domenica 29 settembre 2019

Come il liberismo ci rovina la vita - Mauro Gallegati


Ormai è comune leggere che – oltre al debito pubblico – la malattia economica dell’Italia sia la bassa produttività. Questa non ha nulla a che fare con l’efficienza della produzione essendo misurata come rapporto tra il valore aggiunto (il prezzo moltiplicato per la quantità) e la quantità di lavoro – a rigore il costo di questo – impiegato nella produzione. Per aumentare la produttività esistono quindi due vie: produzioni avanzate o nuovi beni e servizi (che hanno prezzi più elevati) e/o ridurre il costo del lavoro. La prima misura è senz’altro più costosa: occorre inventare nuovi prodotti, investire in ricerca risorse che solo uno Stato può permettersi di affrontare. L’altra via, almeno per le singole imprese, non ha costi diretti immediati sebbene – riducendo la domanda aggregata – diviene costosa per il sistema paese poiché aumenta la disoccupazione, la spesa delle famiglie e quindi, in un periodo più lungo, i profitti delle imprese stesse.
È da 22 anni che da noi si insiste con la seconda via, con provvedimenti sul lavoro. Il mercato del lavoro in Italia è stato oggetto di riforme continue di ispirazione liberista che, identificando la riduzione del costo – soprattutto del salario – con la flessibilità, hanno finito per rendere precaria la vita lavorativa, annullare gli aumenti salariali e ridurre i diritti dei lavoratori, senza aver prodotto effetti apprezzabili sulla disoccupazione che oggi – secondo le statistiche ufficiali – è grossomodo quella di allora. Se misurata in modo appropriato – ad esempio contando per metà gli occupati part-time non per loro scelta e misurando nella forza lavoro anche gli scoraggiati di breve periodo – la disoccupazione è più vicina al 20% che al 10. L’onda liberista colpì anche la sinistra di governo, artefice delle prime riforme e favorevole al “fiscal compact” che ha ispirato lo sciagurato provvedimento del pareggio di bilancio introdotto come modifica costituzionale dal Governo Monti nel 2012.
Il problema dell’occupazione in Italia non è che il mercato sia troppo rigido, quanto piuttosto che non ci sono nuovi lavori – per aumentare i quali occorrerebbe superare il modello di sviluppo degli anni 70 fatto di produzioni tradizionali e punte di eccellenza, a basso valore aggiunto, ora non più in grado di essere concorrenziali coi paesi di recente globalizzazione. Così se Lombardia, Veneto ed Emilia sono saltati sul carro giusto, il Sud è rimasto indietro ed ad esso si stanno avvicinando quelle regioni – come Marche ed Umbria – dell’area Nord Est Centro che non sono in grado di trasformare i vecchi distretti industriali. In anni in cui non c’è più relazione tra aumento dell’occupazione e del PIL, quando ormai è evidente che l’ambiente è stato sacrificato in cambio della crescita, e le disuguaglianze mettono a rischio i sistemi democratici e la vita stessa del pianeta, siamo chiamati ad un cambio di rotta, a proporre una alternativa.
E la sinistra deve farlo. Come? È ormai chiaro che dobbiamo investire in ricerca e sviluppo in produzioni meta-sostenibili e ad usare intelligenza artificiale e robot per vivere meglio – pagandoci le pensioni ed un reddito di base- e che i salari correnti – fermi agli anni Novanta – sono troppo bassi per avere una domanda in interna sufficiente a produrre un livello adeguato di occupati. L’idea che la deflazione salariale sia efficace nell’aumentare l’occupazione è una idea alquanto farlocca di secoli fa, quando non si era ancora individuato il nesso tra domanda aggregata ed occupazione. Ora è chiaro che gli unici prodotti della deflazione salariale sono il fenomeno dei working poor, ormai un lavoratore su dieci lo è oggi in Italia, la precarizzazione del lavoro – e di conseguenza una pensione da fame – ed una nuova ondata di migrazione, soprattutto giovanile, che sopravanza quella che pare così tanto preoccuparci. In un contesto simile occorre progettare il futuro per saperlo gestire: uno shock fiscale – a maggior ragione una flat tax – non serve che a peggiorare la distribuzione e a mettere a rischio il già nostro miserrimo welfare. Una società sempre più dematerializzata, dove l’industria è desinata a scomparire, e la rivoluzione AI cambierà modalità e natura del lavoro, ci attende. Come gestire la trasformazione è la questione a cui siamo chiamati.

(pubblicato su Il Manifesto 4 Agosto 2019)

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Amazzonia: il piromane ha nome e cognome - Loretta Emiri



Ciclicamente, il mondo intero parla dell’Amazzonia brasiliana. Lo ha fatto in occasione delle epidemie introdotte tra gli yanomami dagli operai della strada e dai cercatori d’oro, in occasione dell’assassinio di leader indigeni e difensori dei diritti civili, lo fa oggi per gli incendi dolosi che stanno distruggendo ciò che della foresta è rimasto. Solitamente, gli occidentali parlano delle sventure amazzoniche puntando l’indice contro coloro che reputano ne siano i responsabili. Così se la prendono con i militari che hanno voluto l’apertura di strade, con i padroni delle segherie, con i cercatori d’oro, con gli allevatori di bestiame, con chi incentiva la monocultura di canna da zucchero e soia, con i gestori dell’agribusiness, con chi materialmente appicca fuoco alla foresta.
Il capro espiatorio di questi giorni è l’attuale, decerebrato presidente del Brasile, purtroppo discendente di italiani, che con i suoi discorsi incita alla violenza e al calpestamento dei diritti umani e civili; diritti faticosamente conquistati e sanciti dalla Costituzione promulgata nel 1988 dopo un feroce, lungo periodo di dittatura militare.
Ben pochi sono quanti cercano di analizzare le cause che portano uomini scellerati ad agire con tanta violenza contro altri uomini e contro la natura: è ciò che spero mi riuscirà di fare elaborando questo testo, e lo farò attraverso situazioni vissute sulla pelle durante i diciotto anni in cui ho operato in Amazzonia.
La strada Perimetrale Nord, voluta dai militari e mai completata, che avrebbe dovuto congiungere il Brasile alla Colombia, nel 1974 tagliò a sud il territorio yanomami. Le équipe di disboscamento, assunte senza nessun controllo sanitario, penetrarono massicciamente nella regione portando con sé epidemie di influenza e morbillo, mortali per gli yanomami. Nella regione del torrente Repartimento e fiumi Ajarani e Pacu, il contatto con i lavoratori della strada causò la morte di numerosi indigeni, riducendo tredici villaggi a otto piccoli gruppi di famiglie.
Nel 1975, dopo la pubblicazione delle ricerche geologiche del Progetto Radambrasil, nel territorio yanomami cominciarono a infiltrarsi cercatori d’oro e compagnie minerarie e di prospezione.
Nel 1977, la seconda epidemia di morbillo dall’arrivo della strada uccise sessantotto persone, cioè la metà della popolazione dei villaggi Manihipi, Uxiu e Iropi. In questo stesso anno, aree tradizionalmente occupate dagli yanomami vennero incluse nel progetto di colonizzazione del Distretto Agro-zootecnico di Roraima.
Attratti dalle novità e dai beni materiali della società occidentale, in quell’epoca yanomami di tutti i gruppi locali intensificarono le visite alle fattorie e segherie situate lungo la strada, spingendosi fino alla città di Caracaraí. Alcune volte si spostarono gruppi interi, con donne e bambini. Il risultato era sempre lo stesso: venivano imbrogliati nelle transazioni commerciali; ottenevano indumenti usati, contaminati, che trasmettevano loro malattie della pelle; tornavano a casa con l’influenza, che rapidamente raggiungeva tutti i villaggi dell’area. A caratterizzare il primo periodo da me trascorso tra gli yanomami del Catrimâni furono attività legate alla cura e vaccinazione degli indigeni.
Nell’agosto del 1987 mi accingevo a tornare tra gli yanomami, ma cinque di loro vennero massacrati da cercatori d’oro che invasero l’area indigena Paapi U. Dicendosi preoccupata per l’integrità fisica delle persone che lavoravano nell’area, e promettendo di espellere i cercatori, la FUNAI ­– Fondazione Nazionale dell’Indio costrinse operatori sanitari, ricercatori, indigenisti e missionari cattolici ad abbandonare il territorio yanomami. Il provvedimento stimolò cercatori d’oro di tutto il Brasile ad accorrere in massa nello Stato di Roraima; e isolò completamente gli indigeni dai loro alleati, con ciò impedendo che testimoni potessero raccontare ciò che stava per accadere.
Proliferarono piste di atterraggio clandestine. Per conto di oligarchie e politici locali, piccoli aerei trasportarono migliaia di uomini in territorio yanomami. La storia ci insegna che i cercatori d’oro sono usati per “ripulire” aree: una volta sterminati gli indigeni, le compagnie minerarie, multinazionali naturalmente, si sostituiscono ai cercatori istallandosi, ormai con le carte in regola, su quelli che hanno cessato di essere territori indigeni.
La stampa locale e nazionale cominciò a dare notizie di malattie, epidemie, morti di yanomami, avvelenati dalle acque contaminate dal processo di estrazione dell’oro, o assassinati dalle armi da fuoco dei circa duecentomila invasori. La situazione assunse le proporzioni del genocidio. La minaccia di estinzione degli yanomami, fino ad allora sempre latente, divenne cruda realtà.
Di morti ammazzati per difendere l’Amazzonia e i suoi abitanti ce ne sono stati tanti. Nella mia memoria è gelosamente conservato il ricordo di Vicente Cañas Costa, perché l’ho conosciuto personalmente e insieme abbiamo partecipato ad alcuni eventi organizzati dall’OPAN – Operazione Amazzonia Nativa, che all’epoca era conosciuta come Operazione Anchieta.
Vicente era un missionario gesuita spagnolo, naturalizzato brasiliano, che gli indios mỹky avevano ribattezzato Kiwxi. Nel 1974, lui e a Tomás de Aquino Lisboa realizzarono i primi contatti con gli indigeni enawenê-nawê, nello Stato del Mato Grosso. Nel 1977 Vicente fissò la sua residenza in mezzo a loro, prendendosi cura della salute degli indios e lavorando per la preservazione e demarcazione del loro territorio tradizionale.
Venne assassinato, presumibilmente, tra il sei e il sette di aprile del 1987. Lo ritrovarono circa quaranta giorni dopo; aveva denti e cranio fracassati, un foro nella parte superiore dell’addome, gli organi genitali recisi. Vicente è stato sepolto accanto alla baracchetta in cui viveva. Il primo atto del processo contro gli assassini è avvenuto ben diciannove anni dopo, e tutti furono assolti; solo nel 2017, un nuovo processo porterà alla condanna dell’unico omicida ancora in vita, Ronaldo Antônio Osmar, delegato in pensione della Polizia Civile di Juína.
Non fu certamente dai mezzi di comunicazione locali che seppi dell’assassinio di Chico Mendes, avvenuto il 22 dicembre 1988. La notizia mi giunse qualche giorno dopo attraverso la rassegna stampa che settimanalmente un’organizzazione non governativa del sud del Brasile faceva pervenire ai suoi collaboratori. Feci subito un giro di telefonate per avvertire amici e conoscenti, sentendomi via via più angosciata perché alla mia si aggiungeva la tristezza degli altri. Umide di pianto o strozzate in gola, le nostre parole non verbalizzarono quanto avremmo potuto dire in memoria di Chico Mendes e cioè che era stato un solido leader rurale, intrepido fomentatore di azioni denominate empate, incorruttibile consigliere comunale, brillante sindacalista, eccezionale organizzatore del movimento popolare nell’Acre, uno dei fondatori nazionali del PT – Partito dei Lavoratori.
Per raccoglitori di caucciù e indios dello Stato di Rondônia, l’asfaltatura della strada BR-364 era stata una catastrofe. Chico Mendes sapeva molto bene che se la strada fosse stata in quel momento prolungata fino all’Acre la sua lotta era persa. Simili preoccupazioni ispirarono le sue parole durante la riunione della Banca Interamericana di Sviluppo cui partecipò a Miami nel marzo 1987.
Fu lui, umile lavoratore, a convincere la banca a sospendere i finanziamenti per il prolungamento della BR-364; da quel momento i progetti brasiliani sarebbero stati subordinati alla valutazione di équipe specializzate nell’analisi dell’impatto socio-ambientale di tali progetti. Chico sostenne che bisognava riconoscere e consolidare il diritto di occupazione dei territori da parte di raccoglitori di caucciù e indios e che loro stessi avrebbero dovuto amministrarne le risorse; cioè non difese l’inviolabilità della foresta, ma il suo sfruttamento razionale a beneficio della popolazione locale, ed è questo il principio ispiratore delle reservas extrativistas, che sono le aree riservate alla raccolta dei prodotti della foresta.
Le azioni denominate empate, fomentate da Chico Mendes, meritano di essere ricordate. Nello Stato dell’Acre, all’avanzare degli incendi, del latifondo, dell’agricoltura intensiva, della monocultura e degli allevamenti di bestiame, fece riscontro la presa di coscienza di indios e raccoglitori. Dall’unione dei loro sforzi per difendere la foresta e il proprio peculiare modo di viverci scaturì la forma di resistenza pacifica chiamata empate, termine che significa atto o effetto dell’interrompere, sospendere, far smettere. Quando si profilava la minaccia dell’insediamento di una nuova fattoria, uomini, donne, vecchi e bambini si recavano sul posto e con i loro corpi impedivano l’abbattimento della foresta.
Le rivendicazioni dei leader indigeni, così come i documenti finali prodotti durante incontri e corsi di formazione per maestri indigeni, vennero presi in considerazione durante i lavori della Costituente, che gli indios accompagnarono creativamente e anche fisicamente. La Costituzione della Repubblica Federativa del Brasile, promulgata il 05/10/1988, dedica ai popoli indigeni il capitolo VIII – intitolato “Degli indios”, con gli articoli 231 e 232 che riconoscono organizzazione sociale, usi, costumi, lingue, modi di vedere, tradizioni, diritti originari sulle terre tradizionalmente occupate; e affidano allo Stato l’incarico di demarcare le terre, proteggere e far rispettare i diritti dei popoli indigeni. Inoltre, nel capitolo III – intitolato “Dell’educazione, della cultura e dello sport”, il secondo paragrafo dell’articolo 210 afferma che l’insegnamento primario regolare sarà impartito in lingua portoghese, assicurando alle comunità indigene anche l’utilizzo delle lingue materne e dei procedimenti propri di apprendimento.
L’introduzione nella Costituzione dei dispositivi favorevoli agli indios, non è stata solo una grande vittoria per il movimento indigeno, ma rappresenta il marchio del cambiamento nell’abbordaggio della questione indigena da parte dello Stato, che pone fine ai tentativi di emancipare, assorbire, acculturare gli indios e riconosce loro il diritto alla terra e alla diversità culturale. Una volta sanciti questi diritti, il movimento indigeno ha canalizzato le sue lotte nella demarcazione delle terre, terre che sono state irrigate con il sangue di tantissimi leader.
Oggigiorno molti territori risultano omologati, di altri si chiede l’inclusione di località rimaste fuori dalla demarcazione, per altri si continua a lottare e morire come nel caso dei guarani-kaiowá del Mato Grosso do Sul.
La demarcazione delle terre ha avviato una nuova fase esistenziale per i popoli indigeni, generando tranquillità e stabilità sociale e, conseguentemente, progressi in aree quali l’educazione, la sanità, la cultura, lo sviluppo sostenibile.
Il dato più incoraggiante è che dai duecentoventimila che erano all’inizio degli anni novanta, oggigiorno si parla di novecentomila individui. Appartenenti a molteplici etnie, si sono organizzati in associazioni; sono divenuti maestri e infermieri nelle loro comunità, vigilanti dei propri territori; sono studenti universitari, laureati in Diritto, Educazione, Antropologia, Linguistica, Storia; i loro leader, tra cui spiccano donne coraggiose e determinate quanto le amazzoni da cui discendono, percorrono il mondo per mantenere viva l’attenzione su problematiche e diritti; sono cineasti, conduttori di radio online, pittori e cantanti affermati.
Non meno vitale è il movimento degli scrittori indigeni che organizza corsi di formazione per educatori e alunni bianchi, presentazioni di libri, conferenze, dibattiti, dando il suo imprescindibile apporto alla costruzione dell’identità nazionale, dato che senza gli indigeni il Brasile non esiste.
A livello politico troviamo consiglieri comunali di varie etnie, un sindaco ashaninka, la prima deputata federale indigena, l’avvocata Joênia Wapichana, eletta a distanza di trentadue anni dall’uscita di scena di Mário Juruna che fu il primo deputato indigeno del Brasile.
Stava andando tutto un po’ meglio del solito quando, nell’ottobre de 2018, è stato eletto presidente della Repubblica Federativa del Brasile un essere ignobile di cui mi rifiuto persino di scrivere il nome. Bosta in portoghese significa merda; modificando il suo vero cognome, io lo definisco sempre e solo Bostanaro.
Questo energumeno ha portato avanti la campagna elettorale esibendosi nell’osceno gesto di puntare la mano come fosse una rivoltella; ha vomitato parolacce contro donne, omosessuali, negri, indios; nega che ci sia stata la dittatura in Brasile e i suoi eroi sono efferati dittatori latinoamericani; nei ministeri ha posto esseri ignoranti, ottusi, retrogradi; da presidente continua a parlare a vanvera e ad offendere mogli di presidenti di altri Paesi e figli di personalità assassinate durante le dittature militari latinoamericane.
I suoi discorsi di odio, naturalmente, incentivano la violenza contro le minoranze sopra citate, specialmente contro gli indigeni che la foresta amazzonica hanno preservato intatta fino ai nostri giorni.
Ma non è Bostanaro il responsabile degli incendi in Amazzonia. Lui è capitano dell’Esercito, il vicepresidente della Repubblica è il generale Antônio Hamilton Martins Mourão, sette ministri sono militari, due dei quali lavorano direttamente con il presidente. Circa cento persone provenienti dalle Forze Armate occupano posti nel secondo e terzo scalone di ministeri e in enti statali.
Nel 1966, il governo della dittatura militare varò il progetto chiamato Operazione Amazzonia; sognando di trasformare il Brasile in una grande potenza, e senza preoccuparsi con le conseguenze delle loro scelte, i militari sedussero grandi investitori a impiegare i loro capitali nella regione amazzonica. Fino alla fine della dittatura, a gestire il potere politico ed economico in Brasile furono i militari; ed è ciò che “democraticamente” continuano a fare oggigiorno servendosi di Bostanaro, che è stato eletto “democraticamente” attraverso le fake news, i messaggi comprati e sparati da whatsapp, attraverso anche un presunto attentato alla sua vita.
Questo presidente, così “democraticamente” eletto, è libero di esternare tutto ciò che attraversa la sua mente malata perché più idiozie lui dice, più l’opinione pubblica è distolta da ciò che veramente sta accadendo.
Cosa sta accadendo? Bostanaro è il burattino, i militari sono i burattinai, la trama della tragedia in corso è scritta da un essere obeso e ripugnante il cui nome è Capitalismo e il cognome è Selvaggio.
Persino le parole, gli slogan, i concetti che circolano oggigiorno sono gli stessi degli anni della dittatura: gli indios sono un intralcio al cosiddetto progresso e sono essi stessi a volersi “emancipare”, i missionari stranieri sono spie al mando di potenze mondiali, la Chiesa cattolica vuole internazionalizzare l’Amazzonia. Persino gli interventi di simpatizzanti e amici degli indios e dell’Amazzonia sono sempre gli stessi: vogliamo cominciare a dire che gli indigeni rivendicano di essere considerati nostri contemporanei, e non esseri preistorici, o romantici ed esotici di cui si parla utilizzando verbi al passato remoto?
Perché in Italia si continua a mettere l’aggettivo “ultimi” quando si scrive qualcosa sugli indios yanomami mentre, rispetto all’epoca in cui operavo tra di loro, sono praticamente raddoppiati? Essendo nostri contemporanei, gli indigeni hanno qualcosa da dirci. Vogliamo smettere di parlare di loro e metterci ad ascoltarli? Ci sono. Esistono. Resistono all’invasione delle proprie terre da oltre cinquecento anni.
Le loro culture e società non sono inferiori, sono solo differenti. Hanno molto da insegnarci, se solo avessimo l’umiltà di ascoltarli per quello che sono: esseri umani con conoscenze, esperienze, diritti, sentimenti, sogni, proprio come lo siamo noi.
Accumulo, consumismo, aggressione alla natura, sfruttamento selvaggio delle risorse naturali hanno trasformato la terra in un immondezzaio. Non riusciamo più a smaltire i rifiuti. Quelli tossici avvelenano l’aria, l’acqua, il sottosuolo, tutto ciò che mangiamo, e noi moriamo di cancro.
I pesci muoiono soffocati dalla plastica; in mare muoiono i “diversi” che il nostro egoismo respinge. Concepite da menti malate, faraoniche centrali idroelettriche e nucleari si sono trasformate in catastrofi ambientali, arrivando a devastare territori anche molto lontani dai luoghi in cui sono state costruite; la stessa cosa avviene in quelle aree dove si estraggono minerali a cielo aperto e su larga scala.
Tutto è fatto in nome del cosiddetto progresso che, aumentando, non fa altro che svuotare l’animo degli uomini, rendendoli individualisti e sconsolatamente soli. I guardiani della foresta ci stanno dicendo che non sono e non saranno gli ultimi, perché loro sanno come trattare la terra, come godere con lei senza violentarla, come metterla incinta e perpetuare la discendenza.
(*) Questo testo, pubblicato su Pressenza è stato pubblicato nell’inserto speciale dedicato all’Amazzonia de “La macchina sognante – Contenitore di scritture dal mondo”

sabato 28 settembre 2019

ricordo di Silvio Novembre



QUI il film "Un eroe borghese", regia di Michele Placido

Una bussola con la quale smarrirsi: il nuovo esame di Stato, fra “spunti” e “stimoli”, non consegue la maturità - Redazione ROARS



Pubblichiamo l’analisi svolta da un gruppo di docenti, operanti in diverse regioni italiane, sul nuovo esame di Stato, che il neo ministro Fioramonti ha dichiarato di voler lasciare invariato “per almeno 5 anni”. Un esame il cui impianto rivela, in esito a un’esperienza vissuta “sul campo” e in presa diretta, numerose criticità, fra cui mancanza di chiarezza e di univocità di interpretazioni e di condotte, improvvisazione, scarsa significatività culturale. L’aspetto più negativo della nuova modalità di esame risiede nel fatto di condizionare, per retroazione, la didattica curricolare nelle classi già a partire dai prossimi mesi. Le esperienze vissute da ciascuno degli autori nelle commissioni in diverse regioni, che in questo resoconto sono vividamente restituite al lettore, dovrebbero indurre a ripensare la modifica dell’Esame voluta dalla Buona Scuola, per aprire un dibattito serio e ragionato su questo momento finale dell’istruzione scolastica, che sappia adeguatamente coinvolgere i docenti. Una lettura imperdibile e rivelatrice, specie per chi non è parte attiva del mondo della scuola, e vive nel ricordo delle “sua” maturità, ignorando cosa è successo in anni più recenti. Lo si è fatto per forgiare le menti dei futuri studenti universitari e dei futuri cittadini di un’Italia che sembra davvero votata a farsi del male.
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Archiviato il primo Esame di Stato riformato dal ministro Bussetti nel solco della delega imposta dalla Buona Scuola del duo Giannini-Fedeli, è giunto il momento di valutarne gli esiti. Preoccupazioni e riserve sul nuovo impianto dell’esame non erano del resto mancate (si vedano questa lettera aperta, questo appello ai docenti nel dicembre 2017, un primo e un secondo articolo critico). A consuntivo e a pochi mesi dalla conclusione dell’esperienza come commissari o presidenti di commissione in diverse regioni italiane, cogliamo l’occasione fare una riflessione comune su quanto accaduto, oltre che il punto su elementi di particolare debolezza della nuova formula d’esame e sulle prospettive che essa dischiude dal punto di vista didattico e formativo.

Lo svolgimento dell’esame e la sua balcanizzazione interpretativa
La gestione dell’esame si è rivelata affrettata, venendo accompagnata da direttive confuse sia da parte delle autorità ministeriali, sia dei diversi Uffici Scolastici Regionali (USR), i quali, attraverso i loro ispettori, hanno fornito interpretazioni “soggettivamente autentiche” e spesso in conflitto fra loro. Come già sembrava emergere dalla lettura dell’Ordinanza Ministeriale che regola lo svolgimento dell’esame, pubblicata a marzo 2019, la fase più critica si è rivelata essere quella del colloquio, il cui svolgimento è stato disciplinato dal Ministero tardivamente, con una nota diramata solo a maggio 2019. Una tempistica, questa, che ha di fatto estromesso gli insegnanti da qualsiasi possibilità di approfondimento o decisione professionale e collegiale. Si è trattato di adeguarsi ed eseguire alla svelta.
In quella nota, ad esempio, non era affatto chiaro come le Commissioni avrebbero dovuto rapportarsi ai contenuti del Documento finale di ciascun consiglio di classe, documentante i percorsi formativi degli studenti, ove si illustra il lavoro effettivamente svolto con le classi. Si è così prodotto un florilegio di indicazioni in contrasto fra loro. L’Ufficio Scolastico della Puglia suggeriva di inserire nei Documenti di classe alcune macrotematiche (ambiente, tecnologia, economia e sviluppo, complessità ecc.), interpretando così il riferimento ai “nodi concettuali caratterizzanti le diverse discipline”, sui quali si sarebbe dovuto concentrare il colloquio e in base ai quali la commissione avrebbe dovuto scegliere i materiali (OM, 11/03/2019, art. 2, comma 3). L’Ufficio del Lazio-Campania avallava invece l’idea di un colloquio da costruire “in the making”, a partire da uno “spunto” (un’immagine, un testo, un brano, un problema) sorteggiato dalla fatidica busta. Un colloquio non vincolato a una tematica precisa, dove lo stesso materiale offerto in riflessione avrebbe aperto allo studente, invitato a muoversi con autonomia, strade differenti.
L’aspetto più preoccupante della proposta delle macro tematiche sta innanzitutto nel segnale che essa si propone di lanciare: spingere i docenti a orientarsi verso un costrutto didattico affine, se non coincidente, con la didattica per competenze presentata quale obiettivo in qualche modo irrinunciabile, da cui far dipendere la preparazione degli studenti per l’esame finale.
In Lombardia e Veneto si sono verificati ulteriori problemi. Durante una riunione riservata ai soli presidenti di Commissione, svolta ad inizio esami, è stato ribadito che i documenti da inserire nelle buste dovevano essere “non noti”. Si dava così un’interpretazione radicale dell’indicazione diramata dallo stesso ministro, il quale aveva sottolineato la centralità che avrebbe dovuto continuare ad avere il documento del Consiglio di classe.
Ma cosa significava inserire nelle buste “materiali non noti”? Argomenti semplicemente sconosciuti agli studenti? Del tutto estranei alle programmazioni della classe? Afferenti agli stessi temi e autori trattati, ma non analizzati in classe?
Palesemente, non è la stessa cosa, per uno studente, trovarsi in sede d’esame di fronte un brano di Pirandello scelto tra quelli approfonditi con l’insegnante durante l’anno, o confrontarsi in sede di esame con un brano mai letto, tratto da opere mai analizzate.
Tale presa di posizione ha comprensibilmente gettato nel panico i presidenti di commissione di esame più prudenti. Alcuni hanno deciso di conservare i riferimenti al Documento finale, altri hanno improvvisato situazioni inedite, che non erano neanche state prefigurate nella riunione plenaria di inizio lavori.
Non è difficile interpretare anche tale iniziativa come espressione della volontà di imporre il più possibile il depotenziamento – e finanche l’esclusione – delle discipline dall’esame; e nello stesso tempo far passare il pericolosissimo principio, in stridente contrasto con la tutela costituzionale riconosciuta alla libertà di insegnamento,  che gli organismi gerarchicamente superiori ai docenti possano imporre le loro linee direttive per impostare il lavoro didattico in classe. 
I semplici esempi sopra riportati – sia detto per inciso, ma non senza preoccupazione – hanno creato pericolose divergenze in una procedura (quella dell’esame di Stato) che, in considerazione del valore legale del titolo che l’esame mira a rilasciare, dovrebbe garantire identiche condizioni ai candidati anche attraverso la certezza delle regole.

“Buste, nodi, stimoli”: lo studente al cospetto della buona sorte e dell’estemporaneità
Come detto, in base alla nota ministeriale, il nuovo colloquio d’esame avrebbe dovuto prendere avvio dal sorteggio di uno “spunto” o “stimolo” scelto a caso fra quelli indicati in più buste chiuse: “testi, documenti, esperienze, progetti, problemi”.
Ricevendo indicazioni a dir poco confuse, sotto l’urgenza dell’interdisciplinarietà coatta, molti colleghi si sono sentiti facoltizzati a proporre spunti quanto meno discutibili, suscitando non poche difficoltà negli studenti. Molti materiali, infatti, non si prestavano affatto all’obiettivo (anche se adesso il lessico ministeriale imporrebbe di parlare di mission) di propiziare un sensato collegamento tra le discipline. Eloquente, fra i fatti realmente accaduti nel luglio 2019, la scelta di proporre, come oggetto a partire dal quale  lo studente avrebbe dovuto cominciare l’esposizione orale, l’immagine di una bussola. Una bussola che paradossalmente ha generato un forte disorientamento. Oppure la proposta dell’immagine di una sigaretta fumante, o di un vulcano, una fotografica d’epoca, o quella di una galassia.
In scenari del genere è stato inevitabile che i candidati andassero incontro a livelli di difficoltà assai diversi rispetto al contenuto della busta estratta a sorte. Poteva essere arduo collegare un’immagine evocante un argomento scientifico con le discipline di area umanistica. E viceversa. Pochi studenti sono riusciti a destreggiarsi con disinvoltura nel collegamento tra le discipline. Le ripetizioni e le forzature sono state frequenti; in molti casi si cercava di muovere il colloquio verso argomenti noti, mettendo a rischio la coerenza della discussione col materiale prospettato dal sorteggio; in altri casi la banalizzazione è parsa inevitabile.
D’altra parte, appare quanto meno paradossale la pretesa di usare per la prova di esame materiali totalmente ignoti, su cui gli studenti non hanno avuto occasione di riflettere durante l’anno di studi. Come potrebbero i professori lavorare con gli studenti alla gestione dei percorsi se non alla luce dei programmi svolti, con materiali a disposizione? E che senso avrebbe prescindere totalmente da quei materiali, se non quello di indurre uno stato di disorientamento nel candidato, sfidando la sua capacità di reggere la tensione e la gestione dell’estemporaneità, al di là della preparazione specifica?
Ciò non toglie che si sia registrata anche un’altra tendenza, minoritaria, ma ugualmente rivelatrice. Quando gli alunni si sono sforzati di evitare tematiche precostituite o accostamenti banali e scontati, e di studiare rispettando metodi e contenuti delle discipline, essi hanno condotto colloqui più originali, individuando contenuti magari frutto di approfondimenti svolti in classe, soprattutto se stimolati da materiali più impegnativi. Tuttavia, la struttura stessa del colloquio, una carrellata a volo di uccello condotta in tempi assai ristretti, che inevitabilmente riduce i saperi a nozioni, ha impedito anche in questi casi positivi che l’originalità del percorso individuato in piena autonomia dall’alunno si traducesse in un adeguato approfondimento e articolazione del discorso svolto. Che dunque il più delle volte è rimasto un saggio di superficialità ed approssimazione.

La farsa di Cittadinanza e Costituzione e della nuova Alternanza
La debolezza dell’impianto del colloquio emerge anche con riferimento alle altre due fasi, quella relativa alla Cittadinanza e Costituzione e all’Alternanza Scuola-Lavoro.
In merito a Cittadinanza e Costituzione, la  prima questione, non chiara da dipanare all’interno delle Commissioni, era stabilire a chi spettasse il compito di porre le domande. Di fronte alle incertezze delle indicazioni ministeriali, in molte scuole si è fatto riferimento agli allegati dei manuali d’adozione di Storia (e/o Diritto), impostando le analisi sulla base della disciplina di Educazione Civica (a cui nei fatti tali inserti, intitolati sempre Cittadinanza e Costituzione, corrispondono).
D’altra parte, le stesse indicazioni ministeriali, più che porre l’accento su tali irrinunciabili contenuti di cultura, facevano riferimento alle esperienze organizzate dalla scuola in tema di legalità e diritti. In molti Documenti finali, quindi, compariva spesso un elenco dettagliatissimo delle esperienze svolte, degli strumenti metodologici adottati, restando sempre del tutto generici sui contenuti. Per esempio, gli studenti avrebbero potuto partecipare a un’udienza di un processo penale in tribunale, il che avrebbe implicato (dimostrare di) possedere conoscenze in merito al Consiglio Superiore della Magistratura, alle norme costituzionali relative al diritto penale e al processo. Ma su quali testi o documenti gli studenti potevano avere studiato questi temi? Con quale profondità? Senza questi elementi, spesso assenti nel percorso formativo seguito, risultava impossibile condurre la valutazione. Per cui, il più delle volte, l’esposizione dello studente si è risolta in una descrizione dell’esperienza che gli era piaciuta di più. In altri casi ancora, i presidenti più sensibili alle performance individuali, rimanevano particolarmente colpiti dalle esperienze di Cittadinanza o Alternanza di maggiore successo o dai percorsi di studio svolti all’estero, criteri che, come si può intuire, risultavano fortemente discriminanti rispetto agli alunni che non avevano avuto le stesse opportunità. Anche l’Alternanza Scuola Lavoro (ora ridenominata Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, PCTO) ha evidenziato altri interrogativi: come tener conto della relazione del tutor? E della qualità del percorso? In base a quali parametri? Meglio valutare solo la qualità dell’esposizione? Alla fine non si poteva che prendere atto di quanto esposto, trasformando il colloquio su questi aspetti in qualcosa di molto simile a una cordiale chiacchierata.

La vera posta in gioco: la stretta su didattica e insegnamento curricolare
L’impianto del nuovo esame, oltre a varie dichiarazioni del MIUR che ne hanno accompagnato il cambiamento, spingono a ritenere che la ratio della riforma sia soprattutto quella di modificare per retroazione l’organizzazione e la scelta di metodologie didattiche da parte degli insegnanti. In molte scuole, non a caso, i dirigenti scolastici – più o meno coordinati dai rispettivi dirigenti ministeriali – hanno già manifestato la richiesta lavorare su “nodi concettuali” o “nuclei tematici” delle discipline e in maniera multidisciplinare,  auspicando progettazioni rigorosamente “per competenze”.
Quali possano essere gli effetti sulla qualità e dignità dell’apprendimento degli studenti (e del lavoro dei docenti), dipenderà dal grado di consapevolezza professionale degli insegnanti, dalla loro capacità di resistenza di fronte a eventuali derive e pressioni, dalla loro autonomia intellettuale.
A nostro parere e viste le condizioni materiali nelle quali operano tante realtà scolastiche (tempi di insegnamento e apprendimento ridotti, affollamento delle classi, precarietà strutturale del corpo docente, ossessione valutativa, variegato menu di progetti extracurricolari) il rischio è che il mito dell’interdisciplinarietà possa tradursi in un’autentica regressione nella preparazione degli studenti; soprattutto se i docenti, sotto la pressione e l’urgenza di uniformarsi al cambiamento ministeriale, sceglieranno di focalizzarsi sulla costruzione di percorsi  pluridisciplinari preconfezionati, già a partire dagli anni precedenti alla quinta.
Alla luce di queste considerazioni, si capisce come mai nell’Appello per la Scuola Pubblica, redatto e pubblicato alla fine del 2017, e diffuso con molta convinzione da ROARS, tra le ragionevoli e, tutto sommato, moderate richieste rivolte al legislatore, compariva quella di una moratoria in merito alle modifiche da apportare all’Esame di Stato, a conclusione del ciclo di studi della scuola secondaria di II grado.
Tale richiesta, apparentemente marginale, era in realtà quella politicamente più significativa e urgente. Se il senso di quel documento era infatti chiedere un ripensamento rispetto a una politica di forte impatto sulla didattica e sulla libertà d’insegnamento, la tematica dell’esame di Stato appariva strategica. Apparentemente secondaria, le modalità dell’esame finale avrebbero in realtà condizionato tutta la programmazione didattica delle scuole secondarie di secondo grado. Se perseguire un approccio didattico fondato sul sapere disciplinare poteva difendersi perché quel sapere era parte costitutiva della valutazione dello studente in sede d’esame (sebbene sia riduttivo ridurre la ratio dell’impegno didattico alla preparazione della prova di esame), una modalità di svolgimento della vecchia “maturità” che avesse rigettato proprio quel sapere disciplinare avrebbe in qualche modo favorito un’azione coercitiva nei confronti dei docenti, che, pur di favorire il buon esito della prova finale sostenuta dagli alunni, non avrebbero più potuto opporsi all’adozione di metodologie didattiche innovative; proprio quelle sulla cui efficacia l’Appello si interrogava.
Se questa lettura è corretta, si spiega allora la volontà dell’esecutivo di accelerare proprio sull’esame di Stato, nella consapevolezza che tale determinazione avrebbe reso irreversibile il progresso verso le fantomatiche competenze e le ancor più fantomatiche “unità d’apprendimento”. Che questa lettura non sia affatto capziosa lo testimoniano le dichiarazioni compiaciute di esponenti dell’Associazione Nazionale Presidi, nonché di tutti i vecchi sostenitori della Buona Scuola, già da noi altre volte richiamate. E, d’altra parte, che tale provvedimento ricalcasse la pervicace volontà del PD di qualche anno fa è stato candidamente ammesso dal sottosegretario, onorevole Luigi Gallo.

Quali conclusioni trarre da questa esperienza?
A nostro avviso, la modalità d’esame di cui fin qui si sono ripercorse le ricadute concrete è irriformabile. Non si tratta, in altre parole, di una prima esperienza che può essere perfezionata nel tempo. Urge un radicale cambiamento di rotta. L’idea di percorsi originali e meditati, da costruire estemporaneamente da un punto di partenza occasionale, è pretestuosa e si comprende appieno solo se inserita all’interno di una precisa idea di riforma dell’impianto scolastico (si veda la “mistica delle competenze e dell’interdisciplinarietà”); una prova interdisciplinare sensata e significativa culturalmente potrebbe essere realizzata solo da studenti universitari, in possesso di conoscenze ben superiori a quelle conseguibili attraverso una preparazione di scuola superiore.
Per questo i docenti dovranno resistere alle pressioni ministeriali e gerarchiche, volte a promuovere questa nuova modalità di conduzione dell’esame per imporre – “per il bene degli studenti” – un mutamento delle modalità di programmazione dei docenti, proseguendo nell’attacco in corso da anni contro la libertà d’insegnamento. Persino la preparazione per un esame così poco significativo sul piano culturale avrebbe tutto da perdere se si decidesse di rinunciare alla centralità dei contenuti di cultura, conosciuti attraverso un approfondimento critico (che si può pensare di condurre in modo interdisciplinare, ma non certo con le modalità divisate dai riformatori della scuola) dei vari percorsi curricolari.

Vittorio Perego, Giovanni Carosotti, Marina Boscaino, Lucia De Faveri, Carla Maria Fabiani, Elena Maria Fabrizio, Rossella Latempa, Sandra Lucente, Vittorio Perego, Carlo Salmaso


venerdì 27 settembre 2019

Muore dopo un anno in cella. Aveva aiutato un’immigrata a entrare in Italia




Muore a 82 anni, aveva un tumore ai polmoni che si è aggravato durante la carcerazione al penitenziario di Parma. Un uomo buono, per chi lo conosceva, che fino a pochi anni fa viveva in una roulotte e l’unico aiuto proveniva dalla rete diritti in casa, un collettivo di Parma che lotta per il diritto alla casa per chi non ha nulla e viene abbandonato dalle istituzioni.
Parliamo di Egidio Tiraborrelli, un uomo che all’età di 17 anni era emigrato in Argentina dove ha svolto il lavoro di operaio saldatore. Rientrato in Italia è rimasto solo, con l’unico fratello di qualche anno più giovane, anche lui nullatenente. «Egidio si presentò da noi – spiega a Il Dubbio Katia Torri, l’attivista della rete diritti in casa –, perché praticamente era senza tetto e ci aveva chiesto se potesse mettere la sua roulotte nel cortile della casa occupata».
Torri racconta che gli stessi abitanti dell’occupazione hanno espresso il desiderio di ospitarlo dentro l’edificio nonostante non ci fosse un effettivo spazio adeguato per lui, «ma Egidio – spiega l’attivista – aveva insistito che non voleva recar troppo fastidio e gli bastava uno spazio per la sua roulotte”. Egidio si era integrato perfettamente con gli altri, tanto da coltivare un piccolo orto e condividere gli ortaggi con gli abitanti che li considerava quasi come figli».
Ma Egidio, “Gidio” per gli amici, non sapeva che ha subito un processo e nemmeno della condanna scaturita nel 2012 per un reato considerato gravissimo per la nostra legislazione, quello di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Eppure, la sua vita piena di sacrifici e stenti aveva avuto anche un piccolo risvolto positivo grazie all’aiuto degli attivisti del collettivo: era riuscito ad ottenere una casa popolare.
La tranquillità tanto agognata è durata poco. A causa della condanna avvenuta a sua insaputa, a dicembre del 2018 è stato tratto in arresto e ha varcato i cancelli del carcere di Parma. Ma cosa ha commesso di così grave per meritarsi una condanna che rientra tra i reati ostativi, il famigerato 4 bis dell’ordinamento penitenziario nato per contrastare l’emergenza mafiosa e poi allargato nei confronti di altri reati, fino alla corruzione grazie allo spazzacorrotti? Aveva aiutato, tramite un passaggio in macchina, una persona dell’est nel varcare i confini.
Non era un trafficante, non ci ha guadagnato nulla, ma ha peccato nell’aver aiutato una persona ad entrare in Italia. Egidio era quindi colpevole di aver fatto varcare i nostri sacri confini, lui che da migrante ha varcato vari confini del mondo.
Egidio, come detto, aveva un tumore e in carcere si aggiunge un’altra tragedia, quella della precaria assistenza sanitaria. «Ci aveva contattata una volontaria del carcere, – racconta Katia Torri del collettivo rete diritti in casa -, dicendoci che c’era solo un impianto della bombola di ossigeno per tutti i detenuti malati e quindi se la scambiavano a turno». Anziano, malato e di fatto incompatibile con l’ambiente carcerario. Ma non aveva un avvocato, quindi gli attivisti con grande difficoltà si sono adoperati per fargli nominare una avvocata di loro fiducia. Dopo aver ottenuto la nomina si è adoperata per ottenere la sospensione della pena. Alla fine, ottiene i domiciliari tramite il ricovero ospedaliero. Un ricovero breve, perché dopo una settimana – esattamente venerdì scorso – Egidio Tiraborrelli muore.
Come detto, era povero Egidio. E nella solitudine e povertà, anche quando muori i problemi non finiscono visto che fare un funerale ha un suo costo. Ha un figlio in Argentina che a breve raggiungerà l’Italia, mentre nel frattempo il fratello di Egidio è in giro per assistenti sociali per potergli garantire almeno una degna sepoltura.

giovedì 26 settembre 2019

Manifesto degli intellettuali a sostegno della manifestazione contro le servitù militari


Capo Frasca 12 ottobre 2019, ecco il manifesto degli intellettuali a sostegno della manifestazione contro le servitù militari

Questo è il documento che numerosi uomini di cultura e di spettacolo hanno sottoscritto in vista della manifestazione contro le servitù militari, in programma il prossimo 12 ottobre a Capo Frasca. È interessante aprire il dibattito su una questione che viene periodicamente espulsa dal dibattito ma che invece resta sempre centrale. E forse il punto è proprio questo: perché parlare di servitù militari in questi ultimi anni è diventato sempre più difficile? (vb)
***
OPPORSI ALL’ASSERVIMENTO MILITARE DELLA SARDEGNA È UNA BATTAGLIA DEMOCRATICA E CIVILE CHE RIGUARDA TUTTE/I, NON SOLO IN SARDEGNA
(Il mondo della cultura, della letteratura, dell’arte e dello spettacolo a sostegno della battaglia civile sulle servitù e le attività militari in Sardegna) 
In Sardegna è ubicata la maggior parte del territorio italiano sottoposto ad attività militari. Sono decine di migliaia di ettari, in terra e in mare, su cui, tutti gli anni, da più di settant’anni, vengono svolte esercitazioni e sperimentazioni di vario tipo. Decine di migliaia di ettari sottratti all’uso civile, alle attività economiche e alle comunità locali per molti mesi all’anno e in certi casi permanentemente. 
Nessuno ha mai chiesto il permesso o il consensodi chi in Sardegna vive, lavora, produce, ha i propri interessi e i propri affetti. Mai, né in passato, né oggi.
La Sardegna è stata trattata come una pedina di scambio, un mero oggetto storico, nel grande gioco delle relazioni di potere della geo-politica, senza alcun riguardo per la sua popolazione, la sua storia, la sua bellezza.
Le servitù militari in Sardegna servono a tenere in esercizio le forze armate italiane e dei paesi alleati (NATO in primis), e non solo. Ma soprattutto sono una condizione necessaria al giro di affari che l’industria degli armamenti muove da sempre. 
Per altro le aree sarde adibite a sperimentazioni belliche sono affittate dal Ministero della Difesa italiano anche ad aziende private, non necessariamente legate all’apparato militare e non necessariamente italiane. 
Un giro di soldi impressionante, che ha in Sardegna solo la sede operativa, ma per tutto il resto fa capo al Ministero e al Governo. Nell’isola arrivano, quando arrivano, le briciole, sotto forma di “compensazioni”, “indennizzi”, usati per lo più come strumento di persuasione e di controllo sociale
Le popolazioni locali sono state persuase che le attività militari sono la loro unica possibile fonte di reddito in quello che altrimenti sarebbe un deserto.
Questo non è vero. Esistono le alternative. La nostra terra stessa ci offre mille opportunità diverse dalle esplosioni, dalle esercitazioni, dai test di materiali pericolosi, dalle polveri velenose e dalle conseguenze che esse hanno sulla natura e sulla salute umana.
problemi ambientali e sanitaricausati dalle attività militari in Sardegna sono emersi solo in parte e solo negli ultimi anni, grazie all’opera tenace di associazioni e comitati, spesso isolati e ignorati, e infine anche tramite le inchieste della magistratura.
Quel che sta emergendo basta a considerarlo un disastro di proporzioni storiche. Di cui in tanti hanno pagato e stanno pagando le conseguenze. 
Ma sono reali e tangibili anche le conseguenze negative sul tessuto sociale locale, vincolato alla monocoltura della guerra. Un tessuto sociale reso fragile e precario, esposto a interessi e volontà su cui le comunità interessate non hanno alcun controllo.
E sono reali e tangibili le conseguenze sul tessuto culturale dell’intera isola, dato l’impatto molto forte del militarismo, già a partire dalla scuola, sull’immaginario, le aspettative e la visione del mondo dei sardi.
Le servitù militari hanno dunque un loro peso concreto, di indole sociale e ambientale, ma ne hanno anche uno politico, morale e simbolico.
La Sardegna, che non è in guerra con nessuno, deve ospitare la guerra sul suo suolo, nei suoi cieli e nei suoi mari per intere stagioni ogni anno. Partecipa dunque, sia pure passivamente, alla grande industria della morte, spesso come tappa decisiva di operazioni belliche che poi si dispiegano, con tutta la loro portata devastatrice, su altre terre e su altri popoli. 
Senza dimenticare che in Sardegna si assemblano ordigni che poi vengono venduti a stati belligeranti, in contrasto esplicito con la stessa legislazione italiana.
I governi, la NATO, le grandi aziende che guadagnano dall’industria bellica hanno senz’altro il loro interesse a usare la Sardegna in questo modo. Possiamo arrivare a comprendere –in un’ottica geopolitica – le esigenze di alleanze internazionali e di convenienza che spingono lo Stato italiano a mettere a disposizione la Sardegna per tali attività, a cui l’Italia stessa prende parte. 
Possiamo comprendere questa logica, ma non dobbiamo per forza accettarla. La prospettiva geopolitica non può comprimere e annullare i diritti civili e umani, né prevalere sulla democrazia, sulla salute dei cittadini e sull’equilibrio ecologico.
Ribadiamolo: nessuno ha mai chiesto il permesso e nemmeno il parere dei sardi in proposito.
Dopo settant’anni e passa di asservimento militaredella Sardegna, è lecito pretendere che esso sia messo radicalmente, pubblicamente e democraticamente in discussione.
Sia per ciò che rappresenta, sia perché il mondo ci manda ormai chiari segnali della necessità storica di mutare drasticamente i nostri paradigmi produttivi, di consumo, sociali e dunque anche giuridici e politici.
Il modello economico dominante, votato al profitto privato, alla competizione sfrenata, all’individualismo e alla legge del più forte, incurante di qualsiasi conseguenza sulle persone, su interi popoli, sul pianeta medesimo, ha negli apparati militari delle grandi e medie potenze un suo elemento costitutivo.
Si può e si deve discutere dell’asservimento militare della Sardegna anche dentro questa cornice più ampia, non più eludibile.
Appellarsi alla politica istituzionale non basta. Serve un’assunzione di responsabilità collettiva, a partire da chi ha più strumenti per comprendere quel che accade.
È del tutto inutile, come sappiamo per esperienza, affidarsi all’azione di controllo e di interlocuzione della politica sarda. Tale azione non è mai stata realmente esercitata. Non sistematicamente, né con l’attenzione e la severità necessarie. 
La politica italiana, dal canto suo, ha ben poco interesse per la Sardegna, che costituisce una porzione lontana e marginale del territorio statalee rappresenta meno del 3% della popolazione.
Dobbiamo essere coscienti di questa realtà, per spiacevole che appaia ai nostri occhi.
Come sardi, in qualità di cittadini di uno stato formalmente democratico e di un’Unione Europea formata da stati anch’essi nominalmente democratici, non possiamo né dobbiamo continuare ad accettare questa situazione passivamente.
Dobbiamo fare in modo che essa sia conosciuta e riconosciuta come un problema di democrazia, di giustizia e di salvaguardia ambientale dalle opinioni pubbliche di tutto il continente e anche oltre lo spazio europeo.
Dobbiamo pretendere di sapere quel che si fa sul territorio sardo, di avere voce in capitolo in questa come in altre questioni fondamentali e di vedere riparati i danni ambientali e materiali causati dalle attività militari (laddove ancora possibile). 
Non è una pretesa esosa. È una pretesa democratica. Da rivendicare davanti allo Stato italiano e alla comunità internazionale, in tutte le sedi. 
È il minimo che possiamo fare per cercare di recuperare voce in capitolo sulla nostra sorte collettiva, oltre che una dose accettabile di dignità.
Non si tratta di sostenere posizioni ideologiche o di alimentare retoriche politiche di parte. Non è nemmeno una questione di rivendicazioni localiste. 
Si tratta semplicemente diuna situazione intollerabile, ingiusta, anti-democratica e pericolosa, che deve finire al più presto.
La Sardegna ha bisogno di una democrazia compiuta e pienamente dispiegata. Ha diritto a decidere con piena competenza sulle partite strategiche che la riguardano. Ha diritto alla pace. Ha diritto a un’economia sana, non assistita, non asservita ad interessi costituiti esterni.
Chi abita e vive la Sardegna ha diritto di poter usufruire collettivamente delle proprie risorse e del proprio territorio, liberamente e in relazione proficua e solidale con i popoli e i territori vicini. Ha diritto alla salute, ossia, prima ancora che alle cure, a vivere in modo sano.
Tutto ciò è incompatibile col perdurante asservimento militare di ampie porzioni di territorio sardo.
La mobilitazione permanente di tante associazioni, gruppi di studio, comitati e organizzazioni politiche interessate al tema ha consentito negli anni la maturazione di una sensibilità diffusa in merito a questo problema. Oggi è più alta che in passato. 
Oggi sono meno efficaci le argomentazioni con cui i vertici militari italiani e la politica, sia italiana sia sarda, giustificano questo stato di cose insopportabile. Oggi è il momento di dare loro un segnale forte.
Un segnale libero, dignitoso, pacificamente intransigente, democratico, collettivo.
Riappropriamoci del nostro status di cittadinie rigettiamo quello di sudditi.
Ribadiamo la nostra ferma opposizione all’uso bellico del territorio sardo e alle sue nefaste conseguenze. A partire dalla manifestazionein programma il 12 ottobre 2019, presso il Poligono di Capo Frasca.
Così come abbiamo già fatto con la grande mobilitazione del 13 settembre 2014, a cui presero parte migliaia e migliaia di sardi, militanti, organizzazioni, singoli, famiglie, anziani, bambini.
Poniamoci come obiettivo una Sardegna che sia terra di pace, di accoglienza, di democrazia, di bellezza e di benessere diffuso.
Facciamolo insieme. Per l’oggi e per il domani.
PRIME/I FIRMATARIE/I
Omar Onnis
Frantziscu Medda “Arrogalla”
Michela Murgia
Giacomo Casti
Giulio Landis
Andrea Pau Melis
Stefano Puddu Crespellani
Angelo Monne
Ivo Murgia
Chiara Manca
Andrea Andrillo
Teresa Porcella
Francesco Leone
Josephine Sassu
Claudia Crabuzza
Francesco Piu
Alec Cani
Stefano Masili
Piero Marcialis
Anna Marceddu
Rossella Faa
Stefania Lai
Rossella Fadda
Giovanni Manunta Pastorello
Gianni Atzeni
Nicolò Migheli
Paolo Zucca
Claudia Aru
Tzoku
Nanni Falconi
Cristina Ariu
Giuseppe Mulas
Caterinangela Fadda
Marcello Fois
Cristina Sanna Passino
Francesca Biccone
Alberto Soi
Monica Corimbi
Alessandro Cauli
Sofia Inconis
Giacomo Pitzalis
Daniele Pani
Emiliano Longobardi
Francesca Mulas Fiori
Dr Boost
Giuseppe Serra
Francesco Trento
Mimmo Di Caterino
Giancarlo Biffi
Stranos elementos
Wu Ming
Chiara Effe
Silvano Tagliagambe