produttiva. A volte mi chiedo se un dirigente
potrebbe punire un docente perché ha fatto andare al bagno un bambino o perché
gli ha spiegato un esercizio che non aveva capito. Caro Milgram, secondo
te sarebbe possibile?
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