A leggere i giornali eravamo di fronte a una rivoluzione. A leggere i
documenti di prima mano si capiva che eravamo di fronte all’ennesima dichiarazione tutto fumo e niente arrosto.
Il riferimento è alla notizia apparsa il 20 agosto scorso veicolata addirittura
da Jamie Dimon, comandante in capo di JP Morgan, una delle più grandi banche
d’affari del mondo. In tono trionfalistico annunciava che lui e altri 180 capitani d’impresa avevano firmato
una nuova carta etica in cui affermavano che il “proposito di un’azienda”
non è più soltanto o soprattutto il profitto, ma la tutela dei
consumatori, dei lavoratori, dei fornitori, delle comunità locali. E a benedire
il tutto la Business Roundtable, una delle più potenti organizzazioni
imprenditoriali statunitensi.
Ma andandosi a leggere il documento in originale, di una tale conversione
non si trova traccia. Il profitto
non è neanche rammentato, dando per scontato che quello è lo scopo delle
imprese e quello rimarrà. Al contrario è ben confermata la
dichiarazione di fede nel mercato e nelle sue capacità taumaturgiche di fare
sempre e comunque il bene della comunità, ignorando le ingiustizie e i disastri
ambientali in cui ci ha fatto sprofondare. Più semplicemente, i 181 capitani
d’impresa ripetevano l’impegno a
condurre i loro affari tenendo conto anche degli interessi dei consumatori, dei
lavoratori, dei fornitori, delle comunità. Tanto rumore per nulla,
verrebbe fatto di dire: i siti
aziendali sono pieni di carte dei valori, codici etici, decaloghi di condotta,
in una parola sono pieni di parole altisonanti per dimostrare la propria
sensibilità verso le persone e l’ambiente. Ma col vento che tira è
meglio stare sul chi va là e adottare il principio che più alti gli impegni
dichiarati, più alta la probabilità di trovarci di fronte ad imprese piene di
scheletri negli armadi con una verginità da rifarsi.
Se analizziamo le 181 imprese firmatarie, scopriamo che dal 2000 al 2018
tutte insieme hanno collezionato multe per 197 miliardi di dollari, dovute ai reati più vari:
violazioni alla sicurezza dei lavoratori, abusi nei confronti dei consumatori,
violazione delle norme ambientali, mancato rispetto delle norme sulla
concorrenza, trasgressione fiscale. Il conteggio l’ha fatto
l’organizzazione americana “Good jobs first” che ha allestito una vera e
propria banca dati sulle sanzioni inflitte alle imprese statunitensi. Dallo
studio si apprende che ventuno
delle imprese firmatarie hanno collezionato sanzioni superiori a un miliardo di
dollari. Tre superano addirittura i 25 miliardi di dollari. In cima
alla lista c’è Bank of America con
multe per 58 miliardi relative a 128 casi dovuti in larga parte a truffe legate
alla concessione di mutui e all’emissione di titoli tossici. Tanto
per intenderci quell’insieme di fregature che hanno provocato la crisi
finanziaria mondiale che a catena ha generato la crisi economica e fatto
crescere a dismisura il debito dei governi con conseguente disoccupazione e
peggioramento delle condizioni di vita di interi paesi.
Anche al secondo, per sanzioni collezionate, troviamo un’altra banca.
E’ la JP Morgan Chase che più
modestamente ha raggiunto i 30 miliardi di dollari per gli stessi tipi
di reati della Bank of America. Ma è proprio Jamie Dimon, l’amministratore
delegato di JP Morgan, a fare dichiarazione di professione etica. Gli conviene:
nel 2017 ha guadagnato 29,5 milioni di dollari mentre il suo patrimonio
ammonterebbe, stima Forbes relativa al 2018, a 1 miliardo e mezzo di dollari.
Il terzo firmatario per multe
collezionate (27 miliardi di dollari) è la petrolifera BP. Le sue
criticità sono principalmente ambientali come ci ricorda l’incidente della
piattaforma petrolifera Deepwater Horizon che nel 2010 provocò la
sversamento di milioni di barili di petrolio nel Golfo del Messico.
La lista dei firmatari che si portano in dote
multe miliardarie per violazioni, continua con altre grandi banche (Citigroup,
Goldman Sachs), multiutilities (American Electric Power, Duke
Energy), imprese petrolifere (Marathon Petroleum, Exxon Mobil) e naturalmente
farmaceutiche. Non solo Pfizer e Abbott Laboratories, ma anche Johnoson &
Johnson che a firma ancora fresca sotto la nuova carta etica, è stata raggiunta
da una sentenza del tribunale del distretto di Cleveland County, che la
condanna a pagare una multa pari a 572 milioni di dollari per avere
promosso l’uso di farmaci oppiacei, provocando la morte per overdose di
47mila persone nel solo 2017. In definitiva il più grande disastro sanitario
negli USA. Come ha messo in evidenza il procuratore generale Mike Hunter, il punto centrale è la
disonestà alla base del particolare sistema di marketing. Con un’attitudine aggressiva senza eguali, Johnson &
Johnson ha puntato al convincimento dei pazienti senza mettere in chiaro le
possibili ripercussioni dell’assunzione, quali la dipendenza. Ma la
Johnson & Johnson può fregiarsi di eticità perché il suo amministratore
delegato Alex Gorsky si è impegnato a “distribuire valore ai propri clienti” e
“a continuare la tradizione delle imprese americane, prime nell’incontrare le
aspettative dei propri clienti”. Così recita uno dei passaggi della nuova carta
etica messa a punto dalla Business Roundtable. Che però non risulta molto
comprensibile: se qualcuno volesse aiutarci a capire cosa tutto questa
significa, ne saremmo grati. Ma non lo troveremo. Almeno non nel mondo delle
imprese che hanno un solo obiettivo: sommergerci
con una montagna di parole altisonanti per coprire la loro vera indole di
mercanti che pur di fare soldi non si fanno scrupolo a depredare, truffare,
inquinare, perfino uccidere.
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