Questo testo
riproduce il capitolo sesto del libro ''L'agonia
della scuola italiana'', scritto da Massimo Bontempelli e pubblicato
nel 2000 dalla Editrice
C.R.T. © 2000 by Editrice C.R.T. I numeri tra parentesi quadra
rinviano a note del curatore, non dell'Autore. Le note si trovano in
fondo al testo. I numeri tra parentesi tonda indicano in quale pagina del libro
si trova il testo. I riferimenti ad altri testi, legati a questo, si trovano
nel sito Temi e
Reti.
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La scuola del totalitarismo
neoliberista.
L'attuale processo di innovazione
nella scuola sostanzialmente conduce, in prospettiva, allo smantellamento del
sistema statale della pubblica educazione, alla privatizzazione aziendalistica
degli istituti scolastici, alla dequalificazione culturale dell'insegnamento,
alla fine di ogni residua possibilità, per i ceti sociali più bassi, di
avvalersi dell'istruzione pubblica come mezzo per migliorare la loro
condizioni.
Questo processo è stato
politicamente messo in movimento non già dalla destra, bensì dalla sinistra,
ovvero proprio da quella parte politica, latamente intesa, nella cui tradizione
complessiva stanno la difesa e l'ampliamento dei compiti delle istituzioni statali,
il valore attribuito all'educazione e alla cultura, la promozione della
mobilità sociale. Soltanto comprendendo questo nesso, apparentemente incongruo,
tra sinistra politica e riforma antieducativa, anticulturale e aziendalistica
del sistema dell'istruzione, si può arrivare a capire cosa stia realmente
accadendo nella scuola.
Occorre però, a questo proposito,
evitare due interpretazioni simmetricamente opposte, ma entrambe fuorvianti,
fondate sulle categorie rispettivamente di tradimento e di continuità. I capi
della sinistra, dicono alcuni, hanno tradito, per meschinità personale,
l'essenza della sinistra, facendo,
sotto mentite spoglie, una politica di destra.
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Secondo altri, invece, il peggio di
ciò che fanno è in continuità con la tradizione della sinistra, che fin dalle
sue origini ha organizzato le masse per subordinarle ai poteri costituiti.
Non si può spiegare l'attuale
politica della sinistra con il tradimento, da parte dei suoi capi, della vera
natura della sinistra stessa. Quella di tradimento, infatti, è una rispettabile
categoria interpretativa, che riguarda però le scelte individuali considerate
sotto il profilo morale, non i comportamenti collettivi espressivi di dinamiche
sociali. Ora, le devastanti pratiche di governo della sinistra non nascono
dalle iniziative di singole, per quanto influenti, personalità, ma sono l'opera
condivisa di un intero ceto politico, approdato nel suo insieme alle sponde
della totale complicità con i poteri economici. Ma non basta: questo ceto politico
può governare perché è sostenuto dal consenso, quanto meno passivo, di una
parte cospicua della popolazione, tradizionalmente di sinistra, che continua a
votarlo, e che non si sente quindi evidentemente ferita dai suoi comportamenti.
E non basta ancora: tutto ciò accade non soltanto in Italia, ma nell'intera
Europa, dove i ceti politici di sinistra sono potuti arrivare a smantellare
garanzie sociali, e ad accordarsi servilmente alle guerre americane, rimanendo
uniti e non perdendo un consenso di massa. È evidente, dunque, che siamo in
presenza non di scelte individuali, bollabili come tradimenti, ma di tendenze
sociali impetuose, fortemente radicate, e di carattere generale.
Se non si può spiegare l'attuale
politica della sinistra con la categoria di tradimento, non la si può spiegare
neppure con quella di continuità. È certamente vero che se la sinistra può
operare in totale complicità con i poteri economici, su scala generalmente
europea e senza perdere il suo elettorato tradizionale, ciò indica che c'era
nel
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suo originario codice genetico
qualcosa che rendeva possibile questo approdo. Ma è anche vero che la sinistra
in altre epoche ha difeso con forza l'intervento statale nell'economia anche a
favore dei ceti più svantaggiati, ha promosso con convinzione la creazione di
una rete di garanzie sociali, ha inteso l'educazione come grande compito
collettivo ed emancipatorio. Una sinistra che non vede più la società se non
nell'ottica dell'azienda, e che intende ridurre ad aziende persino ospedali e scuola,
ha quindi rotto la continuità con una parte significativa della propria scuola.
La questione di come la sinistra
politica abbia potuto farsi promotrice di una riforma in chiave aziendalistica
del sistema dell'istruzione è dunque storicamente complessa. Si può iniziare a
chiarirla comprendendo come, storicamente, nel codice genetico della sinistra
vi sono stati due caratteri fondamentali, vale a dire quello di essere
emancipatrice, e quello di essere modernizzatrice.
La sinistra è nata come parte politicamente
emancipatrice dei ceti socialmente subordinati della popolazione. Emancipatrice
non vuol dire né liberatrice né eguagliatrice. Nel corso della sua storia la
sinistra, sia nella sua versione comunista che in quella socialdemocratica e in
quella radicalborghese, ha molte volte contribuito ad aprire spazi di libertà
civile e di liberazione umana. Ma ha anche tante volte, in tutte le sue
versioni, espresso una prassi negatrice della libertà. E, quando ha contribuito
ad ampliare i diritti di libertà e ad attivare processi di liberazione, ha
ottenuto questi risultati come effetto secondario di un'azione politica volta
ad altri obiettivi. La sinistra, inoltre, non è mai stata, se non in ambienti e
momenti circoscritti della sua storia, realmente egualitaria, Nella sua
versione socialdemocratica e radicalborghese ha accettato la diseguaglianza
fondamentale tra capitalisti e
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lavoratori. Nella sua versione
comunista ha accettato la diseguaglianza fondamentale tra burocrati
dell'apparato partitico e statuale e i lavoratori. In ogni sua versione ha
mantenuto una diseguaglianza di status tra i ceti di cui intendeva
rappresentare gli interessi e i rappresentanti professionali di tali interessi.
Ma la sinistra è stata realmente emancipatrice delle classi socialmente più
basse. Organizzandole e rappresentandole, le ha sottratte all'esclusione
sociale. Attraverso le leve delle istituzioni statuali, ha promosso in alcune
epoche una redistribuzione del reddito a loro favore, contribuendo così ad
attenuare le diseguaglianze sociali. Ha ampliato l'accesso dei ceti inferiori
alla previdenza, alla sanità e all'istruzione, attenuando anche per questa via
le diseguaglianze sociali. La sua azione emancipatrice, quindi, evitando un
allargamente delle diseguaglianze, ed anzi restringendole, sia pure in maniera
limitata, ha potuto sembrare, anche senza esserlo, frutto di un'ispirazione
egualitaria.
La sinistra è nata anche come parte
politicamente modernizzatrice di tutti gli aspetti della vita sociale. È su
questo terreno che essa si è originariamente contrapposta politicamente alla
parte avversa: nelle assemblee rappresentative successive alla rivoluzione
francese invalse l'uso che sedessero sui banchi di destra coloro che volevano
mantenere le tradizioni del passato, e che cercavano di contrastare tutti i
processi di innovazione, e che sedessero sui banchi di sinistra coloro che
favorivano il distacco delle società dal loro passato, e che intendevano
promuovere i mutamenti. Essere di sinistra ha sempre significato essere, per
così dire, dalla parte del futuro, e guardare con ottimismo a tutte le tendenze
di trasformazione sociale, di sviluppo economico, di sovvertimento dei costumi
tradizionali e di innovazione tecnica. Ciò è stato tanto vero che la
modernizzazione capitalistica è stata
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storicamente auspicata e promossa
persino dalla sinistra anticapitalistica, convinta, in quanto sinistra, che
l'avvento dei rapporti sociali più adatti al genere umano passasse comunque
attraverso la rottura delle tradizioni ed il distacco dal passato che solo il
capitalismo sapeva realizzare.
I due caratteri fondamentali
originari della sinistra si sono per una lunga fase storica compenetrati a
meraviglia. La sinistra ha potuto, in tutte le sue versioni, sentirsi
emancipatrice in quanto modernizzatrice, perché sembrava che la direzione della
storia fosse appunto quella di emancipare cerchie sempre più ampie della
società, che cioè le trasformazioni storiche fossero di per se stesse
emancipatrici. Per gran parte del nostro secolo, ad esempio, le politiche
keynesiane di redistribuzione del reddito, gli interventi regolatori delle
istituzioni statali nella vita economica, e le garanzie sociali accordate alle
classi lavoratrici, sono stati elementi che hanno favorito il progresso tecnico,
la realizzazione del plusvalore, e la modernizzazione capitalistica. Il
cosiddetto compromesso fordista è stato così definito appunto perché ha
soddisfatto non soltanto le richieste sociali delle classi lavoratrici, ma
anche le esigenze accumulatrici e modernizzatrici delle classi capitalistiche.
L'emancipazione intesa come funzione
della modernizzazione ha dato fin dalle origini alla cultura della sinistra, in
tutte le sue espressioni, un'impronta irrimediabilmente nichilistica. La
necessità di riscattare gli strati inferiori della società dalla miseria
materiale e culturale è stata infatti sottratta ad ogni fondamento ontologico,
ad ogni giustificazione metafisica, ad ogni imperativo etico. L'obiettivo
dell'emancipazione è stato considerato valido in quanto richiesto dal
processo di modernizzazione, e, di conseguenza, indicato dalla direzione della
storia e
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socialmente vincente. Sulla base,
quindi, di un nulla. Ciò che è socialmente vincente oggi, infatti, può
diventare socialmente perdente domani. La direzione della storia cambia in ogni
epoca. Il processo di modernizzazione non richiede sempre le medesime
configurazioni sociali.
A questo punto abbiamo tutti gli
elementi per spiegare l'attuale politica della sinistra, compresa quella sulla
scuola, al di fuori delle categorie fuorvianti di tradimento e continuità. La
sinistra è stata ad un tempo emancipatrice e modernizzatrice, concependo
nichilisticamente l'emancipazione come funzione della modernizzazione, ma
potendo egualmente perseguire con forza l'emancipazione in ragione
dell'effettivo nesso che essa ha mantenuto, per diverse fasi storiche, con la
modernizzazione.
Questo nesso si è spezzato
all'incirca ai tre quarti del secolo appena concluso. Da allora in poi il
capitalismo si è ristrutturato e rimondializzato lungo una linea di sviluppo
che esige la deemancipazione di cerchie sempre più ampie della società. Da
allora in poi, quindi, la sinistra configurata secondo le sue tradizioni
storiche non ha avuto più la possibilità di esistere. Molti non lo hanno
capito, perché sono rimasti ipnotizzati dalla fine rapida e impressionante del
comunismo storico novecentesco. In realtà, però, insieme con il comunismo è
giunta alla fine, come effetto della medesima dinamica storica, un'esperienza
politica molto più ampia. Hanno cessato di esistere, infatti, sia pure in
maniera meno appariscente, anche la democrazia progressista borghese e la
socialdemocrazia. L'unica differenza tra gli ex-comunisti e gli
ex-socialdemocratici nel loro essere ex è che i primi hanno rinnegato il
comunismo e cambiato nome, mentre i secondi non solo non hanno rinnegato la
socialdemocrazia, ma continuano a militare in partiti che sono
organizzativamente
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e nominalmente gli stessi partiti
socialdemocratici del passato. Un socialdemocratico di nome oggi è infatti
nella realtà un ex socialdemocratico, in quanto una socialdemocrazia che nella
sua pratica di governo privatizza anziché nazionalizzare, restringe le garanzie
sociali anziché ampliarle, ed accetta la crescita spontanea delle
diseguaglianze economiche anziché promuovere una redistribuzione del reddito,
come oggi normalmente accade, non è più la socialdemocrazia esistita fino a
ieri.
La sinistra dell'epoca attuale è
dunque, nel suo insieme, un'altra da quella del passato fino a trent'anni fa.
Per questo la categoria di continuità non è in grado di spiegarla. Tuttavia
quel che di diverso essa è ora nasce dai suoi stessi caratteri d'origine. Era
emancipatrice e modernizzatrice: l'epoca attuale, però, non consente più in assoluto
di essere simultaneamente l'una e l'altra cosa. Era nichilista, perché non
fondava l'obiettivo dell'emancipazione su alcunché di ontologico: quando perciò
è stata posta nell'alternativa tra essere emancipatrice oppure modernizzatrice,
ha scelto senza rimorsi di essere soltanto e solamente modernizzatrice. I
comunisti e i socialdemocratici erano tali non su autentiche basi metafiche ed
etiche, ma nella convinzione che il vento della storia soffiasse nelle loro
vele. Perciò, quando il vento è cambiato, è sembrato loro naturale cambiare la
direzione di viaggio, per continuare ad averlo nelle loro vele.
La sinistra, insomma, ha rinnegato
la propria storia, ma sulla base di caratteri originari della propria storia:
la sua fortissima istanza modernizzatrice, il suo mito del progresso, il suo
radicale nichilismo, il suo voler procedere sempre nella direzione ritenuta
storicamente vincente. Questi caratteri, che in altre epoche hanno alimentato
la sua prassi emancipatrice, si sono rivelati nella
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nostra epoca particolarmente idonei
a fare di essa lo strumento politico d'elezione di una modernizzazione
deemancipatrice, e di un inedito totalitarismo planetario insito in tale
modernizzazione.
L'odierna stupidità crede che
l'epoca dei totalitarismi sia ormai trascorsa, in quanto dà per scontato che i
totalitarismi siano soltanto fascismo, nazismo, comunismo. Ma cosa significa
totalitarismo? Significa che i diversi ambiti e livelli della vita collettiva
hanno perduto la loro specifica autonomia, ed obbediscono ad una medesima ed
unica logica di potere. Questa logica di potere è rappresentata nel
totalitarismo politico dallo Stato e dal partito unico variamente intrecciati
(nell'Italia fascista, ad esempio, il totalitarismo, peraltro assai incompleto,
faceva perno sullo Stato, mentre nella Germania nazista soprattutto sul
partito). Ma quello politico non è l'unico totalitarismo concepibile, e
neanche quello compiuto. Noi oggi viviamo dentro un totalitarismo economico,
gradualmente impostosi da un quarto di secolo, rispetto al quale quello di un
qualsiasi Stato fascista è un totalitarismo all'acqua di rose. Certo, un
totalitarismo economico non appare visibile come tale alla stessa stregua di un
totalitarismo politico, e risulta anzi del tutto invisibile ai più, ma, proprio
in ragione di questo suo rimanere ben nascosto, esso penetra molto più
profondamente nelle anime, instupidendole ed anestetizzandole spiritualmente
come nessun dittatore avrebbe mai potuto fare, e diventando così totalitario al
massimo grado.[1]
Il mondo in cui oggi viviamo è
compiutamente, esasperatamente totalitario.[2] Questo è semplicemente un
fatto. Si è detto, infatti, che il totalitarismo indica, nella sua nozione, la
mancanza di autonomia dei diversi ambiti e livelli della vita collettiva,
subordinati tutti ad una medesima ed unica logica di potere. Ed oggi non c'è
ambito e
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livello della vita collettiva che
non sia assoggettato alla logica esclusiva dell'economia, ridotta a sua volta a
pura logica mercantile del profitto aziendale. Il sindacalismo? Non deve
rispondere più alla sua logica specifica di perseguire il miglioramente
progressivo delle condizioni di vita delle classi lavoratrici, ma è spinto,
attraverso l'imposizione del monopolio della rappresentanza sindacale di sindacati
di regime, ad adattare il lavoro alle esigenze del profitto aziendale. La
sanità? Non deve rispondere più alla sua logica specifica di tutelare il
diritto alla salute degli essere umani, ma le prestazioni sanitarie devono
venire considerate merci con il cui pagamento assicurare il buono stato dei
conti degli enti erogatori, organizzati come aziende. La previdenza? Non deve
rispondere più alla sua logica specifica di costituire il tramite attraverso
cui la soceità garantisce un reddito dignitoso a quanti non possono più trarlo
dal lavoro, ma deve operare solo nei limiti in cui può venire finanziata per
via mercantile. L'alimentazione? Non deve rispondere più alla sua logica
specifica di fornire un sano nutrimento agli organismi, ma deve assicurare uno
sbocco mercantile alla produzione capitalistica di cibo, al punto che i divieti
di importazione di alimenti di supposta nocività sono ormai condannati dalle
istituzioni internazionali come violazioni della libertà commerciale. La logica
del mercato, dell'azienda e del profitto pervade insomma tutti gli ambiti,
anche quelli che per loro originaria costituzione dovrebbero essere più lontani
da una natura mercantile, della vita collettiva.
Questo totalitarismo estremo della
politica si rivela in forma chiarissima nella sfera politica. Dovunque, in
Europa, gli schieramenti politici che si contendono, talvolta con grande
asprezza e senza esclusione di colpi, il governo dei vari paesi, governano poi
tutti accettando gli
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esiti dei giuochi dei mercati, e
considerando ineludibili le esigenze delle aziende. Lo svilupo della società è
determinato esclusivamente dai poteri economici, in maniera non diversa se il
governo politico è in mano ad un partito oppure ad un altro.
Il totalitarismo dell'economia che
domina il mondo può essere correttamente definito totalitarismo neoliberista.
Totalitarismo, perché non ammette, in nessun settore della società, alcun
funzionamento delle istituzioni che non corrisponda a criteri aziendalistici,
privatistici, e di accumulazione di profitti. Neoliberista, perché si basa,
secondo l'ideologia liberista, sull'assenza di regole politiche limitatrici del
libero giuoco mercantile, promuovendo, però, a differenza del liberismo
tradizionale, incisivi interventi pubblici nella sfera economica. Questi
interventi, che vengono rigorosamente esclusi per porre qualche limite ai
poteri economici, sono invece ammessi e sollecitati, pur essendo a rigor di
termini non liberisti, per favorire l'accumulazione capitalistica, creare
situazioni conformi alle esigenze aziendali, e spazzare via dalla società ogni
luogo istituzionale ancora dotato di finalità sue proprie estranee alla logica
aziendalistica.
Il totalitarismo neoliberista è in
grado di riprodursi con il governo dei più diversi schieramenti politici,
perché quello che ancora chiamiamo governo è in realtà semplice amministrazione
delle pratiche di favore ai poteri economici, e degli esiti sociali dello
sviluppo da loro imposto, e le forze che ancora chiamiamo politiche sono in
realtà gruppi professionali che si contendono il controllo dei poteri
amministrativi di supporto ai poteri economici.
Non c'è dubbio, tuttavia, che il
totalitarismo neoliberista, pur potendo facilmente convivere con qualsiasi tipo
di governo tra quelli oggi in grado di imporsi, trova un
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più efficiente aiuto al
finanziamento autoriproduttivo del proprio meccanismo economico in governi di
sinistra. La sinistra, cioè, è più funzionale al totalitarismo neoliberista di
quanto non lo sia la destra, e ciò proprio in virtù di caratteri che le sono
stati costitutivi fin dalle origini della sua storia. La destra, con la quale
comunque i poteri economici possono vantaggiosamente convivere (in quanto quel
che ancora si chiama politica è, nell'ambito delle forze che contano, serva
dell'economia), si propone bensì come più coerentemente liberista della
sinistra, ma la sinistra ha nel suo codice genetico una natura completamente e
convintamente modernizzatrice, mentre la destra conserva sempre almeno qualche
tratto arcaicizzante. La sinistra, quindi, può più facilmente della destra
eliminare quelle sopravvivenze di epoche passate che intralciano la sfrenatezza
dell'accumulazione capitalistica. Si pensi, ad esempio, a come la sinistra
abbia diffuso una cultura promotrice della modernizzazione del costume sociale
che, sottraendo i comportamenti individuali ai condizionamenti premoderni
dell'etica familiare, delle inibizioni religiose, e delle tradizioni
comunitarie, ha reso l'individuo un perfetto consumatore di merci. La sinistra,
inoltre, porta in dote al totalitarismo neoliberista la capacità, inscritta nel
suo codice genetico, di tradurre in pratica le sue direttive attraverso una
rete di seguaci capillarmente diffusi nel corpo sociale, e di amministrare il
consenso ricevuto con un'abilità sufficiente a conservarlo. La destra ha
seguaci che le sono legati sul piano delle opinioni. La sinistra ha invece, per
effetto della sua storia, un seguito che non è solo di opinione, ma è formato
da moti individui capaci di dare concreta attuazione a ciò che i loro capi
vogliono nei diversi settori nei quali sono professionalmente inseriti. La
dinamica sociale di progressiva deemancipazione delle classi subalterne, e di
definitiva
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disarticolazione privatistica delle
istituzioni pubbliche, che il totalitarismo neoliberista impone, può dunque
venire amministrata in maniera più convincente per i poteri economici dalla
sinistra piuttosto che dalla destra. Gestita dalla destra, infatti, tale
dinamica crea maggiore disorganizzazione e incontra più forti resistenze di
quanto non accada con la gestione della sinistra, che è in grado, attraverso le
sue cinghie di trasmissione nei diversi settori della società, di mettere in
moto tutte le mediazioni, tutti gli ammortizzatori e tutti i compensi clientelari
capaci di scoraggiare, confondere e corrompere i potenziali oppositori. La
sinistra, infine, incarna un nichilismo radicale e di massa che olia, per così
dire, i meccanismi di funzionamento del totalitarismo neoliberista. Se infatti
la destra esprime correnti di opinione che hanno come loro riferimento valori
rozzi e distorti, la sinistra, dopo aver abbandonato con la massima
disinvoltura le sue originarie ideologie, non ha valori affatto, è del tutto
priva di un'anima. Il suo nichilismo radicale e di massa è manifesto nel
comportamento di milioni di persone che accettano, gestiscono, amministrano,
promuovono sordide clientele, meschini interessi, cinici giuochi di potere, in
totale sottomissione ad una logica sistemica di cui un tempo, quando era molto meno
devastante di oggi, si dicevano irriducibili nemici. Il giovane sessantottino
rivoluzionario arrabbiato, oggi amministratore o pubblicista diessino, ovvero
giornalista o politicante berlusconiano, è una delle figure antropologicamente
più squallide e spiritualmente più aride che sia stato dato di vedere. Figure
di tal genere, che quando militano nella destra non fanno che servire le loro
sfrenate ambizioni personali, svolgono invece una funzione di ben ampia portata
se sono rimaste nel loro campo originario, cioè nella sinistra. Esse
contribuiscono infatti in maniera decisiva ad
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alimentare il nichilismo radicale
diffuso in quel campo. Un elettore della destra cesserebbe di votarle se essa
diventasse poniamo, da severa e poliziesca a lassista sull'ordine pubblico,
oppure se non esaltasse più le forze armate, e si presentasse come
antimilitarista e pacifista. Il nichilismo diffuso nella sinistra è invece tale
che essa segue i suoi capi su qualsiasi strada. Li votata quando esaltavano
l'Unione Sovietica, ed ha continuato a votarli quando hanno definito il
comunismo nemico di ogni libertà. Li votata quando invocavano un maggior
intervento pubblico nell'economia, ed ha continuato a votarli quando sono
diventati promotori delle privatizzazioni. E gli esempi potrebbero continuare
all'infinito. Per chi si sente appartenenete al cosiddetto popolo della
sinistra, i valori, gli ideali, i progetti sulla società contano zero. Quel che
conta è l'identità, è il ruolo, è la rete di relazioni che l'appartenenza a certi
ambienti assicura. Questo nichilismo radicale, è bene ribadirlo, non è comparso
oggi, bensì ha caratterizzato la sinistra anche nei tempi in cui essa aveva
grande dignità politica. Il grigio amministratore diessino di oggi, che
gestisce le sue clientele di potere senza un minimo raggio di eticità, senza
neanche saper immaginare una deviazione della società dalla linea di sviluppo
impostale dai poteri economici, e senza più alcun riferimento culturale, non è
diventato un nichilista senz'anima da quando è diventato diessino. Se alcuni
decenni fa era un sessantottino che urlava le sue frasi rivoluzionarie, che
faceva militanza realmente politica, e non gestione amministrativa
dell'esistente, che coltivava utopie anticapitalistiche, senza neppur
sospettare di poter un giorno accettare ogni decisione dei poteri economici, e
che citava i classici del marxismo come testi sacri, tuttavia già allora era il
nichilista senz'anima che è oggi. Bastava avere capacità di osservazione
psicologicea per
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poter vedere chiaramente come il suo
rivoluzionarismo era narcisismo giovanilistico, il suo attivismo militante
prorompente impulso autoaffermatorio, il suo linguaggio anticapitalistico un
codice culturale di identità e appartenenza, il suo spirito rabbiosamente contestatario
una spasmodica e violenta ricerca di successo personale. Tutto questo, in
mancanza di veri punti di riferimento ontologici, di serietà morale, e di
radicamento antropologico, non poteva che esser fatto scivolar via senza
traccia dalla storia, man mano che l'epoca cambiava, le fiammate sociali
interpretabili come rivoluzionarie si spengevano, ed alla ricerca di
un'identità personale di successo si aprivano, per il giovane borghese di
talento di allora, più concrete vie di realizzazione nell'ambito dell'ordine
sociale dato. Certo, non proprio tutti i rivoluzionari sessantottini erano come
li abbiamo descritti. Non tutti, infatti, sono poi diventati membri fissi delle
cerchie associative, sindacali e partitiche della sinistra maggioritaria,
digerendone ogni giravolta. C'è, non soltanto in Italia, ma in tutta Europa,
per quanto ovunque molto minoritaria, anche una sinistra che non ha partecipato
ai governi che si sono accodati alle guerre americane ed hanno lasciato carta
bianca ai poteri economici. Giudicheremmo senza giustizia questa sinistra se la
assimilassimo a quella di cui abbiamo fin qui parlato. Tuttavia, nonostante
ogni differenza, anche questa sinistra si esprime attraverso un ceto politico
professionale che non è riuscito a ripensare su nuove basi non nichilistiche la
sua cultura d'origine, e che di conseguenza non sa pensare la sua prassi
politica al di fuori delle istituzioni del potere, dalle quali teme come un
male da evitare a tutti i costi di rimanere estromesso. Questa sinistra non ha quindi
sciolto tutta una serie di residui legami con la sinistra governativa, e non ha
valori così ben fondati da farle capire che la sinistra
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governativa non è neanche un po'
meno cattiva e meno nociva della peggiore destra.
Il nichilismo è dunque coestensivo
dell'intera sinistra. Esso rende il corpo maggioritario della sinistra così
straordinariamente duttile rispetto a qualsiasi innovazione accettata dai suoi
capi, e così capace di amministrarne l'esecuzione concreta, da farne l'ideale
cinghia di trasmissione del totalitarismo neoliberista. Non c'è infatti
schifezza così schifosa che chi appartiene al popolo della sinistra non riesca
agevolemente a mandar giù, purché naturalmente provenga dalla sinistra stessa,
perché se essa proviene invece dalla destra vi si oppone virtuosamente. E non
c'è prassi sociale abbastanza insensata perché l'appartenente alla sinistra non
sappia gestirne l'esecuzione, purché naturalmente nell'ambito di un ruolo
connesso a tale appartenenza. Così, tutto ciò che il totalitarismo neoliberista
genera, la sinistra agevola e fa accettare. Se ha bisogno di una
giustificazione, sceglie la più imbecille, quella cioè che l'adesione alla
sinistra è obbligata per scongiurare il pericolo della destra. La sinistra è
così ridotta a mera appartenenza priva di ogni valore, incapace di suscitare
nel suo popolo nichilista altra motivazione che quella di vincere, in una
partita da cui è scomparsa ogni posta relativa all'effettivo stato della
società, l'opposta appartenenza della destra.
L'innovazione nella scuola diventa
ora chiara. Il totalitarismo neoliberista non può accettare una scuola ancorata
alla sua specifica finalità educativa, in quanto non ammette alcun compito
sociale autonomo dal meccanismo economico. Esso esige che tutte le finalità
estranee alla logica aziendalistica, rispetto alla quale non sono che costi
improduttivi, siano spazzate via da ogni luogo istituzionale, e quindi anche
dalla scuola. Non può tuttavia ottenere questo risultato, per quanto riguarda
la scuola,
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imponendolo direttamente ed
esplicitamente come in altri campi, ma ha bisogno, per raggiungerlo, di una
mediazione politica. Ha bisogno di una forza sufficientemente modernizzatrice
da essere capace di liquidare senza rimpianto le tradizioni della scuola italiana.
Ha bisogno di una forza sufficientemente nichilista da non tener conto, nel
pensare la scuola, della necessità di assicurare la trasmissione di
fondamentali valori cognitivi ed etici. Ha bisogno di una forza
sufficientemente conquistata dalle illusioni ideologhe del nostro tempo da non
esitare a inondare la scuola delle ultime novità sociali, facendone un luogo di
semplice apprendimento dell'uso delle tecniche, di semplice orientamento ai
consumi, di semplice acquisizione di una certa gamma di nozioni praticamente
utili, senza alcuna base culturale. Ha bisogno di una forza dotata di
sufficiente radicamento nel mondo accademico, nel personale burocratico, e
nell'ambito stesso degli insegnanti della scuola secondaria, da poter
effettivamente adattare gli istituti scolastici a nuovi modelli organizzativi e
a nuovi dispositivi didattici, capaci di cancellarvi ogni carattere
culturalmente disinteressato e liberamente educativo. Una simile forza
corrisponde perfettamente a quello che è la sinistra.
La sinistra politica era dunque
destinata, nell'attuale fase storica, a porsi al servizio del totalitarismo
neoliberista anche per quanto riguarda la scuola. La scuola italiana che sta
emergendo dalle innovazioni promosse da governi di sinistra, è infatti la scuola
del totalitarismo neoliberista. È, cioè, una scuola da cui va progressivamente
scomparendo la trasmissione di una cultura disinteressata, fondata su valori
stabili ed organizzata in maniera sistematica e razionale, secondo quando
richiesto da una regolazione puramente mercantile della società, per la quale
non esiste se non quello che è
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immediatamente utile, continuamente
modificabile, e del tutto convenzionale. È una scuola che sta gradualmente
perdendo la sua fisionomia unitaria, pubblica e nazionale, sostituita dalla
concorrenza reciproca, sul terreno dell'immagine, tra istituti scolastici
sempre più legati ad interessi particolaristici, in conformità ad una logica
totalitaria che esige dappertutto frantumazione invece che unità, concorrenza
invece che organicità, immagine invece che sostanza. È una scuola in cui si
vanno sempre più determinando gerarchie arbitrarie e poco sensate competizioni
tra gli insegnanti, in base al modello organizzativo aziendalistico, con la sua
moltiplicazione delle differenziazioni e la sua esasperazione delle rivalità,
che il totalitarismo neoliberista ha già trasferito dalle aziende private agli
uffici pubblici, e tende ora a trasferire anche nel sistema dell'istruzione. È
una scuola orientata non più all'educazione, bensì all'acquisizione di abilità
prive di finalizzazione educativa, in quanto l'educazione è un momento che
trascende l'interesse economico e l'utilità immediata, e che quindi, apparendo
economicamente superfluo, tende ad essere eliminato.
Non è necessario immaginare, per
tutto questo, un disegno consapevole dei promotori della riforma. Bastano i
loro vuoti culturali e le loro idee fasulle perché il totalitarismo
neoliberista possa imporsi attraverso di loro.
* Note del
curatore
[1]
Aggiungo un collegamento
ipertestuale a un intervento di Pasolini---riferimento che non è presente nello
scritto di Bontempelli---perché mi sembra interessante far notare certe
concordanze di vedute tra i due autori.
Bontempelli scrive, a pagina 98:
''[il
totalitarismo neoliberista] penetra molto più profondamente nelle anime,
instupidendole ed anestetizzandole spiritualmente come nessun dittatore avrebbe
mai potuto fare, e diventando così totalitario al massimo grado.''
Pasolini dice, nel documentario
della Rai ''La forma della città'':
Naturalmente questo brano di
Pasolini andrebbe integrato da tutto il corpus delle sue riflessioni in
merito alla società: Scritti Corsari, Lettere luterane, Descrizioni
di descrizioni, Il volgar eloquio, Il caos, Il sogno del
Centauro, e Le belle bandiere.
[2]
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