La fantascienza da tempo si interroga sul posto dell’uomo nel regno delle
macchine. Già nel 1872, Samuel Butler in Erewhon avanzava una
ipotesi tanto fantastica quanto pertinente alla nostra attualità
iperteconologica. La funzione residuale dell’umano, secondo Butler, si
risolverebbe nel costituire l’apparato genitale delle macchine. Le macchine si
accendono e si spengono, ma per potersi riprodurre hanno bisogno di qualcosa
che inizi e che finisca. Hanno bisogno cioè di una “attività” che non è
produzione, che non è lavoro, che non è “oggettivazione”. Lavorare le macchine
lo sanno fare benissimo perché sono state costruite per quello e lo faranno
sempre meglio con buona pace di chi continua a identificare la causa dell’umano
con quella del lavoro vivo: ciò che resta ancora oggi del lavoro è solo
un’appendice del sistema delle macchine. La loro funzionalità è legata
piuttosto al consumo e il consumo è una peculiarità del vivente, vale dire di
quell’ente che è fatto di dissipazione di energia. Consumare, direbbe il
filosofo aristotelico, non è una poiesis ma una praxis:
il suo fine è immanente e non trascendente. Si produce (poiein)
infatti in vista di altro – chi “usa”, scrive Platone, è il miglior giudice del
lavoro dell’artigiano – mentre il consumo, sconosciuto all’automa, non ha altro
scopo che il suo stesso esercizio. Il consumo è pratico non
poietico. Per questo si è soliti associare in modo quasi automatico il
lemma “consumo” con il lemma “piacere”, squalificando il consumo come attività
puramente edonistica. Il consumo sarebbe un’attività turpe perché chiusa in se
stessa come la masturbazione per la morale cattolica. In realtà
l’edonismo imputato al consumatore compulsivo è il dito premuto sul pulsante
che accende la macchina.
Il sogno o l’incubo di una integrale artificializzazione della vita si
infrange sullo scoglio del sesso e della morte. Del sesso perché
senza il godimento del consumo non vi sarebbe produzione: da qualche parte ci
deve essere un registro in cui si inscrive il godimento perché il funzionamento
della macchina sia giustificato. Non importa dove si localizzi
fisiologicamente, nella genitalità o altrove. Sesso è solo il nome per il godimento
in atto. Della morte perché per godere bisogna morire: i due
atti sono profondamente intrecciati, sono, anzi, un medesimo atto, come
testimoniato in modo eclatante dal regno vegetale, se non dalla natura tutta.
Per poterci sostituire del tutto le macchine dovrebbero insomma apprendere a
godere e a morire, ma se lo facessero cesserebbero di essere macchine e
diverrebbero come noi. La loro vittoria sarebbe una vittoria di Pirro perché
segnerebbe di fatto il trionfo della vita, magari non della vita nella sua
forma “umana”, ma della vita in sé, quella che intreccia in un
medesimo atto godere e morire. Il trionfo delle macchine coinciderebbe con la
loro integrale naturalizzazione. Sarebbero riassorbite nel ciclo della natura,
confermando l’ipotesi di chi, contestando il tradizionale dualismo
tecnica-natura e assimilando le protesi esosomatiche alle variazioni evolutive,
nega di fatto che vi sia una differenza di natura tra la “macchina” e
l’“organismo”.
Un episodio della serie Netflix Electric Dreams (Autofac)
tratto dai racconti di Ph.K.Dick illustra bene il paradossale rapporto della
macchina con il consumo. Dopo la fine del mondo umano, le macchine devono
costruire dei simulacri umani, vale a dire delle altre macchine programmate per
dimenticare la loro origine e per autointerpretarsi come gli ultimi eredi
della schiatta non artificiale. Solo così il grande sistema di produzione e
distribuzione di gadget che ha preso possesso del pianeta, cancellando la
residuale resistenza umana, può infatti continuare a funzionare. Le macchine
hanno disperatamentebisogno del consumatore. Perciò mandano droni a
rimpinzare disperse comunità di presunti sopravvissuti di gadget inutili. È il
principio kantiano della colomba che vola solo grazie all’attrito dell’aria o quello
fichteano dell’ostacolo-strumento: l’Io (in questo caso la macchina) che pone
il non-io (il consumatore) per essere se stesso (Io = Io), per continuare cioè
a produrre e a distribuire dei “beni” di consumo. Senza il sesso e senza la
morte le macchine infatti perderebbero la loro ragion d’essere. Detto in
termini marxisti: senza il limite costituito dalla distruttibilità di un corpo
vivente (cioè di un corpo che gode consumandosi) il processo di
autovalorizzazione del capitale non potrebbe essere illimitato. Autofac descrive
la situazione del post-capitalismo: il plus-valore non è più estratto dal
lavoro umano ma prelevato direttamente dalla vita che vive. Con la fine del
lavoro, è la vita, cioè il sesso e la morte, a diventare la fonte immediata del
valore.
Se allora, in modo conforme alla ortodossia ricardiana e marxiana,
decidiamo di chiamare ancora “lavoro” ciò che causa “valore” dobbiamo
concluderne che il semplice “atto” del vivere ( = godere e morire) è diventato,
a tutti gli effetti, “lavoro”. Il che spiega perché la classica critica dello
sfruttamento del lavoro sia divenuta critica dello sfruttamento della vita,
perché nel mondo occidentale si chieda per la vita come tale un
“salario” nonostante la controintuitività di una siffatta richiesta (un
salario, anche “minimo”, non lo si dà forse solo in cambio di un
“lavoro”?), perché la semplice produzione di tracce del nostro passaggio sul
pianeta, incessantemente realizzata attraverso i vari sistemi di registrazione
elettronica che accompagnano ogni momento della nostra esistenza, sia percepita
come una “essenza” di cui saremmo espropriati a vantaggio dei nuovi grandi
monopolisti della comunicazione digitale (accumulatori di Big Data: nuova
versione del Capitale). Tutte queste rivendicazioni, che fomentano il
malcontento generale, sono riconducibile al paradosso di una praxis (il
consumo) costretta a funzionare come una poiesis (la
produzione). I classici non esitavano a definire perverso un simile scambio. Vi
scorgevano un attentato alla libertà del cittadino.
Ma i classici vivevano in una società schiavista nella quale era legittimo
scaricare su una massa di sfortunati il compito di vivere per produrre
riservando a se stessi il sovrano diritto all’ozio (la condizione degli uccelli
del cielo e del giglio del campo). I classici disponevano di
macchine umane. Noi non lo possiamo più fare. Noi siamo disposti dalle
macchine non più umane. La nostra vita immediata è stata messa
al lavoro proprio da quelle macchine che sono state create per rimpiazzare gli
schiavi e per esonerarci dalla fatica del lavoro salariato. Le macchine, come
in Autofac, hanno però bisogno di noi, hanno bisogno della nostra
pura vita di consumatori compulsivi, e questo è ora avvertito come una
intollerabile aggressione da parte degli antichi servitori.
L’odio verso i migranti ha perciò la stessa “forma logica” dell’odio
impotente verso le macchine, con una differenza rilevante sul piano
immaginario, che è stata pienamente sfruttata dagli ideologi fascisti del
populismo. Agli occhi del consumatore macchina e migrante condividono la stessa
estraneità al genere umano. Al migrante è interdetto infatti a priori il
godimento, solo segno dell’appartenenza alla vita “vera”. Niente fa più orrore
al fascista nostrano di un migrante in ozio su una panchina nel centro della
città. Vi scorge una contraddizione logica che deve assolutamente essere
“tolta” (e va aggiunto che niente fa più orrore al fascista di un migrante che
gode sessualmente). Al migrante è concesso un residuale diritto all’accoglienza
solo se “utile”, se cioè funziona diligentemente come macchina che produce beni
di consumo e servizi. Tuttavia, sul piano dell’immaginario, il migrante, a
differenza della macchina, ha un simulacro di volto, non un vero viso,
naturalmente, che resta privilegio solo del consumatore, ma un volto diffuso,
un volto imprecisato, un cominciamento di volto (tutti i negri si somigliano,
tutti i cinesi sono uguali…). Questo embrione di individuazione è ciò che
manca alla macchina, per definizione senza sguardo. L’odio verso il “sistema”
che ci espropria della nostra vita immediata può così trovare un bersaglio
immaginario. “Qualcuno” può finalmente essere colpito dal
nostro odio impotente, qualcuno può finalmente soffrire e, con
la sua sofferenza, compensarci simbolicamente del lavoro che siamo costretti a
svolgere per il semplice fatto di vivere.
Una breve sequenza ripresa dalla tv ungherese in una zona di frontiera
qualche anno fa sintetizza bene questa situazione. Vi si vede una giornalista
carina che, durante una carica della polizia di frontiera su alcuni migranti
che provavano a forzare il confine, approfitta della confusione generale per
fare lo sgambetto a un padre che fuggiva con il figlio. Chiunque oggi voglia
riflettere seriamente su che cos’è la cattiveria sbandierata da Salvini deve
tener presente quel gesto gratuito e crudele. La cattiveria salviniana non è
niente che possa essere valutato in senso “morale”, ma è la promessa formulata
alla luce del sole dal leader al suo popolo di consumatori, una promessa chiara
e limpida, senza sottintesi, che il leader si impegna a onorare a qualsiasi
costo perché fondamento del contratto elettorale: li faremo soffrire finché ci
sarà possibile, li faremo soffrire perché voi possiate “godere” del grande spettacolo
della sofferenza inutile e sentirvi così ripagati del vostro quotidiano,
incessante, interminabile “lavoro” di operatori della macchina.
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