Le parti di Ppp sono “montate” attraverso un collage che ho fatto
attingendo liberamente da “Saggi sulla politica e sulla società”, ultimo volume
delle Opere complete edite da Mondadori
AM: Ciao Pier Paolo, scusami per averti così
indelicatamente riesumato. Immagino che vorresti parlare prima di tutto del tuo
brutale omcidio, ma io non sono davvero un nergomante, sono solo un piccolo
rompiscatole che vorrebbe discutere con te del rapporto tra la società dei
consumi (che noi oggi chiamiamo neo-liberale), il nuovo montante fascismo degli
italiani e l’intellettuale (cosiddetto) di sinistra. Ne avverto il desiderio
perché mi sembra veramente che in questa triangolazione, in questo nuovo
“sistema”, che vede l’85% degli italiani votare – a vario titolo – “a destra”,
o non votare proprio, ci sia qualcosa del nostro presente che ci sfugge.
Personalmente credo – con amarezza – che il vero propulsore del nuovo
dilagante “fascismo” sia proprio un nuovo (forse giustificato) odio nei
confronti degli intellettuali.
PPP: È sempre attraverso il sistema – la
democrazia ateniese, la società capitalista o socialista – che noi conosciamo
la vita o la realtà. Il sistema mi fornisce – e in questo non ha concorrenti se
non altri sistemi – una partita completa di strumenti di conoscenza della
realtà. Rifiutare l’uso di questi strumenti significa non voler conoscere la
realtà, cioè voler morire. Per questo io penso che la disperazione è oggi
l’unica reazione possibile all’ingiustizia e alla volgarità del mondo, ma solo
se individuale e non codificata. La codificazione della disperazione in forme
di contestazione puramente negativa è una delle grandi minacce dell’immediato
futuro. Essa non può che far nascere degli estremismi, che rischiano di
diventare nuove forme di fascismo, magari fascismo di sinistra. Tutto quello
che possiamo fare è modificare il sistema, appunto rivoluzionandolo, in modo
che il rapporto con la realtà, il suo conoscerla, sia, almeno nelle nostre
speranze, più puro e autentico.
AM: Non ti sembra però che l’odio
sociale, l’invidIa e ogni sorta di pulsioni (auto)distruttive abbbiano
raggiunto oggi, nella coscienza della gente comune, un limite? Non ti sembra
che siamo vicini a un vero e proprio tracollo politico e sociale?
PPP: Il desiderio di autodistruzione –
come psicosi collettiva – non è tipico soltanto di chi nega o contesta il
sistema: è tipico dell’intera umanità che vive con naturalezza nel sistema. Tra
chi vive con naturalezza nel sistema e chi gli si oppone disperatamente non c’è
soluzione di continuità, c’è solo gradazione: gradazione del desiderio di
autodistruzione.
AM: Sì certo, su questo sono d’accordo
con te. Mai come in questo periodo, specialmente a livello macropolitico,
abbiamo assistito alla trasformazione della disperazione in posizioni politiche
puramente reattive. Ma Pier Paolo, senti, oggi come ai tuoi tempi, questo non
sarà anche un po’ colpa delle persone di cultura che avevano il diritto-dovere
di farsi i portavoce popolari di una volontà costruttiva di cambiamento, i
simboli viventi di quella tolleranza e di quel senso della comunità che
vorrebbero tanto vedere stampati nel cuore della cosiddetta “gente”?
PPP: Quando Moravia mi parlava di gente
(cioè di quasi tutto il popolo italiano) che vive a un livello pre-morale e
pre-ideologico, dimostrava di essere caduto in pieno proprio in questo errore.
Il pre-morale e il pre-ideologico esistono solo in quanto si ipotizzi
l’esistenza di una sola morale e di una sola ideologia storica giusta: che
sarebbe poi la nostra borghese, la sua di Moravia, o la mia, di Pasolini. Non
esiste invece pre-morale o pre-ideologico. Esiste semplicemente un’altra
cultura (la cultura popolare) o una cultura precedente. E su queste culture si
innesta una nuova scelta morale e ideologica: per esempio la scelta marxista,
oppure la scelta fascista
AM: Sì, più che altro, tragicamente
(almeno per me), diciamo che l’attuale alternativa che si presenta ai giovani –
che conoscono la politica a partire dall’oggi – è quella tra vetero-fascismi e
neoliberalismo… . C’e, credo, un problema politico, legato all’omologazione
assoluta dei modelli culturali ed esistenziali che offre oggi la nostra
società. Questa è per altro la cosa per cui tu ti sei più battuto, e che hai
denunciato chiamandola la “mutazione antropologica” del popolo italiano. Ma
credimi, oggi i telefilm italiani per bambine e ragazzine sono qualcosa che tu
quarant’anni fa non avresti potuto immaginare nei tuoi incubi peggiori: esiste
solo la ricchezza e l’autoimprenditorialità. C’è n’è uno in cui una delle due
protagoniste all’inizio della serie sembra povera (infatti è quella strana), ma
poi per fortuna alla fine della prima stagione – con un deus ex machina –
si scopre che in realtà è ricchissima… che non sia mai… . Ho pensato ad Accattone guardandolo,
e ho pianto.
PPP: Pretendo che tu ti guardi intorno e
ti accorga della tragedia. La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci
sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli
intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso e diciamo: ma
strano, questi due treni non dovrebbero passare di lì, e come mai sono andati a
fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito, o è un criminale
isolato o è un complotto. Sopratutto il complotto ci fa delirare, ci libera dal
peso di confrontarci da soli con la verità. Ecco, io la vedo così la bella
truppa degli intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni
più nobili: le cose succedono qui e la testa guarda là. Non dico che non c’è il
fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna.
Piacerebbe anche a me se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le
vedo anch’io le pecore nere, ne vedo tante, le vedo tutte. Come dissi a
Moravia, con la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende
all’inferno. Ma quando torno, se torno, ho visto altre cose, più cose.
L’intellettuale è dove l’industria culturale lo colloca, perché e come il
mercato lo vuole.
AM: Sì, capisco, io faccio l’operaio
stagionale per vivere, tra l’altro nel tuo bellissimo Friuli. Purtroppo è
difficilissimo far capire a un intellettuale (persino a uno buono, a uno vero)
che il lavoro intellettuale e il lavoro manuale non sono equiparabili. Che se
uno è un vero intellettuale fa l’intellettuale anche a gratis, per i cazzi
suoi, magari nel poco tempo che gli rimane. Il lavoro intellettuale è un
urgenza, un bisogno, qualcosa che non si può non fare: oppure non è nulla. Lo
stesso non vale per il lavoro in generale. Uno non fa il vigilante o il
cassiere perché questo mette a frutto le sue qualità (anche se questo non
esclude che, intelligentemente, una persona prenda un certo gusto a fare bene
il proprio lavoro). A un tatuatore, o a un meccanico, piace magari fare il
proprio lavoro, perché sono esperti di motori o perché possono mettere qualcosa
di artistico nel proprio lavoro… ma loro devono farlo per vivere. Se un giorno
si svegliano e non hanno voglia di farlo, devono farlo lo stesso… e allora
faranno un brutto tatuaggio, o ripareranno lo scarico della macchina non alla
perfezione. Ma questo discorso non può valere anche per chi “fa” cultura. Io
sono ammirato da te perché per me sei sempre stato la negazione vivente
dell’intellettuale che vuole/deve fare l’intellettuale per vivere. L’idea di
fare lo scrittore, l’insegnante o il giornalista allo stesso modo in cui
lavorano il meccanico e il tatuatore, o il vigilante e il cassiere, mi
angoscia. Leggendoti ho sempre sentito nelle tue parole l’ “urgenza” di fare
questo lavoro, e non “bisogno” di campare in un modo come un
altro per mezzo di esso. Non mi hai risposto sui modelli culturali
però…
PPP: In questi giorni sto scrivendo il
passo di una mia opera in cui affronto il tema in modo immaginoso, metaforico:
immagino una specie di discesa agli inferi, dove il protagonista, per fare
esperienza del genocidio [culturale prodotto dal fascismo capitalista dei
consumi e dell’autoimprenditorialità], percorre la strada principale di una
borgata di una grande città. Gli appare una serie di visioni, ciascuna delle
quali corrisponde a una strada trasversale che sbocca su quella principale.
Ognuna di esse è una specie di bolgia, di girone infernale dellaDivina
Commedia: all’imbocco di ogni strada c’è un determinato modello di vita
messo lì di soppiatto dal potere, al quale soprattutto i giovani, e più ancora
i ragazzi che vivono nella strada, si adeguano rapidamente. Essi hanno perduto
il loro antico modello di vita, quello che realizzavano [semplicemente] vivendo
e di cui, in qualche modo, erano contenti e persino fieri, anche se implicava
tutte le miserie e i lati negativi (che senz’altro c’erano). Mentre ora cercano
di imitare il nuovo modello messo lì dalla classe dominante di nascosto.
Nell’opera elenco una quindicina di modelli di comportamento, tra cui quello
che presiede a un certo edonismo interclassista, il quale impone ai giovani che
incoscientemente lo imitano di adeguarsi nel comportamento – nel vestire, nelle
scarpe, nel modo di pettinarsi o sorridere, ma anche di agire o gesticolare – a
ciò che vedono nella pubblicità dei grandi prodotti industriali: pubblicità che
si riferisce, quasi razzisticamente, al modo di vita piccolo-borghese.
AM: Questa faccenda dell’omologazione
culturale, che tu avevi anticipato, è veramente cruciale. La frustrazione che i
giovani provano oggi per non riuscire – strutturalmente – ad essere all’altezza
di ciò che si aspettavano di ottenere dalla vita è una delle più grandi piaghe
sociali, e psicologiche, della nostra attualità. Ma PPP, cos’è precisamente che
rende così seducenti, e così coercitivi, questi nuovi modelli
culturali/esistenziali creati dal fascismo dei consumi e
dell’autoimprenditorialità?
PPP: La loro connotazione classista ora
è puramente economica, e non è più anche culturale. L’atroce infelicità dei
giovani deriva dallo scompenso tra cultura e condizione economica:
dall’impossibilità di realizzare (se non mimeticamente) – a causa della
persistente povertà – modelli culturali borghesi. È cambiato il modo di
produzione, ma la produzione non produce solo merce, produce insieme rapporti
sociali, umanità. Oggi i “figli”, sia quelli dei borghesi sia quelli dei
proletari, si trovano uniti in una stessa storia. Una storia che produce l’idea
[assurda] che il male peggiore del mondo sia la povertà e che, quindi, la
cultura delle classi povere debba essere sostituita con la cultura della classe
dominante.
AM: La mutazione antropologica che tu
vivevi “in diretta” è divenuta tragicamente, per noi del terzo millennio, il
fondamento della nostra nuova cultura comune. Mentre tu vivevi la
borghesizzazione dei proletari, noi ci troviamo nel bel mezzo di una irreversibile
ri-proletarizzazione dei piccoli borghesi che ci hanno insegnato a essere. Lo
sai Pier Paolo che i più recenti dati sulla povertà assoluta e relativa ci
dicono che una persona – un individuo e non una famiglia – su cinque, oggi, in
Italia si trova in stato di povertà assoluta o relativa? Significa che questa
persona, specialmente se è giovane, soffre, perché la stragrande maggioranza
dei modelli proposti è incommensurabile rispetto alla sua situazione economica
ed esistenziale. Io vedo tanto la voglia, da parte di molti, specialmente di
molti intellettuali, di fare come se queste persone non esistessero, di fare
come se questi modelli “alternativi” – di cui tu parlavi, e che forse hai avuto
solo il torto di vedere troppo bruscamente cancellati per sempre – non esistano
più e non possano ancora avere un loro ruolo politico decisivo. I giovani
intellettuali, per essere davvero rivoluzionari, non dovrebbero forse – loro
per primi – diffidare proprio di quel modello esistenziale che ci fa
considerare “ovvio” che un’intellettuale debba vivere del proprio lavoro?Che
ruolo può ancora svolgere la scuola in tutto questo? Sembra infatti che la
scuola non riesca a – e non abbia più come compito quello di – trasmettere i
valori dell’antifascismo e il senso della comunità, quanto piuttosto proprio
l’ingrato compito di facilitare la trasmissione di quei valori
“autoimprenditoriali” che presiedono all’omologazione capitalista dei modelli
culturali ed esistenziali.
PPP: Il potere è un sistema di
educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori. Ma attento, si tratta di
uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette classi
dirigenti giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose e si
comportano allo stesso modo. Il fornarino, prima della mutazione antropologica,
aveva da contrapporre al mondo della ricchezza un proprio mondo altrettanto
valido. Giungeva alla casa del ricco con un riso naturaliter anarchico,
che screditava tutto: benché egli fosse magari rispettoso. Ma era appunto il rispetto
di una persona profondamente estranea. E insomma, ciò che conta, questa
persona, questo ragazzo, era allegro. Inoltre, non dobbiamo confondere il
razzismo – che è anche quello dei ricchi e dei colti borghesi nei confronti dei
poveri e degli ignoranti – con la spontanea, e per certi versi “naturale”,
diffidenza che dalla notte dei tempi ogni popolo prova nei confronti di etnie e
culture che gli sono estranee.
AM: Come combattere allora dall’interno
il dilagante fascismo e razzismo in Italia, senza scadere nel classismo e
nell’arroganza che accomunano tanta parte degli intellettuali “di sinistra”?
Già mezzo secolo fa tu discutevi di questo con Calvino, impegnandoti in
un’aspra polemica…
PPP: [Sì], in una sua risposta a un mio
intervento sul Messaggero (18 giugno1974), Calvino si lasciò scappare la frase
doppiamente infelice “i giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non
aver occasione di conoscerli”. Io allora gli risposi “Caro Calvino, certamente
non avrai mai occasione [di conoscere dei giovani fascisti], anche perché se
nello scompartimento di un treno, nella coda di un negozio, per strada, in un
salotto, tu dovessi incontrare dei giovani fascisti, non li riconosceresti. E
poi, augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia,
perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per
incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non
sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e
sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità – ha
posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È una atroce forma di
disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse
sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo
semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso”.
Non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione, più tranquilla era la coscienza.
Non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione, più tranquilla era la coscienza.
AM: Già. E quindi, quale sarebbe invece
l’atteggiamento giusto?
PPP: Appena un po’ di convenzionalismo
“sessantottesco”, o di ortodossia comunista, impedirebbero a un giovane di
capire che il modo di essere del popolo italiano sotto il fascismo non era
condannabile o indegno perché non rivoluzionario, o addirittura passivo. Ci
sono intere epoche, anzi millenni, della storia umana in cui il popolo è stato
così. Ma la dignità dell’uomo non è per questo inferiore. Non esistono uomini
“subumani”. Gli uomini trovano sempre il modo di “adempiersi”. E ciò non lo
dico sotto il segno di alcuno spiritualismo, ma sotto il segno di una
concretezza razionale anche se fondata sul sentimento. È astratto, disumano e stupido
invece chi pronuncia facili condanne contri interi periodi storici della storia
umana in cui il popolo ha risposto alla sottomissione con la rassegnazione. Il
momento dello spirito di tale popolo che fosse potenzialmente rivoluzionario
trovava sempre il modo di esprimersi altrimenti: magari proprio attraverso la
rassegnazione e, sopratutto, attraverso la totale estraneità alla
cultura della classe dominante. Nel momento in cui, sotto il fascismo, il
popolo, pur obbedendo meccanicamente a certe imposizioni “armate”, si manteneva
in realtà perfettamente (fisicamente, esistenzialmente) estraneo alla cultura
del potere, esso – sia pure in modo in consapevole – riaffermava la propria
dignità.
AM: Ma nel “nuovo potere” capitalista è
più difficile opporre questa resistenza “passiva”, non trovi? Esso richiede, e
produce, un’adesione intima ai suoi valori, al punto tale che sempre più spesso
ci sembra che, come il diavolo nella famosa storiella, esso non esista nemmeno.
E poi il problema – tra i vari “leninisti culturali” da tastiera e da carta
stampata che vedo in giro – mi sembra trovarsi proprio nel fatto che, a livello
pratico/esistenziale e proprio a livello di quei modelli esistenziali di cui
stiamo parlando, questa totale estraneità rispetto ai valori della
classe dominante (che giustamente auspichi), sia totalmente assente.
Piaccia o meno, il lavoro dell’”intellettuale” è un lavoro
borghese, a meno che non sia fatto in pura perdita, a meno che non sia fatto
come un’urgenza. Non trovi che legare la propria sussistenza materiale alla
propria produzione intellettuale sia un grande pericolo per la libertà di
espressione, un pericolo che la minaccia – diversamente che nei paesi in cui la
repressione è “esteriore” – dall’interno… ?
PPP: Finché il potere immobilizza e lega
a sé la massa attraverso quell’ideologia edonistica di cui esso dà l’illusione
della realizzabilità (e, in effetti, per quel che riguarda i beni superflui, ha
potuto renderla realizzabile), esso non ha più bisogno né di chiese né di
fascismi. La maggior parte degli antifascisti sono ormai coinvolti col nuovo
potere, che – omologando tutto e tutti – è sì, lui, fascista. Può esistere,
[invece] anche un progresso senza sviluppo [capitalistico e
autoimprenditoriale]. Quello che occorre – ed è qui a mio parere il ruolo degli
intellettuali progressisti – è prendere coscienza di questa dissociazione
atroce [tra progresso sociale e sviluppo capitalista]
e renderne coscienti le masse popolari perché, appunto, essa scompaia.
Ecco l’angoscia di un uomo della mia generazione, che ha visto la guerra, i nazisti, le SS, che ne ha subito un trauma mai totalmente vinto. Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli del capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche, una faziosa passività, ricordo che queste erano appunto le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce uncinata. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui tra voi a parlare.
Ecco l’angoscia di un uomo della mia generazione, che ha visto la guerra, i nazisti, le SS, che ne ha subito un trauma mai totalmente vinto. Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli del capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche, una faziosa passività, ricordo che queste erano appunto le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce uncinata. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui tra voi a parlare.
AM: Il problema resta quello di capire
come fare a combattere “contro” tutto questo senza fare ipocritamente finta di
non esserci – noi stessi – dentro fino al collo. Grazie Pier Paolo, ci manchi,
non immagini quanto…
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