intervista di Olivier Turquet a Mohamed Dihani
Mohamed
Dihani è un attivista saharawi fin da quando era bambino. È stato protagonista
di una complessa vicenda giudiziaria dove le accuse nei suoi confronti sono
progressivamente svanite nel nulla ma il carcere ingiustamente subiti ha
lasciato tracce indelebili nel suo corpo. Mohamed ha fondato l’agenzia
stampa Wesatimes che è il più
importante mezzo di diffusione in italiano del punto di vista del popolo
saharawi in lotta per l’autodeterminazione.
Wesatimes è
una bella realtà di informazione quotidiana in tante lingue: ci racconti come è
nata e come funziona?
Ho passato 6
anni in prigione, sia nel carcere segreto di Tmara (base centrale
dell’intelligence marocchina DST, lontana due chilometri dalla residenza
principale del re marocchino Mohamed VI) che nelle prigioni di Sale2, Knnaitra
e Ait Maloul.
In quegli
anni, ascoltando le voci delle persone torturate o violentate, tra cui donne e
adolescenti (e durante i quali anche io ho subìto ogni tipo di torture e gravi
violenze), pensavo che se fossi riuscito ad uscire da lì avrei dovuto trovare
il modo di raccontare quello che succedeva a quelle persone.
Da qui è
nata l’idea di fondare un’agenzia di stampa che raccontasse tutto ciò che
accade nel Sahara Occidentale senza aver paura delle conseguenze.
Nel giorno
del settimo anniversario del mio rapimento, ho fondato Wesatimes insieme ad
altre 5 persone, per cercare di migliorare la realtà mediatica saharawi e per
combattere le ingiustizie commesse dallo stato marocchino contro il nostro
popolo. Dopo un anno dalla sua fondazione (avvenuta nell’aprile 2017) abbiamo
raggiunto risultati che non avevamo previsto.
Siamo
un’agenzia che non ha una sede né nessun tipo di finanziamento esterno, siamo
persone che lavorano da un gruppo di Whatsapp e pubblichiamo notizie
esclusivamente dai cellulari. Non possiamo avere una sede per due ragioni: la
prima è che siamo in un territorio occupato e lo stato occupante ce lo
impedisce, la seconda è che non abbiamo mezzi e disponibilità economiche per
permetterci una sede, dei computer ecc…
Come stai e
se puoi raccontare brevemente la tua storia?
Quando ero
in prigione e anche dopo il mio rilascio ho avuto molte crisi, tra cui attacchi
di panico notturni a seguito di terribili incubi. A causa dei problemi fisici
dovuti alle torture, ho subito un intervento chirurgico che non è andato a buon
fine, e da allora la mia salute sta peggiorando giorno dopo giorno. Tutto
questo mi ha impedito, negli ultimi due mesi, di lavorare come prima. Ma
fortunatamente ho amici e compagni combattenti, come Omar Zein Bachir, Yihdih
Essabi, El-Bachir Dihani e Haha Zein Sidi, che hanno continuato la lotta anche
nei momenti più difficili.
Sono stato
rapito il 28 aprile 2010 dalla polizia marocchina, a causa di una traduzione
che avevo fatto per un gruppo di giornalisti europei, riguardo le vicende di
alcuni saharawi vittime dello stato marocchino. Ho passato quasi sei anni in
prigione, subendo l’isolamento e torture fisiche e mentali. Il Marocco ha mosso
contro di me accuse infondate, tentando di collegarmi con il terrorismo, ma la
mia innocenza era proprio nell’assurdità di tali accuse, perché per realizzare
ciò di cui volevano accusarmi ci sarebbe voluto un esercito e non solo una
persona. Se volessi raccontarvi la mia storia ci vorrebbero interi libri,
perché ho vissuto e visto tantissimo in quegli anni, ma ci sono molti rapporti
di Amnesty e Human Right Watch e di altre associazioni che combattono per i
diritti umani che smentiscono assolutamente tutte le accuse, e un rapporto
delibera del gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite,
di sei pagine, che chiede allo stato marocchino che mi vengano garantite delle
scuse ufficiali ed un risarcimento economico per tutto quello che ho subito, e
che vengano puniti i responsabili delle torture (ma nulla di tutto questo è
ancora avvenuto).
La storia
del Sahara occidentale è poco conosciuta anche dagli attivisti di altre cause:
potresti sintetizzarla nei punti più importanti?
Il Sahara
Occidentale, un territorio ricco di risorse naturali e uno dei più pescosi
dell’Africa, è stato una colonia spagnola fino alla fine del 1975. Quando la
Spagna si ritira dal paese, dopo l’accordo di Madrid, sia il Marocco che la
Mauritania, paesi confinanti, tentano di prendere il suo posto invadendone i
territori. Il 6 novembre 1975 il re marocchino invia oltre 300.000 persone,
comprese migliaia di soldati, ad occupare i territori del Sahara Occidentale
(la Mauritania abbandonerà nel 1979 i territori occupati, mentre il Marocco ha
intensificato negli anni la sua presenza).
Migliaia di
saharawi fuggono dalle loro case e abbandonano il paese sotto i bombardamenti
al napalm del Marocco e trovano rifugio in Algeria, paese che offre loro asilo
e campi profughi con il minimo indispensabile per sopravvivere.
Il Fronte
Polisario (Fronte Popolare di Liberazione di Saguia el-Hamra e Río de Oro),
fondato nel 1973 per liberare il paese dagli spagnoli, proclama nel 1976 la
Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD).
Il Polisario
riconquista e libera alcuni territori ad est del paese e il Marocco, per
bloccarne l’avanzata, costruisce a partire dagli anni ottanta, con esperti
israeliani e con l’aiuto logistico dei francesi e quello economico dell’Arabia
Saudita, il muro della vergogna: un muro di 2700 km, il più lungo al mondo,
disseminato di più di nove milioni di mine.
Dopo sedici
anni di scontri tra il Fronte Polisario e il Marocco, nel 1991 le parti
giungono ad un accordo, sotto l’egida dell’ONU, che prevede, oltre al cessate
il fuoco, che venga indetto un referendum per l’autodeterminazione del popolo
saharawi. L’ONU istituisce a questo scopo la MINURSO (Missione delle Nazioni
Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale).
Ad oggi,
tuttavia, il referendum non ha ancora avuto luogo, perché il Marocco si è di
fatto sempre opposto.
Oggi il
popolo saharawi vive diviso: una parte nei campi profughi, luoghi inospitali
nel mezzo del deserto, dove manca tutto e si può fare affidamento solo sugli
aiuti internazionali, una parte nei territori liberati, che sarebbero i primi
ad essere attaccati nell’eventualità di una guerra con il Marocco, e una parte
nei territori occupati, dove anche i diritti umani basilari vengono calpestati
quotidianamente dallo stato occupante e le persone, quando non finiscono in
prigione o uccise, non hanno comunque la possibilità di condurre una vita
normale, perché private della libertà, del lavoro e dei mezzi di sostentamento.
I saharawi
sono un popolo pacifico. Dopo la lotta armata di liberazione del fronte
Polisario degli inizi sono passati a lotte pacifiche e nonviolente.
Ciononostante il Marocco continua a definirvi terroristi. Come vedi tu questa
questione?
Io sono la
prova vivente delle bugie marocchine nel definirci terroristi, come dichiarato
dal rapporto delle Nazioni Unite. Il Marocco vuole farci passare per
terroristi, ma allora perché abbiamo un rappresentante nelle Nazioni Unite e
ambasciatori e rappresentanti in 82 paesi in tutto il mondo? Tra questi ci sono
anche paesi europei che sostengono il diritto del popolo saharawi
all’autodeterminazione e che definiscono il Fronte Polisario un movimento che
ha tutto il diritto di combattere per la liberazione della sua terra e del suo
popolo. Se fossimo terroristi, perché saremmo riconosciuti come uno dei membri
fondatori dell’Unione Africana, con il Marocco che ci siede accanto? Se fossimo
terroristi non avremmo sopportato tutti i soprusi, arresti e torture a cui ci
ha sottoposto il Marocco, senza contrapporre alcuna violenza ma scegliendo la
strada pacifica di coinvolgere ed informare il resto del mondo, con lo scopo di
costringere il Marocco a fermare queste violazioni e sedersi al tavolo dei
negoziati senza condizioni e in buona fede.
Recentemente
c’è stata una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza, potresti dare la
tua opinione?
Sono
soddisfatto perché sembra che il Consiglio di Sicurezza stia capendo che la
questione del Sahara Occidentale deve essere risolta al più presto. Si nota la
buona volontà del Consiglio di Sicurezza, del segretario generale delle Nazioni
Unite António Guterres e del suo inviato personale per il Sahara Occidentale
Horst Köhler che stanno facendo un ottimo lavoro e stanno scegliendo i metodi
giusti per risolvere questa situazione.
C’è un
rischio che i jihadisti possano intromettersi nella questione del Sahara
Occidentale?
Il popolo
saharawi è un popolo pacifico e per 27 anni ha scelto sempre soluzioni
nonviolente.
Per quanto
riguarda i jihadisti, dobbiamo sottolineare 2 cose: i jihadisti credono in
valori e metodi che non sono condivisi dal popolo saharawi, che invece crede
nella moderazione e non vede la violenza come una soluzione. La seconda cosa,
se parliamo di jihadisti stranieri, questi non possono accedere al nostro
territorio, perché il Sahara Occidentale è circondato dai territori liberati
dal Fronte Polisario, una zona sorvegliata 24 ore su 24 da valorosi soldati combattenti
dell’esercito saharawi, così come accade anche nei campi profughi. Potrebbero
accedere solo dalla parte nord del Sahara Occidentale, cioè quella confinante
con il Marocco.
Dall’11
settembre 2001, negli attentati terroristici jihadisti avvenuti nel mondo erano
sempre coinvolti cittadini marocchini: come confermato da moltissimi giornali
internazionali, il Marocco è uno dei principali paesi da cui il terrorismo
nasce e si diffonde. Basti pensare a quanto è avvenuto a Madrid, Parigi,
Bruxelles e anche nel Medio Oriente.
Possiamo
lanciare un messaggio di speranza per la causa saharawi che è anche la causa
dell’autodeterminazione dei popoli?
La forza del
popolo saharawi sta nel forte senso di appartenenza alla propria cultura e alla
propria Nazione, sentimenti che non sono stati scalfiti da 42 anni di
occupazione illegale, violenze e soprusi, ma anzi si sono rafforzati e hanno
unito ancora di più le persone nella lotta per l’obiettivo comune della libertà
e dell’autodeterminazione. Uomini e donne saharawi combattono fianco a fianco
in questa battaglia: nella cultura saharawi si riscontra la più bassa disparità
di genere di tutto il nord Africa e di tutto il mondo arabo, le donne sono
coinvolte e ricoprono ruoli importanti sia nella lotta politica che nell’amministrazione
(l’80% delle istituzioni saharawi sono guidate da donne).
Questa unità
e questa determinazione sono la nostra grande forza, ed è certo che non
smetteremo di lottare finché non riconquisteremo la libertà per il nostro
popolo e per il nostro amato Paese.
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