Pubblichiamo
l’analisi svolta da un gruppo di docenti, operanti in diverse regioni italiane,
sul nuovo esame di Stato, che il neo ministro Fioramonti ha dichiarato di voler
lasciare invariato “per almeno 5
anni”. Un esame il cui impianto rivela, in esito a
un’esperienza vissuta “sul campo” e in presa diretta, numerose criticità, fra
cui mancanza di chiarezza e di univocità di interpretazioni e di condotte,
improvvisazione, scarsa significatività culturale. L’aspetto più negativo della
nuova modalità di esame risiede nel fatto di condizionare, per retroazione, la
didattica curricolare nelle classi già a partire dai prossimi mesi. Le
esperienze vissute da ciascuno degli autori nelle commissioni in diverse
regioni, che in questo resoconto sono vividamente restituite al lettore,
dovrebbero indurre a ripensare la modifica dell’Esame voluta dalla Buona
Scuola, per aprire un dibattito serio e ragionato su questo momento finale
dell’istruzione scolastica, che sappia adeguatamente coinvolgere i docenti. Una
lettura imperdibile e rivelatrice, specie per chi non è parte attiva del mondo
della scuola, e vive nel ricordo delle “sua” maturità, ignorando cosa è
successo in anni più recenti. Lo si è fatto per forgiare le menti dei futuri
studenti universitari e dei futuri cittadini di un’Italia che sembra davvero
votata a farsi del male.
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Archiviato
il primo Esame di Stato riformato dal ministro Bussetti nel solco della delega
imposta dalla Buona Scuola del duo Giannini-Fedeli, è giunto il momento di
valutarne gli esiti. Preoccupazioni e riserve sul nuovo impianto dell’esame non
erano del resto mancate (si vedano questa lettera aperta, questo appello ai docenti nel dicembre
2017, un primo e un secondo articolo critico). A
consuntivo e a pochi mesi dalla conclusione dell’esperienza come commissari o
presidenti di commissione in diverse regioni italiane, cogliamo l’occasione
fare una riflessione comune su quanto accaduto, oltre che il punto su elementi
di particolare debolezza della nuova formula d’esame e sulle prospettive che
essa dischiude dal punto di vista didattico e formativo.
Lo svolgimento dell’esame e la sua balcanizzazione
interpretativa
La gestione
dell’esame si è rivelata affrettata, venendo accompagnata da direttive confuse
sia da parte delle autorità ministeriali, sia dei diversi Uffici Scolastici
Regionali (USR), i quali, attraverso i loro ispettori, hanno fornito
interpretazioni “soggettivamente autentiche” e spesso in conflitto fra loro.
Come già sembrava emergere dalla lettura dell’Ordinanza Ministeriale che regola
lo svolgimento dell’esame, pubblicata a marzo 2019, la fase più critica si è
rivelata essere quella del colloquio, il cui svolgimento è stato disciplinato
dal Ministero tardivamente, con una nota diramata solo a maggio
2019. Una tempistica, questa, che ha di fatto estromesso gli insegnanti da
qualsiasi possibilità di approfondimento o decisione professionale e
collegiale. Si è trattato di adeguarsi ed eseguire alla svelta.
In quella
nota, ad esempio, non era affatto chiaro come le Commissioni avrebbero dovuto
rapportarsi ai contenuti del Documento finale di ciascun consiglio di classe,
documentante i percorsi formativi degli studenti, ove si illustra il lavoro
effettivamente svolto con le classi. Si è così prodotto un florilegio di
indicazioni in contrasto fra loro. L’Ufficio Scolastico della Puglia suggeriva
di inserire nei Documenti di classe alcune macrotematiche
(ambiente, tecnologia, economia e sviluppo, complessità ecc.), interpretando
così il riferimento ai “nodi concettuali caratterizzanti le diverse
discipline”, sui quali si sarebbe dovuto concentrare il colloquio e in base ai
quali la commissione avrebbe dovuto scegliere i materiali (OM, 11/03/2019, art.
2, comma 3). L’Ufficio del Lazio-Campania avallava invece l’idea di un
colloquio da costruire “in the making”, a partire da uno “spunto”
(un’immagine, un testo, un brano, un problema) sorteggiato dalla fatidica busta. Un colloquio non
vincolato a una tematica precisa, dove lo stesso materiale offerto in
riflessione avrebbe aperto allo studente, invitato a muoversi con autonomia,
strade differenti.
L’aspetto
più preoccupante della proposta delle macro tematiche sta innanzitutto nel
segnale che essa si propone di lanciare: spingere i docenti a orientarsi verso
un costrutto didattico affine, se non coincidente, con la didattica per competenze presentata
quale obiettivo in qualche modo irrinunciabile, da cui far dipendere la
preparazione degli studenti per l’esame finale.
In Lombardia
e Veneto si sono verificati ulteriori problemi. Durante una riunione riservata
ai soli presidenti di Commissione, svolta ad inizio esami, è stato ribadito che
i documenti da inserire nelle buste dovevano essere “non noti”. Si dava così
un’interpretazione radicale dell’indicazione diramata dallo stesso ministro, il
quale aveva sottolineato la centralità
che avrebbe dovuto continuare ad avere il documento del Consiglio di classe.
Ma cosa
significava inserire nelle buste “materiali non noti”? Argomenti semplicemente
sconosciuti agli studenti? Del tutto estranei alle programmazioni della classe?
Afferenti agli stessi temi e autori trattati, ma non analizzati in classe?
Palesemente,
non è la stessa cosa, per uno studente, trovarsi in sede d’esame di fronte un
brano di Pirandello scelto tra quelli approfonditi con l’insegnante durante
l’anno, o confrontarsi in sede di esame con un brano mai letto, tratto da opere
mai analizzate.
Tale presa
di posizione ha comprensibilmente gettato nel panico i presidenti di commissione
di esame più prudenti. Alcuni hanno deciso di conservare i riferimenti al Documento
finale, altri hanno improvvisato situazioni inedite, che non erano neanche
state prefigurate nella riunione plenaria di inizio lavori.
Non è
difficile interpretare anche tale iniziativa come espressione della volontà di
imporre il più possibile il depotenziamento – e finanche l’esclusione – delle
discipline dall’esame; e nello stesso tempo far passare il pericolosissimo
principio, in stridente contrasto con la tutela costituzionale riconosciuta
alla libertà di insegnamento, che gli organismi gerarchicamente superiori
ai docenti possano imporre le loro linee direttive per impostare il lavoro
didattico in classe.
I semplici
esempi sopra riportati – sia detto per inciso, ma non senza preoccupazione –
hanno creato pericolose divergenze in una procedura (quella dell’esame di
Stato) che, in considerazione del valore legale del titolo che l’esame mira a
rilasciare, dovrebbe garantire identiche condizioni ai candidati anche attraverso
la certezza delle regole.
“Buste, nodi, stimoli”: lo studente al cospetto della
buona sorte e dell’estemporaneità
Come detto,
in base alla nota ministeriale, il nuovo colloquio d’esame avrebbe dovuto
prendere avvio dal sorteggio di uno “spunto” o “stimolo” scelto a caso fra
quelli indicati in più buste chiuse: “testi, documenti, esperienze,
progetti, problemi”.
Ricevendo
indicazioni a dir poco confuse, sotto l’urgenza dell’interdisciplinarietà
coatta, molti colleghi si sono sentiti facoltizzati a proporre spunti quanto
meno discutibili, suscitando non poche difficoltà negli studenti. Molti
materiali, infatti, non si prestavano affatto all’obiettivo (anche se adesso il
lessico ministeriale imporrebbe di parlare di mission) di
propiziare un sensato collegamento tra le discipline. Eloquente, fra i fatti
realmente accaduti nel luglio 2019, la scelta di proporre, come oggetto a
partire dal quale lo studente avrebbe dovuto cominciare l’esposizione
orale, l’immagine di una bussola. Una bussola che paradossalmente ha generato
un forte disorientamento. Oppure la proposta dell’immagine di una sigaretta
fumante, o di un vulcano, una fotografica d’epoca, o quella di una galassia.
In scenari
del genere è stato inevitabile che i candidati andassero incontro a livelli di
difficoltà assai diversi rispetto al contenuto della busta estratta a sorte.
Poteva essere arduo collegare un’immagine evocante un argomento scientifico con
le discipline di area umanistica. E viceversa. Pochi studenti sono riusciti a
destreggiarsi con disinvoltura nel collegamento tra le discipline. Le
ripetizioni e le forzature sono state frequenti; in molti casi si cercava di
muovere il colloquio verso argomenti noti, mettendo a rischio la coerenza della
discussione col materiale prospettato dal sorteggio; in altri casi la
banalizzazione è parsa inevitabile.
D’altra
parte, appare quanto meno paradossale la pretesa di usare per la prova di esame
materiali totalmente ignoti, su cui gli studenti non hanno avuto occasione di
riflettere durante l’anno di studi. Come potrebbero i professori lavorare con
gli studenti alla gestione dei percorsi se non alla luce dei programmi svolti,
con materiali a disposizione? E che senso avrebbe prescindere totalmente da
quei materiali, se non quello di indurre uno stato di disorientamento nel
candidato, sfidando la sua capacità di reggere la tensione e la gestione
dell’estemporaneità, al di là della preparazione specifica?
Ciò non
toglie che si sia registrata anche un’altra tendenza, minoritaria, ma
ugualmente rivelatrice. Quando gli alunni si sono sforzati di evitare tematiche
precostituite o accostamenti banali e scontati, e di studiare rispettando
metodi e contenuti delle discipline, essi hanno condotto colloqui più
originali, individuando contenuti magari frutto di approfondimenti svolti in
classe, soprattutto se stimolati da materiali più impegnativi. Tuttavia, la
struttura stessa del colloquio, una carrellata a volo di uccello condotta in
tempi assai ristretti, che inevitabilmente riduce i saperi a nozioni, ha impedito
anche in questi casi positivi che l’originalità del percorso individuato in
piena autonomia dall’alunno si traducesse in un adeguato approfondimento e
articolazione del discorso svolto. Che dunque il più delle volte è rimasto un
saggio di superficialità ed approssimazione.
La farsa di Cittadinanza e Costituzione e della nuova
Alternanza
La debolezza
dell’impianto del colloquio emerge anche con riferimento alle altre due fasi,
quella relativa alla Cittadinanza e Costituzione e all’Alternanza
Scuola-Lavoro.
In merito
a Cittadinanza e Costituzione, la prima questione, non chiara
da dipanare all’interno delle Commissioni, era stabilire a chi spettasse il
compito di porre le domande. Di fronte alle incertezze delle indicazioni
ministeriali, in molte scuole si è fatto riferimento agli allegati dei manuali
d’adozione di Storia (e/o Diritto), impostando le analisi sulla base della
disciplina di Educazione Civica (a cui nei fatti tali inserti, intitolati
sempre Cittadinanza e Costituzione, corrispondono).
D’altra parte,
le stesse indicazioni ministeriali, più che porre l’accento su tali
irrinunciabili contenuti di cultura, facevano riferimento alle esperienze
organizzate dalla scuola in tema di legalità e diritti. In molti Documenti
finali, quindi, compariva spesso un elenco dettagliatissimo delle
esperienze svolte, degli strumenti metodologici adottati, restando sempre del
tutto generici sui contenuti. Per esempio, gli studenti avrebbero potuto
partecipare a un’udienza di un processo penale in tribunale, il che avrebbe
implicato (dimostrare di) possedere conoscenze in merito al Consiglio Superiore
della Magistratura, alle norme costituzionali relative al diritto penale e al
processo. Ma su quali testi o documenti gli studenti potevano avere studiato
questi temi? Con quale profondità? Senza questi elementi, spesso assenti nel
percorso formativo seguito, risultava impossibile condurre la valutazione. Per
cui, il più delle volte, l’esposizione dello studente si è risolta in una
descrizione dell’esperienza che gli era piaciuta di più. In altri casi ancora,
i presidenti più sensibili alle performance individuali,
rimanevano particolarmente colpiti dalle esperienze di Cittadinanza o
Alternanza di maggiore successo o dai percorsi di studio svolti all’estero,
criteri che, come si può intuire, risultavano fortemente discriminanti rispetto
agli alunni che non avevano avuto le stesse opportunità. Anche l’Alternanza
Scuola Lavoro (ora ridenominata Percorsi per le Competenze Trasversali e
l’Orientamento, PCTO) ha evidenziato altri interrogativi: come tener conto
della relazione del tutor? E della qualità del percorso? In base a quali
parametri? Meglio valutare solo la qualità dell’esposizione? Alla fine non si
poteva che prendere atto di quanto esposto, trasformando il colloquio su questi
aspetti in qualcosa di molto simile a una cordiale chiacchierata.
La vera posta in gioco: la stretta su didattica e
insegnamento curricolare
L’impianto
del nuovo esame, oltre a varie dichiarazioni del MIUR che ne
hanno accompagnato il cambiamento, spingono a ritenere che la ratio della
riforma sia soprattutto quella di modificare per retroazione l’organizzazione e
la scelta di metodologie didattiche da parte degli insegnanti. In molte
scuole, non a caso, i dirigenti scolastici – più o meno coordinati dai
rispettivi dirigenti ministeriali – hanno già manifestato la richiesta lavorare
su “nodi concettuali” o “nuclei tematici” delle discipline e in maniera
multidisciplinare, auspicando progettazioni rigorosamente “per
competenze”.
Quali
possano essere gli effetti sulla qualità e dignità dell’apprendimento degli
studenti (e del lavoro dei docenti), dipenderà dal grado di consapevolezza
professionale degli insegnanti, dalla loro capacità di resistenza di fronte a
eventuali derive e pressioni, dalla loro autonomia intellettuale.
A nostro
parere e viste le condizioni materiali nelle quali operano tante realtà
scolastiche (tempi di insegnamento e apprendimento ridotti, affollamento delle
classi, precarietà strutturale del corpo docente, ossessione valutativa,
variegato menu di progetti extracurricolari) il rischio è che il mito
dell’interdisciplinarietà possa tradursi in un’autentica regressione nella
preparazione degli studenti; soprattutto se i docenti, sotto la pressione e
l’urgenza di uniformarsi al cambiamento ministeriale, sceglieranno di
focalizzarsi sulla costruzione di percorsi pluridisciplinari
preconfezionati, già a partire dagli anni precedenti alla quinta.
Alla luce di
queste considerazioni, si capisce come mai nell’Appello per
la Scuola Pubblica, redatto e pubblicato alla fine del 2017,
e diffuso con molta convinzione da ROARS,
tra le ragionevoli e, tutto sommato, moderate richieste rivolte al legislatore,
compariva quella di una moratoria in merito alle modifiche da apportare
all’Esame di Stato, a conclusione del ciclo di studi della scuola secondaria di
II grado.
Tale
richiesta, apparentemente marginale, era in realtà quella politicamente più
significativa e urgente. Se il senso di quel documento era infatti chiedere un
ripensamento rispetto a una politica di forte impatto sulla didattica e sulla
libertà d’insegnamento, la tematica dell’esame di Stato appariva strategica.
Apparentemente secondaria, le modalità dell’esame finale avrebbero in realtà
condizionato tutta la programmazione didattica delle scuole secondarie di secondo
grado. Se perseguire un approccio didattico fondato sul sapere disciplinare
poteva difendersi perché quel sapere era parte costitutiva della valutazione
dello studente in sede d’esame (sebbene sia riduttivo ridurre la ratio dell’impegno
didattico alla preparazione della prova di esame), una modalità di svolgimento
della vecchia “maturità” che avesse rigettato proprio quel sapere disciplinare
avrebbe in qualche modo favorito un’azione coercitiva nei confronti dei
docenti, che, pur di favorire il buon esito della prova finale sostenuta dagli
alunni, non avrebbero più potuto opporsi all’adozione di metodologie didattiche
innovative; proprio quelle sulla cui efficacia l’Appello si
interrogava.
Se questa
lettura è corretta, si spiega allora la volontà dell’esecutivo di accelerare
proprio sull’esame di Stato, nella consapevolezza che tale determinazione
avrebbe reso irreversibile il progresso verso le fantomatiche competenze e le
ancor più fantomatiche “unità d’apprendimento”. Che questa
lettura non sia affatto capziosa lo testimoniano le dichiarazioni compiaciute
di esponenti dell’Associazione Nazionale Presidi,
nonché di tutti i vecchi sostenitori della Buona Scuola, già da noi altre volte
richiamate. E, d’altra parte, che tale provvedimento ricalcasse la pervicace
volontà del PD di qualche anno fa è stato candidamente ammesso dal
sottosegretario, onorevole Luigi Gallo.
Quali conclusioni trarre da questa esperienza?
A nostro
avviso, la modalità d’esame di cui fin qui si sono ripercorse le ricadute
concrete è irriformabile. Non si tratta, in altre parole, di una prima
esperienza che può essere perfezionata nel tempo. Urge un radicale cambiamento
di rotta. L’idea di percorsi originali e meditati, da costruire
estemporaneamente da un punto di partenza occasionale, è pretestuosa e si
comprende appieno solo se inserita all’interno di una precisa idea di riforma
dell’impianto scolastico (si veda la “mistica delle competenze e dell’interdisciplinarietà”);
una prova interdisciplinare sensata e significativa culturalmente potrebbe
essere realizzata solo da studenti universitari, in possesso di conoscenze ben
superiori a quelle conseguibili attraverso una preparazione di scuola
superiore.
Per questo i
docenti dovranno resistere alle pressioni ministeriali e gerarchiche, volte a
promuovere questa nuova modalità di conduzione dell’esame per imporre – “per il
bene degli studenti” – un mutamento delle modalità di programmazione dei
docenti, proseguendo nell’attacco in corso da anni contro la libertà
d’insegnamento. Persino la preparazione per un esame così poco significativo
sul piano culturale avrebbe tutto da perdere se si decidesse di rinunciare alla
centralità dei contenuti di cultura, conosciuti attraverso un approfondimento
critico (che si può pensare di condurre in modo interdisciplinare, ma non certo
con le modalità divisate dai riformatori della scuola) dei vari percorsi
curricolari.
Vittorio
Perego, Giovanni Carosotti, Marina Boscaino, Lucia De Faveri, Carla Maria
Fabiani, Elena Maria Fabrizio, Rossella Latempa, Sandra Lucente, Vittorio
Perego, Carlo Salmaso
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