Rivolta in cerca di
sponsor
E’ naturale che i
dimostranti di Hong Kong, che continuano a godere di un vasto sostegno
popolare, si appellino all’Occidente durante le manifestazioni chiedendone
l’intervento per diminuire tanto la pressione diretta della polizia locale,
quanto quella indiretta delle forze cinesi che stazionano nella ex colonia
britannica e a Shenzhen poco oltre il confine.
Quando s’invocano il
suffragio universale (che non c’è), e la libertà di stampa e di espressione
(finora non abolite del tutto), qualsiasi mezzo sembra lecito pur di conseguire
l’obiettivo che ci si prefigge, anche se a tutti è noto che tale obiettivo è
pressoché impossibile da raggiungere.
The Donald, vorrei ma
non posso
Destano tuttavia una
certa meraviglia alcuni aspetti estremi delle manifestazioni. Negli ultimi
giorni, per esempio, è stato spesso scandito il nome di Donald Trump quasi
fosse il salvatore in pectore della città. Eppure è noto che il tycoon è
contrario agli interventi all’estero, figuriamoci poi in territorio cinese.
Trump si è limitato a
consigliare ai dirigenti di Pechino di usare la massima moderazione possibile,
facendo capire che un’eventuale repressione violenta danneggerebbe ancor più i
rapporti tra Usa e Repubblica Popolare.
Dazi prima di Hong Kong
Del resto tali rapporti
sono già molto tesi per la guerra commerciale in corso tra i due Paesi, con la
continua imposizione di dazi sulle merci importate da una parte e dall’altra.
Ed è facile intuire che a Trump interessi questo problema assai più della
situazione di Hong Kong.
Nel contempo alcune
frange dei dimostranti hanno preso l’abitudine di cantare di fronte alla
polizia – e alle inevitabili spie di Pechino – l’inno nazionale degli Stati
Uniti. Così fornendo alla leadership cinese l’occasione di accusare gli Usa di
fomentare i disordini. Accusa peraltro non supportata da prove, giacché risulta
difficile immaginare che in una situazione simile la rappresentanza diplomatica
americana si esponga in questo modo.
BoJo a rischio snobba
l’ex colonia
Meglio poi dimenticare
gli ex protettori inglesi. In questo momento Boris Johnson e il Regno Unito
hanno altre gatte da pelare grazie alla Brexit, che rischia di frantumare il
regno e con esso la più antica democrazia del mondo occidentale.
Certo è facile giudicare
gli avvenimenti sedendo in poltrona, mentre è assai più arduo viverli sulla
propria. Eppure è lecito chiedersi se sia questa la giusta politica da
adottare. Se, in altri termini, sia giustificata la strategia del “tanto
peggio, tanto meglio”.
Tanto peggio dubbio
Tanto meglio
Poiché è evidente che la
Cina non può cedere a rischio di portare i disordini all’interno dei suoi
stessi confini, sarebbe più ragionevole aprire un tavolo di trattativa per
verificare quanta autonomia si può salvare.
Ma pure questo è arduo,
giacché il movimento ha sì dei leader, ma non riconosciuti da tutti. In altre
parole non si sa chi dovrebbe sedere al tavolo, ed è tale instabilità a fare
oggi di Hong Kong una polveriera che nessuno è in grado di neutralizzare.
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