Una lunga conversazione sull’accademia e i romanzi, la divulgazione e la
fama, il Medioevo e l'Italia(intervista di Matteo De Giuli e Stella Succi)
Alessandro Barbero insegna storia medievale all’Università degli Studi
del Piemonte Orientale, da trent’anni pubblica saggi – sul Medioevo, i Savoia,
Waterloo, Lepanto, Caporetto – e biografie – Carlo Magno, Federico il
Grande, Costantino, Napoleone. Ha scritto sette romanzi e vinto un premio
Strega, collabora con Superquark e Rai Storia, ma per capire davvero la
popolarità che ha raccolto nel tempo bisogna forse leggere i numeri dei suoi
video su YouTube, video di conferenze e lezioni a volte registrate e montate
amatorialmente da qualche estimatore: i primi cinquantacinque di quelli più
visti (durata media un’ora, ma ce ne sono anche di tre, quattro e sei ore)
contano da centomila a mezzo milione di visualizzazioni, e nei commenti ai
video, solo entusiasti, si alimenta il culto. Incontriamo il professor Barbero
nel suo studio universitario, a Vercelli, durante una pausa tra i ricevimenti
degli studenti.
Prima dell’uscita del Nome della Rosa, Umberto Eco interpellò
amici e colleghi: aveva paura che l’ambiente accademico non vedesse di buon
occhio la pubblicazione di un romanzo. E all’epoca erano paure fondate, tra
invidie e critiche fu un libro, almeno in quel senso, divisivo. È ancora così?
Oppure oggi un docente universitario è più libero di fare divulgazione e di
dedicarsi alla scrittura di romanzi?
Eco ci ha liberati tutti. Dal 1980, quando è uscito Il nome della
rosa, di colpo si è scoperto che per un docente universitario, e un
serissimo intellettuale, scrivere un romanzo di successo è una cosa perfettamente
ammessa. C’è stato ancora un periodo di scetticismo, che è arrivato fino al mio
romanzo, nel ’95, in cui ancora qualcuno dei colleghi ti diceva io sono
molto contento per te, ti ammiro moltissimo, ma stai attento perché qualcun
altro magari troverà da ridire… Ma adesso è finito anche quello da un
pezzo, tutti scrivono romanzi.
Lei ha vissuto una prima popolarità fuori dall’accademia proprio con il suo
romanzo La bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo che
vinse il premio Strega.
Ho avuto questa fortuna di vivere sia l’improvvisa fama della vittoria sia
anche il contraccolpo, perché io ho vinto lo Strega giovanissimo, a
trentasei-trentasette anni, e ovviamente sono perfettamente in grado di
rendermi conto che aver vinto allo Strega è stata essenzialmente una
grandissima botta di culo per una serie di fattori che convergevano in quel
momento e che mi hanno portato avanti. Quindi ho sperimentato il fatto di avere
questo enorme successo, i fotografi, la notorietà, e poi progressivamente di
vederlo scemare, questo successo, perché io poi ho fatto altri romanzi che non
hanno mai avuto assolutamente il successo del primo – anche se secondo me sono
più belli. Ho vissuto la grande fortuna culturale di quello che ha vinto il
Premio Strega, e per un anno escono articoli su di lui sui giornali. Ma poi
basta, finisce di colpo, e quando è finita ho visto anche che l’impatto, il
venir dimenticato, non era poi così drammatico, andava bene lo stesso.
Dopo qualche anno però c’è stato un enorme ritorno di popolarità, un
effetto valanga innescato dalla TV.
È rinato per via della televisione, ma poi è cresciuto grazie ai festival e
a internet. Perché in realtà tantissimi mi conoscono perché vedono le mie
conferenze su YouTube, e quindi è veramente un prodotto della tecnologia di
adesso. Una volta uno faceva una conferenza e finiva lì, adesso invece verba
manent, non puoi parlare in pubblico senza che questa cosa venga
eternata su YouTube per sempre. Perché negli ultimi anni ci sia stato questo
effetto valanga non lo so, ma è indubbio, tant’è vero che per esempio ho chiuso
la pagina Facebook, che avevo lasciata aperta per una decina d’anni. Una
signora mi ha sgridato l’altro giorno: Che modo primitivo di fare le
cose!. E aveva ragione, ma era aumentato troppo il numero di persone che mi
contattava su Facebook; e a me scoccia, se mi scrivono, non rispondere, quindi
io rispondevo a tutti, e però alla fine era diventato un impegno quotidiano, e
non solo un impegno ma un’ansia: se saltavo un giorno dovevo starci almeno due ore
il giorno dopo.
Con la popolarità arrivano le richieste di incontri, altre conferenze,
interviste, nuove comparsate: come si fa a resistere, a non dire sempre sì, a
non trasformarsi in un “personaggio da TV”?
Rispondo con una banalità assoluta: la cosa di cui mi sono reso conto, via
via negli ultimi anni, man mano che aumentavano gli impegni legati a questa
crescente popolarità, è che a me piace – più che l’andare in giro e il parlare
in pubblico e l’andare in televisione – a me piace starmene a casa mia con mia
moglie, starmene in campagna tutta l’estate, tranquillo, senza rotture di
scatole, andare con il binocolo a fare birdwatching, andare in biblioteca a
fare il mio lavoro, a studiare, andare in archivio. Quelle sono le cose che a
me piace fare più di tutto. Poi andare a parlare a un festival davanti a mille
persone è bellissimo, incontrare persone per strada che ti salutano è
bellissimo, avere dei programmi televisivi è bello e interessante, sono tutti
degli arricchimenti. Però nel momento in cui queste cose ti mangiano l’altra
parte della vita a me non piace più. E allora guardo l’agenda e dico quand’è
che potrò andare a giocare a war game dal mio amico Sergio –
un’altra delle cose che mi piacciono di più al mondo? No domani no perché devo
andare a fare una conferenza. Dopodomani sono a Roma a registrare… Sto
cercando di ridurre un po’ la quantità degli impegni per salvarmi pezzi di
vita.
Fare divulgazione ha cambiato un po’ del suo metodo di lavoro? Fa più
attenzione adesso a cose particolari, magari quando va a fare ricerche
d’archivio, dettagli che sa che possono funzionare come immagini e storie dei
suoi racconti, al di là del loro valore accademico?
In realtà no, nel senso che io ho sempre avuto il gusto di cercare anche le
cose divertenti. Già molti anni fa, quando ero ancora giovane, alcuni dei miei
maestri mi sgridavano dicendo: Troppo gusto per il particolare
pittoresco che però non serve! Sfrondare, sfrondare!. Quello che ho
cambiato è il modo di scrivere, piuttosto, perché anche le cose divertenti è
molto diverso scriverle a seconda che tu pensi che ti leggeranno cento colleghi
medievisti in Italia e nel mondo o che ti leggeranno diecimila persone che sono
semplicemente appassionate di storia.
Ma nell’opinione comune di chi fa il suo mestiere, la ricerca dei dettagli
minori – penso ai libri di fantascienza ritrovati nel covo delle Brigate Rosse
che lei cita in una conferenza, o ai suoi racconti della vita di uomini e donne
del Trecento –, quel tipo di approccio lì, è accettato?
Quando fai ricerca, l’aneddoto curioso che però non c’entra niente con il
tuo argomento di ricerca, che non dimostra nulla e che però hai trovato dei
documenti e ti dispiaceva sacrificarlo e allora ce l’hai infilato, quello
ovviamente suscita ancora un pochino di presa di distanza da parte dei
professionisti. Non bisogna che siano gratuite, queste cose, quando fai ricerca
bisogna che tu stia studiando qualcosa, che tu abbia delle domande, dei
problemi da risolvere e allora a quel punto se ci trovi anche il dettaglio divertente
o pittoresco ce lo metti e va benissimo. Io ho fatto qualche anno fa una
conferenza su Marc Bloch che è uno dei grandi storici del Novecento, e per fare
questa conferenza al festival di Sarzana mi sono letto la corrispondenza fra
Marc Bloch e Lucien Febvre, altro grande storico e suo collega. E nel 1933
Bloch scriveva a Febvre, più o meno: Mi sto interessando di una cosa a
cui non avevo mai pensato: la storia dell’alimentazione. Ma non solo, la storia
delle conserve in particolare. Hai mai pensato al problema della marmellata? La
marmellata che ci sembra una tradizione di sempre. Però per fare la marmellata
bisogna che ci sia lo zucchero a buon mercato, e da quand’è che c’è lo zucchero
a buon mercato in Francia? Da quando c’è la barbabietola, perché prima era un
genere coloniale e costosissimo. Quindi la marmellata della nonna sì, ma la
bisnonna la faceva la marmellata o no? Ed era il più grande storico
del Novecento che discuteva di questo.
L’enorme quantità di dati e informazioni che stiamo producendo nel nostro
presente cambierà i metodi di lavoro degli storici del futuro?
In realtà il cambiamento grande c’è già stato con l’Ottocento, perché il
lavoro dello storico è diversissimo nella pratica quotidiana a seconda
dell’epoca che si studia. Chi studia il mondo antico, semplifico un po’, non sa
niente, qualsiasi problema studi può facilmente trovare tutte le pochissime
informazioni esistenti – tutte! E poi deve riempire i buchi, collegare,
ragionarci su, ipotizzare, e così via. L’altro giorno c’era un convegno qui a
Vercelli, e sentivo una bravissima collega grecista che ci raccontava che ci
sono alcuni trattati, nella Grecia antica, sul concetto di demagogia. Questi
trattati, in realtà, non li abbiamo. Sappiamo solo che c’erano, sappiamo i
titoli. La storiografia si divide tra chi ipotizza che forse questi trattati
condannavano la demagogia e chi dice che forse invece questi trattati non erano
così ostili alla demagogia, però capisce… Il nulla!
Man mano che si viene avanti, cambia. Ma è così ancora per l’epoca
altomedievale: se voglio studiare i Longobardi, in pochi giorni posso
impadronirmi di tutte le poche centinaia di pergamene longobarde esistenti:
sono pubblicate, sono quelle. Già se studio la fine del Medioevo, per qualunque
argomento io voglia studiare, negli archivi ci sono più documenti di quelli che
riuscirò a vedere. Però ne posso vedere la maggior parte. Se studio un
argomento dall’Ottocento in poi, so che non mi basterebbero dieci vite per
vedere tutti i documenti, ce ne sono maree immense, perché dalla
Rivoluzione Francese in poi gli Stati producono una quantità di scartoffie
enorme, in particolare se studio problemi di storia politica o di storia
militare. Ma anche qualunque altro problema: se io voglio sapere cosa
mangiavano i contadini, per quanto riguarda il Medioevo le testimonianze ci
sono, ma insomma, in una vita di lavoro le posso vedere tutte. È diverso già se
voglio studiare l’alimentazione dei contadini nell’Ottocento, per esempio. E lo
storico che studia il mondo contemporaneo sa che la marea di documenti è
infinita e che il suo mestiere consiste nell’aprirsi la strada giusta e sapere
quando fermarsi, sapere quando hai messo insieme abbastanza cose da chiarirti
il problema che ti eri posto.
Quindi oggi è solo più facile l’accesso ai documenti, ai materiali.
Per studiare la guerra delle Falkland, fino a vent’anni fa dovevo andare a
Londra negli archivi, ammesso che mi facessero vedere i documenti. Adesso la
Fondazione Thatcher ha messo a disposizione online tutti i documenti segreti del
gabinetto inglese all’epoca dello scoppio della guerra. Prima di internet
bisognava uscire di casa, andare in biblioteca, avere la tessera della
biblioteca ed entrarci. La conoscenza non era immediata. È vero che internet ha
raddoppiato il mondo, tutto il mondo sta anche lì dentro ora. Ma anche prima lo
trovavi il mondo, solo che ci mettevi più tempo e facevi più fatica.
Se dovesse paragonare la contemporaneità a un periodo storico del passato,
quale sceglierebbe?
Lo facciamo come gioco, naturalmente, perché tutte le epoche sono
diversissime, però c’è una caratteristica dei Secoli Bui che oggi secondo me
sta un po’ tornando. Per Secoli Bui intendiamo specificamente quelli delle
invasioni barbariche e il periodo subito dopo, non tutto il Medioevo – l’epoca
di Dante o della costruzione di Notre Dame non sono secoli bui evidentemente.
Ma il Quinto, Sesto, Settimo secolo, sono epoche in cui si scrive poco e le
opere scritte in quell’epoca ci colpiscono un po’, perché non c’è una logica
rigorosa, il ragionamento va un po’ come vuole, la verifica dei dati non c’è,
c’è molta credulità. Questo evidente declino delle capacità logiche tra gli
intellettuali dei Secoli Bui un po’ lo ritrovo, per esempio, nel discorso
pubblico o anche nel giornalismo. Il principio di non contraddizione, la logica
nell’argomentare, la consequenzialità delle cose che dici… Non sono sicuro che
fosse già così una volta, mi sembra che oggi sia più facile dire delle cazzate
che non stanno né in cielo né in terra, e che anzi si contraddicono tra loro e
nessuno neanche nota.
Come mai è tanto importante lo studio della storia militare secondo lei?
È un argomento di studio della storia umana tra i più centrali e tra i più
rivelatori di quello che è l’uomo in genere, e di quello che è una società
specifica in un certo momento. La guerra è sempre stata una parte costante
dell’attività umana, e in certi periodi storici è stata un’esperienza condivisa
da tutti – almeno tutti i maschi, per quanto riguarda il combattimento.
Socrate, Dante sono stati in battaglia. Noi rischiamo, per un errore di
prospettiva, pensando alla guerra come a una cosa eccezionale che fanno gli
specialisti, di dimenticare che invece è stata una compagna dell’esperienza
umana sempre. E a noi interessa, appunto, ricostruire l’esperienza umana,
capire cosa voleva dire essere un antico greco: essere un antico greco voleva
anche dire sapere cosa significa calzarsi un elmo di bronzo in testa, impugnare
lo scudo e la lancia e marciare con gli Spartani che sono là che aspettano e
non sapere se sarai ancora vivo stasera. Ovviamente se sei un cittadino di
una polis, se sei un cavaliere alle crociate, se sei un soldato di
Napoleone o di Hitler, cambia.
Poi studiare la guerra – non tanto la battaglia, ma l’organizzazione della
guerra – vuol dire capire moltissimo di ogni società, perché ogni società e
ogni tipo di forma politica organizza la guerra in un modo diverso. Io ho
scritto un libro sulla battaglia di Lepanto: ha voluto dire calarsi nei
meccanismi di funzionamento dell’Impero Ottomano, del Regno di Spagna, della
Repubblica di Venezia, nel modo di ragionare dei loro dirigenti, negli
strumenti che avevano a disposizione, le leggi, le abitudini, le regole, la
mentalità. Oggi in parte è un po’ diverso. Per fortuna, in Occidente almeno,
gli eserciti e la guerra rimangono una cosa il cui punto di vista è importante
per capire il nostro mondo, però forse un po’ separato, ecco, dal mainstream
della vita civile. Ma è utile sapere che siamo noi che siamo strani.
C’è un periodo storico su cui si stanno concentrando le ricerche in questo
momento, o che sta venendo riletto?
Premetto che nei limiti del possibile si studia tutto – per il momento,
finché non andremo tutti in pensione senza essere rimpiazzati: il numero dei
professori universitari in Italia sta calando drasticamente da molti anni. Però
un cambiamento grosso in corso è sull’interpretazione della caduta dell’Impero
Romano. Nella seconda metà del Novecento si era imposta la tendenza a vedere
una certa continuità anche attraverso le invasioni barbariche: un mondo che
certo, si trasforma, conosce anche un certo degrado economico, umano, un mondo
che diventa molto più multietnico, conosce dei traumi e degli scossoni, però
nell’insieme non un taglio netto. Che non muore, ecco.
Da qualche anno è di nuovo di moda dire no no, guardate, avete
insistito troppo sulla continuità e sulla trasformazione, in realtà il mondo
antico è proprio stato distrutto, le invasioni hanno avuto un impatto
distruttivo, e questo, anche se nessuno lo fa apposta, riflette chiaramente
gli orientamenti, le speranze e le paure del presente. Perché, appunto, noi
studiamo il passato in modo oggettivo quando si tratta di ricostruire i fatti,
ma poi l’interpretazione che ne diamo dipende sempre dal mondo in cui viviamo e
dalle nostre preoccupazioni.
Uno dei caratteri distintivi dei suoi saggi e delle sue conferenze, uno dei
temi che ricorrono più spesso e che attraversano le sue riflessioni, è la
mancata pacificazione in Italia, la mancata pacificazione nazionale del
dopo-fascismo e del dopo-terrorismo.
E addirittura del dopo Unità d’Italia, prima ancora. È una cosa tutta
italiana. Per carità, succede anche in altri paesi. In Francia la Rivoluzione
francese è ancora una cosa che in parte divide, anche se solo una minoranza.
Negli Stati Uniti io ero convinto che la guerra civile fosse una cosa chiusa e
risolta, e infatti spesso li citavo come esempio, perché la guerra civile
americana è esattamente contemporanea del nostro Risorgimento e mentre sul nostro
Risorgimento ci sono ancora discussioni, mi pareva che negli Stati Uniti tra
Nord e Sud avessero chiuso il discorso dicendo meno male che è andata
così, hanno vinto quelli che avevano ragione, però onore anche agli altri, e
anche se ognuno si celebra i suoi eroi siamo tutti contenti che sia finita così.
Poi in questi ultimi anni hanno ricominciato a tirar giù le statue dei generali
sudisti e i nazisti sono scesi in piazza, e quindi non è finita neanche lì.
Però in Italia direi che siamo più testoni che altrove.
Da cosa dipende?
In Italia, da un lato, c’è un’enorme ignoranza sul passato nazionale.
Nessuno sa niente, ma si crede di sapere perché si hanno in testa dei luoghi
comuni, che sono poi quelli magari ripetuti in famiglia, in certi casi, quando
si tratta di fascismo o resistenza per esempio. Lì le famiglie sono il
contenitore dentro cui si tramanda un certo punto di vista, e così anche quando
non si sa niente si crede di sapere, e non si dimenticano i vecchi rancori. A
volte se ne inventano di nuovi, come nel caso dei neoborbonici; quella è
proprio un’invenzione nuova: a quello stesso Sud che nel 1946 ha votato in
massa per i Savoia, adesso hanno reinventato questa identità borbonica
dei briganti che combatterono contro i Savoia. Tutto questo a me fa star male
perché mi fa capire come è facile inventare una fregnaccia totale che non ha un
minimo fondamento, e non ci vuol niente per vedere che è una balla, e
ciononostante le persone ci credono, e le favole i politici le sposano, i
giornalisti le spargono e così via.
Siamo un paese eternamente diviso, profondamente spaccato.
Siamo un paese particolarmente variegato e frazionato e litigioso e
spaccato, più della Francia di sicuro, o della Germania che è comunque un Paese
di grandi diversità e che però non è così profondamente litigioso. E in più c’è
la grande diversità geografica, i dialetti, tutto quanto, l’Italia è un paese
dove si può essere italiani e contemporaneamente avere un’identità regionale
fortissima. Voglio dire noi, almeno a livello aneddotico, possiamo essere
addirittura comici. Vai a Siena a parlare della battaglia di Montaperti: tutti
gli anni a Siena festeggiano la battaglia di Montaperti, quando sconfissero i
fiorentini. A Benevento, capitale del Sannio, in piazza c’è un mosaico che raffigura
le forche caudine, quando i Sanniti hanno sconfitto i Romani. Al di là del
pittoresco, l’Italia è tuttora un Paese per metà fascista e per metà
antifascista. E lo è sempre stato, salvo che si è fatto finta che i fascisti
non fossero proprio la metà, che fossero una minoranza, invece sono chiaramente
la metà del Paese.
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