C’è vita oltre il debito?
- Marco
Bersani
Il debito pubblico mondiale ha superato i 50mila
miliardi di dollari che, sommati agli oltre 180mila miliardi del debito privato
(imprese e famiglie), trasforma il pianeta in un crac finanziario, nel quale il valore del debito è
pari a quattro volte quello della capacità di produzione di ricchezza (Pil).
Nel suo piccolo, il debito pubblico
italiano – terzo in valore assoluto e settimo in rapporto al Pil
– ammonta a oltre 2.260 miliardi di euro,
pari al 131,8 per cento del Pil.
Una morsa che viene quotidianamente sottolineata dai
tecnocrati dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, dalle
lobbies bancarie e finanziarie e dai media mainstream. Che si
tratti di una narrazione ideologica, sapientemente costruita per poter
permettere l’espropriazione di diritti sociali, beni comuni e democrazia, lo
dimostra il fatto di come nessuno ricordi come su quel debito gli italiani, dal
1980 ad oggi, abbiano già pagato oltre 3.400 miliardi di interessi, senza
minimamente intaccarlo.
D’altronde, abbiamo sperimentato in questi decenni
come la dottrina liberista non sia solo una
teoria economica, bensì un dispositivo ideologico totalizzante che
si prefigge di produrre soggettivazione,
ovvero la costruzione di un modello valoriale di vita che deve valere per
ciascun individuo (sapendo che la società, da Margareth Thatcher in poi, non
esiste). E, se negli anni Ottanta e Novanta questa soggettivazione veniva
espressa dall’etica del lavoro trasposta nell’epica dell’imprenditore di se stesso orgoglioso della propria
indipendenza e dell’autocostruzione del proprio destino, con la deflagrazione
della crisi globale è divenuta l’imperativo ad assumere
su di sé i costi del disastro economico e finanziario.
Da qui la costruzione del debito come colpa, ben
riassunto dal termine tedesco “Schuld”, che significa allo stesso tempo
debito e colpa, ed esprime con precisione la morale
calvinista del lavoro: chi ha denaro, ed è dunque considerato solvibile, porta
in tal modo un segno della grazia ricevuta, mentre chi resta schiacciato
dall’insolvenza e dal fallimento economico mostra di non poter superare lo
stato di peccato.
Una
costruzione che riesce a negare la vera natura della relazione
debitore/creditore come rapporto di potere, legato alla proprietà (in quanto il
creditore detiene il capitale, mentre il debitore no) e allo sfruttamento (in
quanto “fabbricando carta, ci si appropria del lavoro e della ricchezza
altrui”) riuscendo a farla apparire come un contesto di libertà. Non c’è bisogno di alcuna repressione (“il mio nemico non ha divisa (..) nella fondina tiene le carte Visa”
canta Daniele Silvestri) o di alcun indottrinamento: i
popoli indebitati rimangono formalmente liberi, ma la loro libertà si può
esercitare solo dentro il vincolo del debito contratto, e attraverso stili di
vita che non ne pregiudichino il rimborso.
La
precarizzazione del lavoro, la privatizzazione dei servizi pubblici, la
mercificazione dei beni comuni non sono estrazioni di valore dettate da brutali
atti di forza e di potere, ma la “naturale” conseguenza di quel vincolo
“liberamente” contratto.
C’è un
ulteriore aspetto relativo all’economia del debito che vale la pena
sottolineare. Riguarda la relazione con il tempo e la decisione. Poiché il
credito è una promessa di saldare un debito in un futuro più o meno lontano,
educando i governati a promettere – a onorare il proprio debito – si disciplina
non solo il loro presente ma anche il loro futuro. Siamo ben oltre
l’appropriazione del tempo di lavoro dell’epoca industriale: nell’economia del debito, siamo al
diritto di prelazione anche sul tempo non cronologico, sul futuro di ognuno e
sull’avvenire della società nel suo complesso.
C’è vita, dunque, oltre il debito? Sì, a patto di
rompere la gabbia. Per farlo
occorre partire dal più che mai attuale assunto gramsciano, tratto dai Quaderni
dal carcere:
“La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può
nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” .
È
esattamente la fase che sta attraversando il nostro Paese, ben evidenziata dal
risultato elettorale del marzo scorso con, da una parte, la certificazione
dell’azzeramento di una sinistra, variamente declinata, che ha frantumato il
blocco sociale storico di riferimento (impiego pubblico e accesso dei
lavoratori alla classe media) interiorizzando la favola liberista del pensiero
unico del mercato; e, dall’altra, con la vittoria della socializzazione del
rancore, declinata secondo l’individualismo cittadino (Movimento 5Stelle) o
secondo il proprietarismo razzista (Lega).
Un quadro che
non è in grado di produrre una ribellione alla gabbia del debito, perché ne
condivide gli assiomi di fondo – individuo vs società;
proprietà vscomune; merito vs solidarietà – e l’orizzonte della solitudine competitiva, ovvero la dimensione
parcellizzata di ognuno da solo sul mercato in diretta competizione con
l’altro.
Un orizzonte
che ha trasformato il diritto al lavoro nel dovere di dimostrarsi
occupabili – anche gratis – e i diritti sociali in bisogni, mentre i beni comuni e i servizi pubblici
diretti a soddisfarli sono diventati beni economici da comprare.
Se nell’utopia marxiana, la società avrebbe dovuto declinare se stessa secondo
il principio “da ciascuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi
bisogni”, il fondamentalismo del mercato ha declinato un universo
sociale fondato sul principio “da ciascuno secondo i suoi
bisogni, ad ognuno secondo le sue capacità di spesa”.
Per
contrastare tutto questo, occorre
mettere in campo non solo parole di verità e di giustizia sul debito pubblico,
svelando la truffa su cui è stato costruito, bensì anche pratiche concrete che
reimmettano le persone dentro circuiti collettivi, aiutandole a superare il
panico – che immobilizza – per farle accedere alla pre-occupazione, ovvero alla possibilità di prepararsi
ad occuparsene. Si tratta, di fronte a chi (attraverso il debito) vuole
disciplinare il futuro individuale e collettivo, di riaprire l’orizzonte delle
possibilità.
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