venerdì 6 settembre 2019

Il marcio del marketing etico - Francesco Gesualdi



A leggere i giornali eravamo di fronte a una rivoluzione. A leggere i documenti di prima mano si capiva che eravamo di fronte all’ennesima dichiarazione tutto fumo e niente arrosto. Il riferimento è alla notizia apparsa il 20 agosto scorso veicolata addirittura da Jamie Dimon, comandante in capo di JP Morgan, una delle più grandi banche d’affari del mondo. In tono trionfalistico annunciava che lui e altri 180 capitani d’impresa avevano firmato una nuova carta etica  in cui affermavano che il “proposito di un’azienda” non è più soltanto o soprattutto il profitto, ma la tutela dei consumatori, dei lavoratori, dei fornitori, delle comunità locali. E a benedire il tutto la Business Roundtable, una delle più potenti organizzazioni imprenditoriali statunitensi.
Ma andandosi a leggere il documento in originale, di una tale conversione non si trova traccia. Il profitto non è neanche rammentato, dando per scontato che quello è lo scopo delle imprese e quello rimarrà. Al contrario è ben confermata la dichiarazione di fede nel mercato e nelle sue capacità taumaturgiche di fare sempre e comunque il bene della comunità, ignorando le ingiustizie e i disastri ambientali in cui ci ha fatto sprofondare. Più semplicemente, i 181 capitani d’impresa ripetevano l’impegno a condurre i loro affari tenendo conto anche degli interessi dei consumatori, dei lavoratori, dei fornitori, delle comunità. Tanto rumore per nulla, verrebbe fatto di dire: i siti aziendali sono pieni di carte dei valori, codici etici, decaloghi di condotta, in una parola sono pieni di parole altisonanti per dimostrare la propria sensibilità verso le persone e l’ambiente. Ma col vento che tira è meglio stare sul chi va là e adottare il principio che più alti gli impegni dichiarati, più alta la probabilità di trovarci di fronte ad imprese piene di scheletri negli armadi con una verginità da rifarsi.
Se analizziamo le 181 imprese firmatarie, scopriamo che dal 2000 al 2018 tutte insieme hanno collezionato  multe per 197 miliardi di dollari, dovute ai reati più vari:  violazioni alla sicurezza dei lavoratori, abusi nei confronti dei consumatori, violazione delle norme ambientali, mancato rispetto delle norme sulla concorrenza, trasgressione fiscale. Il conteggio l’ha fatto l’organizzazione americana “Good jobs first” che ha allestito una vera e propria banca dati sulle sanzioni inflitte alle imprese statunitensi. Dallo studio si apprende che ventuno delle imprese firmatarie hanno collezionato sanzioni superiori a un miliardo di dollari. Tre superano addirittura i 25 miliardi di dollari. In cima alla lista c’è Bank of America con multe per 58 miliardi relative a 128 casi dovuti in larga parte a truffe legate alla concessione di mutui e all’emissione di titoli tossici. Tanto per intenderci quell’insieme di fregature che hanno provocato la crisi finanziaria mondiale che a catena ha generato la crisi economica e fatto crescere a dismisura il debito dei governi con conseguente disoccupazione e peggioramento delle condizioni di vita di interi paesi.

Anche al secondo,  per sanzioni collezionate, troviamo un’altra banca. E’ la JP Morgan Chase che più modestamente ha raggiunto i 30 miliardi di dollari per gli stessi tipi di reati della Bank of America. Ma è proprio Jamie Dimon, l’amministratore delegato di JP Morgan, a fare dichiarazione di professione etica. Gli conviene: nel 2017 ha guadagnato 29,5 milioni di dollari mentre il suo patrimonio ammonterebbe, stima Forbes relativa al 2018, a 1 miliardo e mezzo di dollari.
Il terzo firmatario per multe collezionate (27 miliardi di dollari) è la petrolifera BP. Le sue criticità sono principalmente ambientali come ci ricorda l’incidente della piattaforma petrolifera  Deepwater Horizon che nel 2010 provocò  la sversamento di milioni di barili di petrolio nel Golfo del Messico.
La lista dei firmatari che si portano in dote multe miliardarie per violazioni, continua con altre grandi banche (Citigroup, Goldman Sachs),  multiutilities  (American Electric Power, Duke Energy), imprese petrolifere (Marathon Petroleum, Exxon Mobil) e naturalmente farmaceutiche. Non solo Pfizer e Abbott Laboratories, ma anche Johnoson & Johnson che a firma ancora fresca sotto la nuova carta etica, è stata raggiunta da una sentenza del tribunale del distretto di Cleveland County, che la condanna  a pagare una multa pari a 572 milioni di dollari per avere promosso l’uso di farmaci oppiacei, provocando la  morte per overdose di 47mila persone nel solo 2017. In definitiva il più grande disastro sanitario negli USA. Come ha messo in evidenza il procuratore generale Mike Hunter, il punto centrale è la disonestà alla base del particolare sistema di marketing. Con un’attitudine aggressiva senza eguali, Johnson & Johnson ha puntato al convincimento dei pazienti senza mettere in chiaro le possibili ripercussioni dell’assunzione, quali la dipendenza. Ma la Johnson & Johnson può fregiarsi di eticità perché il suo amministratore delegato Alex Gorsky si è impegnato a “distribuire valore ai propri clienti” e “a continuare la tradizione delle imprese americane, prime nell’incontrare le aspettative dei propri clienti”. Così recita uno dei passaggi della nuova carta etica messa a punto dalla Business Roundtable. Che però non risulta molto comprensibile: se qualcuno volesse aiutarci a capire cosa tutto questa significa, ne saremmo grati. Ma non lo troveremo. Almeno non nel mondo delle imprese che hanno un solo obiettivo: sommergerci con una montagna di parole altisonanti per coprire la loro vera indole di mercanti che pur di fare soldi non si fanno scrupolo a depredare, truffare, inquinare, perfino uccidere.

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