lunedì 23 settembre 2019

La storia secondo Alessandro Barbero



Una lunga conversazione sull’accademia e i romanzi, la divulgazione e la fama, il Medioevo e l'Italia(intervista di Matteo De Giuli e Stella Succi)

Alessandro Barbero insegna storia medievale all’Università degli Studi del Piemonte Orientale, da trent’anni pubblica saggi – sul Medioevo, i Savoia, Waterloo, Lepanto, Caporetto – e biografie – Carlo Magno, Federico il Grande, Costantino, Napoleone. Ha scritto sette romanzi e vinto un premio Strega, collabora con Superquark e Rai Storia, ma per capire davvero la popolarità che ha raccolto nel tempo bisogna forse leggere i numeri dei suoi video su YouTube, video di conferenze e lezioni a volte registrate e montate amatorialmente da qualche estimatore: i primi cinquantacinque di quelli più visti (durata media un’ora, ma ce ne sono anche di tre, quattro e sei ore) contano da centomila a mezzo milione di visualizzazioni, e nei commenti ai video, solo entusiasti, si alimenta il culto. Incontriamo il professor Barbero nel suo studio universitario, a Vercelli, durante una pausa tra i ricevimenti degli studenti.
Prima dell’uscita del Nome della Rosa, Umberto Eco interpellò amici e colleghi: aveva paura che l’ambiente accademico non vedesse di buon occhio la pubblicazione di un romanzo. E all’epoca erano paure fondate, tra invidie e critiche fu un libro, almeno in quel senso, divisivo. È ancora così? Oppure oggi un docente universitario è più libero di fare divulgazione e di dedicarsi alla scrittura di romanzi?
Eco ci ha liberati tutti. Dal 1980, quando è uscito Il nome della rosa, di colpo si è scoperto che per un docente universitario, e un serissimo intellettuale, scrivere un romanzo di successo è una cosa perfettamente ammessa. C’è stato ancora un periodo di scetticismo, che è arrivato fino al mio romanzo, nel ’95, in cui ancora qualcuno dei colleghi ti diceva io sono molto contento per te, ti ammiro moltissimo, ma stai attento perché qualcun altro magari troverà da ridire… Ma adesso è finito anche quello da un pezzo, tutti scrivono romanzi.

Lei ha vissuto una prima popolarità fuori dall’accademia proprio con il suo romanzo La bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo che vinse il premio Strega.
Ho avuto questa fortuna di vivere sia l’improvvisa fama della vittoria sia anche il contraccolpo, perché io ho vinto lo Strega giovanissimo, a trentasei-trentasette anni, e ovviamente sono perfettamente in grado di rendermi conto che aver vinto allo Strega è stata essenzialmente una grandissima botta di culo per una serie di fattori che convergevano in quel momento e che mi hanno portato avanti. Quindi ho sperimentato il fatto di avere questo enorme successo, i fotografi, la notorietà, e poi progressivamente di vederlo scemare, questo successo, perché io poi ho fatto altri romanzi che non hanno mai avuto assolutamente il successo del primo – anche se secondo me sono più belli. Ho vissuto la grande fortuna culturale di quello che ha vinto il Premio Strega, e per un anno escono articoli su di lui sui giornali. Ma poi basta, finisce di colpo, e quando è finita ho visto anche che l’impatto, il venir dimenticato, non era poi così drammatico, andava bene lo stesso.
Dopo qualche anno però c’è stato un enorme ritorno di popolarità, un effetto valanga innescato dalla TV.
È rinato per via della televisione, ma poi è cresciuto grazie ai festival e a internet. Perché in realtà tantissimi mi conoscono perché vedono le mie conferenze su YouTube, e quindi è veramente un prodotto della tecnologia di adesso. Una volta uno faceva una conferenza e finiva lì, adesso invece verba manent, non puoi parlare in pubblico senza che questa cosa venga eternata su YouTube per sempre. Perché negli ultimi anni ci sia stato questo effetto valanga non lo so, ma è indubbio, tant’è vero che per esempio ho chiuso la pagina Facebook, che avevo lasciata aperta per una decina d’anni. Una signora mi ha sgridato l’altro giorno: Che modo primitivo di fare le cose!. E aveva ragione, ma era aumentato troppo il numero di persone che mi contattava su Facebook; e a me scoccia, se mi scrivono, non rispondere, quindi io rispondevo a tutti, e però alla fine era diventato un impegno quotidiano, e non solo un impegno ma un’ansia: se saltavo un giorno dovevo starci almeno due ore il giorno dopo.
Con la popolarità arrivano le richieste di incontri, altre conferenze, interviste, nuove comparsate: come si fa a resistere, a non dire sempre sì, a non trasformarsi in un “personaggio da TV”?
Rispondo con una banalità assoluta: la cosa di cui mi sono reso conto, via via negli ultimi anni, man mano che aumentavano gli impegni legati a questa crescente popolarità, è che a me piace – più che l’andare in giro e il parlare in pubblico e l’andare in televisione – a me piace starmene a casa mia con mia moglie, starmene in campagna tutta l’estate, tranquillo, senza rotture di scatole, andare con il binocolo a fare birdwatching, andare in biblioteca a fare il mio lavoro, a studiare, andare in archivio. Quelle sono le cose che a me piace fare più di tutto. Poi andare a parlare a un festival davanti a mille persone è bellissimo, incontrare persone per strada che ti salutano è bellissimo, avere dei programmi televisivi è bello e interessante, sono tutti degli arricchimenti. Però nel momento in cui queste cose ti mangiano l’altra parte della vita a me non piace più. E allora guardo l’agenda e dico quand’è che potrò andare a giocare a war game dal mio amico Sergio – un’altra delle cose che mi piacciono di più al mondo? No domani no perché devo andare a fare una conferenza. Dopodomani sono a Roma a registrare… Sto cercando di ridurre un po’ la quantità degli impegni per salvarmi pezzi di vita.
Fare divulgazione ha cambiato un po’ del suo metodo di lavoro? Fa più attenzione adesso a cose particolari, magari quando va a fare ricerche d’archivio, dettagli che sa che possono funzionare come immagini e storie dei suoi racconti, al di là del loro valore accademico?
In realtà no, nel senso che io ho sempre avuto il gusto di cercare anche le cose divertenti. Già molti anni fa, quando ero ancora giovane, alcuni dei miei maestri mi sgridavano dicendo: Troppo gusto per il particolare pittoresco che però non serve! Sfrondare, sfrondare!. Quello che ho cambiato è il modo di scrivere, piuttosto, perché anche le cose divertenti è molto diverso scriverle a seconda che tu pensi che ti leggeranno cento colleghi medievisti in Italia e nel mondo o che ti leggeranno diecimila persone che sono semplicemente appassionate di storia.
Ma nell’opinione comune di chi fa il suo mestiere, la ricerca dei dettagli minori – penso ai libri di fantascienza ritrovati nel covo delle Brigate Rosse che lei cita in una conferenza, o ai suoi racconti della vita di uomini e donne del Trecento –, quel tipo di approccio lì, è accettato?
Quando fai ricerca, l’aneddoto curioso che però non c’entra niente con il tuo argomento di ricerca, che non dimostra nulla e che però hai trovato dei documenti e ti dispiaceva sacrificarlo e allora ce l’hai infilato, quello ovviamente suscita ancora un pochino di presa di distanza da parte dei professionisti. Non bisogna che siano gratuite, queste cose, quando fai ricerca bisogna che tu stia studiando qualcosa, che tu abbia delle domande, dei problemi da risolvere e allora a quel punto se ci trovi anche il dettaglio divertente o pittoresco ce lo metti e va benissimo. Io ho fatto qualche anno fa una conferenza su Marc Bloch che è uno dei grandi storici del Novecento, e per fare questa conferenza al festival di Sarzana mi sono letto la corrispondenza fra Marc Bloch e Lucien Febvre, altro grande storico e suo collega. E nel 1933 Bloch scriveva a Febvre, più o meno: Mi sto interessando di una cosa a cui non avevo mai pensato: la storia dell’alimentazione. Ma non solo, la storia delle conserve in particolare. Hai mai pensato al problema della marmellata? La marmellata che ci sembra una tradizione di sempre. Però per fare la marmellata bisogna che ci sia lo zucchero a buon mercato, e da quand’è che c’è lo zucchero a buon mercato in Francia? Da quando c’è la barbabietola, perché prima era un genere coloniale e costosissimo. Quindi la marmellata della nonna sì, ma la bisnonna la faceva la marmellata o no? Ed era il più grande storico del Novecento che discuteva di questo.
L’enorme quantità di dati e informazioni che stiamo producendo nel nostro presente cambierà i metodi di lavoro degli storici del futuro?
In realtà il cambiamento grande c’è già stato con l’Ottocento, perché il lavoro dello storico è diversissimo nella pratica quotidiana a seconda dell’epoca che si studia. Chi studia il mondo antico, semplifico un po’, non sa niente, qualsiasi problema studi può facilmente trovare tutte le pochissime informazioni esistenti – tutte! E poi deve riempire i buchi, collegare, ragionarci su, ipotizzare, e così via. L’altro giorno c’era un convegno qui a Vercelli, e sentivo una bravissima collega grecista che ci raccontava che ci sono alcuni trattati, nella Grecia antica, sul concetto di demagogia. Questi trattati, in realtà, non li abbiamo. Sappiamo solo che c’erano, sappiamo i titoli. La storiografia si divide tra chi ipotizza che forse questi trattati condannavano la demagogia e chi dice che forse invece questi trattati non erano così ostili alla demagogia, però capisce… Il nulla!
Man mano che si viene avanti, cambia. Ma è così ancora per l’epoca altomedievale: se voglio studiare i Longobardi, in pochi giorni posso impadronirmi di tutte le poche centinaia di pergamene longobarde esistenti: sono pubblicate, sono quelle. Già se studio la fine del Medioevo, per qualunque argomento io voglia studiare, negli archivi ci sono più documenti di quelli che riuscirò a vedere. Però ne posso vedere la maggior parte. Se studio un argomento dall’Ottocento in poi, so che non mi basterebbero dieci vite per vedere tutti i documenti, ce ne sono maree immense, perché dalla Rivoluzione Francese in poi gli Stati producono una quantità di scartoffie enorme, in particolare se studio problemi di storia politica o di storia militare. Ma anche qualunque altro problema: se io voglio sapere cosa mangiavano i contadini, per quanto riguarda il Medioevo le testimonianze ci sono, ma insomma, in una vita di lavoro le posso vedere tutte. È diverso già se voglio studiare l’alimentazione dei contadini nell’Ottocento, per esempio. E lo storico che studia il mondo contemporaneo sa che la marea di documenti è infinita e che il suo mestiere consiste nell’aprirsi la strada giusta e sapere quando fermarsi, sapere quando hai messo insieme abbastanza cose da chiarirti il problema che ti eri posto.
Quindi oggi è solo più facile l’accesso ai documenti, ai materiali.
Per studiare la guerra delle Falkland, fino a vent’anni fa dovevo andare a Londra negli archivi, ammesso che mi facessero vedere i documenti. Adesso la Fondazione Thatcher ha messo a disposizione online tutti i documenti segreti del gabinetto inglese all’epoca dello scoppio della guerra. Prima di internet bisognava uscire di casa, andare in biblioteca, avere la tessera della biblioteca ed entrarci. La conoscenza non era immediata. È vero che internet ha raddoppiato il mondo, tutto il mondo sta anche lì dentro ora. Ma anche prima lo trovavi il mondo, solo che ci mettevi più tempo e facevi più fatica.
Se dovesse paragonare la contemporaneità a un periodo storico del passato, quale sceglierebbe?
Lo facciamo come gioco, naturalmente, perché tutte le epoche sono diversissime, però c’è una caratteristica dei Secoli Bui che oggi secondo me sta un po’ tornando. Per Secoli Bui intendiamo specificamente quelli delle invasioni barbariche e il periodo subito dopo, non tutto il Medioevo – l’epoca di Dante o della costruzione di Notre Dame non sono secoli bui evidentemente. Ma il Quinto, Sesto, Settimo secolo, sono epoche in cui si scrive poco e le opere scritte in quell’epoca ci colpiscono un po’, perché non c’è una logica rigorosa, il ragionamento va un po’ come vuole, la verifica dei dati non c’è, c’è molta credulità. Questo evidente declino delle capacità logiche tra gli intellettuali dei Secoli Bui un po’ lo ritrovo, per esempio, nel discorso pubblico o anche nel giornalismo. Il principio di non contraddizione, la logica nell’argomentare, la consequenzialità delle cose che dici… Non sono sicuro che fosse già così una volta, mi sembra che oggi sia più facile dire delle cazzate che non stanno né in cielo né in terra, e che anzi si contraddicono tra loro e nessuno neanche nota.
Come mai è tanto importante lo studio della storia militare secondo lei?
È un argomento di studio della storia umana tra i più centrali e tra i più rivelatori di quello che è l’uomo in genere, e di quello che è una società specifica in un certo momento. La guerra è sempre stata una parte costante dell’attività umana, e in certi periodi storici è stata un’esperienza condivisa da tutti – almeno tutti i maschi, per quanto riguarda il combattimento. Socrate, Dante sono stati in battaglia. Noi rischiamo, per un errore di prospettiva, pensando alla guerra come a una cosa eccezionale che fanno gli specialisti, di dimenticare che invece è stata una compagna dell’esperienza umana sempre. E a noi interessa, appunto, ricostruire l’esperienza umana, capire cosa voleva dire essere un antico greco: essere un antico greco voleva anche dire sapere cosa significa calzarsi un elmo di bronzo in testa, impugnare lo scudo e la lancia e marciare con gli Spartani che sono là che aspettano e non sapere se sarai ancora vivo stasera. Ovviamente se sei un cittadino di una polis, se sei un cavaliere alle crociate, se sei un soldato di Napoleone o di Hitler, cambia.
Poi studiare la guerra – non tanto la battaglia, ma l’organizzazione della guerra – vuol dire capire moltissimo di ogni società, perché ogni società e ogni tipo di forma politica organizza la guerra in un modo diverso. Io ho scritto un libro sulla battaglia di Lepanto: ha voluto dire calarsi nei meccanismi di funzionamento dell’Impero Ottomano, del Regno di Spagna, della Repubblica di Venezia, nel modo di ragionare dei loro dirigenti, negli strumenti che avevano a disposizione, le leggi, le abitudini, le regole, la mentalità. Oggi in parte è un po’ diverso. Per fortuna, in Occidente almeno, gli eserciti e la guerra rimangono una cosa il cui punto di vista è importante per capire il nostro mondo, però forse un po’ separato, ecco, dal mainstream della vita civile. Ma è utile sapere che siamo noi che siamo strani.
C’è un periodo storico su cui si stanno concentrando le ricerche in questo momento, o che sta venendo riletto?
Premetto che nei limiti del possibile si studia tutto – per il momento, finché non andremo tutti in pensione senza essere rimpiazzati: il numero dei professori universitari in Italia sta calando drasticamente da molti anni. Però un cambiamento grosso in corso è sull’interpretazione della caduta dell’Impero Romano. Nella seconda metà del Novecento si era imposta la tendenza a vedere una certa continuità anche attraverso le invasioni barbariche: un mondo che certo, si trasforma, conosce anche un certo degrado economico, umano, un mondo che diventa molto più multietnico, conosce dei traumi e degli scossoni, però nell’insieme non un taglio netto. Che non muore, ecco.
Da qualche anno è di nuovo di moda dire no no, guardate, avete insistito troppo sulla continuità e sulla trasformazione, in realtà il mondo antico è proprio stato distrutto, le invasioni hanno avuto un impatto distruttivo, e questo, anche se nessuno lo fa apposta, riflette chiaramente gli orientamenti, le speranze e le paure del presente. Perché, appunto, noi studiamo il passato in modo oggettivo quando si tratta di ricostruire i fatti, ma poi l’interpretazione che ne diamo dipende sempre dal mondo in cui viviamo e dalle nostre preoccupazioni.
Uno dei caratteri distintivi dei suoi saggi e delle sue conferenze, uno dei temi che ricorrono più spesso e che attraversano le sue riflessioni, è la mancata pacificazione in Italia, la mancata pacificazione nazionale del dopo-fascismo e del dopo-terrorismo.
E addirittura del dopo Unità d’Italia, prima ancora. È una cosa tutta italiana. Per carità, succede anche in altri paesi. In Francia la Rivoluzione francese è ancora una cosa che in parte divide, anche se solo una minoranza. Negli Stati Uniti io ero convinto che la guerra civile fosse una cosa chiusa e risolta, e infatti spesso li citavo come esempio, perché la guerra civile americana è esattamente contemporanea del nostro Risorgimento e mentre sul nostro Risorgimento ci sono ancora discussioni, mi pareva che negli Stati Uniti tra Nord e Sud avessero chiuso il discorso dicendo meno male che è andata così, hanno vinto quelli che avevano ragione, però onore anche agli altri, e anche se ognuno si celebra i suoi eroi siamo tutti contenti che sia finita così. Poi in questi ultimi anni hanno ricominciato a tirar giù le statue dei generali sudisti e i nazisti sono scesi in piazza, e quindi non è finita neanche lì. Però in Italia direi che siamo più testoni che altrove.
Da cosa dipende?
In Italia, da un lato, c’è un’enorme ignoranza sul passato nazionale. Nessuno sa niente, ma si crede di sapere perché si hanno in testa dei luoghi comuni, che sono poi quelli magari ripetuti in famiglia, in certi casi, quando si tratta di fascismo o resistenza per esempio. Lì le famiglie sono il contenitore dentro cui si tramanda un certo punto di vista, e così anche quando non si sa niente si crede di sapere, e non si dimenticano i vecchi rancori. A volte se ne inventano di nuovi, come nel caso dei neoborbonici; quella è proprio un’invenzione nuova: a quello stesso Sud che nel 1946 ha votato in massa per i Savoia,  adesso hanno reinventato questa identità borbonica dei briganti che combatterono contro i Savoia. Tutto questo a me fa star male perché mi fa capire come è facile inventare una fregnaccia totale che non ha un minimo fondamento, e non ci vuol niente per vedere che è una balla, e ciononostante le persone ci credono, e le favole i politici le sposano, i giornalisti le spargono e così via.
Siamo un paese eternamente diviso, profondamente spaccato.
Siamo un paese particolarmente variegato e frazionato e litigioso e spaccato, più della Francia di sicuro, o della Germania che è comunque un Paese di grandi diversità e che però non è così profondamente litigioso. E in più c’è la grande diversità geografica, i dialetti, tutto quanto, l’Italia è un paese dove si può essere italiani e contemporaneamente avere un’identità regionale fortissima. Voglio dire noi, almeno a livello aneddotico, possiamo essere addirittura comici. Vai a Siena a parlare della battaglia di Montaperti: tutti gli anni a Siena festeggiano la battaglia di Montaperti, quando sconfissero i fiorentini. A Benevento, capitale del Sannio, in piazza c’è un mosaico che raffigura le forche caudine, quando i Sanniti hanno sconfitto i Romani. Al di là del pittoresco, l’Italia è tuttora un Paese per metà fascista e per metà antifascista. E lo è sempre stato, salvo che si è fatto finta che i fascisti non fossero proprio la metà, che fossero una minoranza, invece sono chiaramente la metà del Paese.

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