A Manila, nelle Filippine, nel cuore del grande centro commerciale di
Eastwood del distretto di Quezon City, sorge un monumento «agli uomini e le
donne che si sono impegnati con passione nel settore dell’outsourcing dei
processi aziendali». Un uomo e una donna con cuffie e valigette 24 ore si
rivolgono a un futuro radioso circondati da uccelli volanti d’acciaio. A pochi
passi da lì c’è il bar Coffee Bean & Tea Leaf, dove Sarah T. Roberts ha
intervistato un gruppo di moderatori di contenuti commerciali per il suo saggio
intitolato Behind the
Screen, il cui sottotitolo recita La moderazione dei
contenuti all’ombra dei social media. La moderazione dei contenuti
commerciali, o Ccm, è uno dei lavori più sporchi di questa stagione in cui
internet è in mano alle grandi aziende tecnologiche. Il lavoro consiste nel
rivedere, vagliare e rimuovere contenuti violenti, razzisti e inquietanti
pubblicati sia su social network come Facebook e YouTube, sia nella sezione
commenti dei siti web dei principali marchi.
Roberts racconta come quegli stessi fattori economici e sociali che
producono per noi esperienze digitali quotidiane relativamente sterilizzate,
producono anche una classe globale di lavoratori della moderazione dei
contenuti commerciali, legati l’uno all’altro da condizioni di lavoro fatte di
contingenza, salari al ribasso, velocità, carichi di lavoro sempre più alti, e
sulla continua esposizione ai peggiori elementi dell’umanità, a qualunque ora
del giorno o della notte. Roberts ha intervistato lavoratori di diverse
categorie: filippini che lavorano normalmente nel settore dell’outsourcing
(chiamato tecnicamente Bpo, Business Process Outsourcing) e accettano lavori di
Ccm quando non sono disponibili posizioni più competitive nei call-center;
oppure giovani laureati di San Francisco i cui grandi sogni tecnologici si
trasformano in realtà di precariato a tempo indeterminato; fino a dirigenti di
aziende appaltatrici americane che promuovono l’americanità dei
loro moderatori umani, secondo una xenofobia pienamente in sintonia con la
politica americana contemporanea. Alcuni degli intervistati si concentrano sui
traumi psicologici provocati dai contenuti a cui sono esposti. Altri lamentano
la riduzione dei salari, l’instabilità del lavoro e la mancanza di tutele.
L’autrice ci ricorda che il nostro divertimento nel condividere foto e meme di
bambini e petizioni online è reso possibile solo da questi lavoratori sparsi in
tutto il mondo, da Manila alla Silicon Valley, che passano la vita a navigare
nel peggio del web, tenendo il cyberspazio al riparo dai filmini e dalla
pornografia infantile.
La moderazione umana dei contenuti online non è una novità. Infatti, come
segnala l’autrice a partire dalla sua esperienza personale, nei primi tempi del
web la moderazione era una questione sociale. I moderatori provenivano dalle
stesse comunità che moderavano e il loro ruolo era riconosciuto e rispettato
dagli altri. Che si usasse Mud, Bbs o Usenet, la moderazione si traduceva
essenzialmente a illustrare e far rispettare delle regole di comportamento
finalizzate a far funzionare collegialmente il gruppo di discussione. Tutti
sapevano che questa attività era essenziale per ottenere un ambiente di gioco o
una chat funzionali e, benché anche il primo internet non fosse certo privo di
conflitti, il ruolo e l’importanza dei moderatori non venivano mai messi in
discussione.
Proiettandosi nell’internet odierno, la moderazione dei contenuti appare
alquanto cambiata. Sono finiti i tempi del controllo diretto da parte dei
membri delle comunità, con identità pubbliche e note a tutti: i moderatori di
oggi sono invisibili, anzi, dice Roberts, la moderazione è quasi un segreto.
Nel suo libro, l’autrice condiscende a questa segretezza e chiama con
pseudonimi sia le sue fonti che alcune delle aziende per cui lavorano,
consapevole dei vincoli di segreto aziendale imposti nel settore. Il rispetto
delle norme delle comunità online è imposta ai lavoratori al fine di aumentare
i profitti delle grandi aziende di social media. Le regole di ingaggio sono
soggette ad accordi di non divulgazione, i moderatori lavorano da cubicoli e
call center, e il lavoro non è più fatto per amore di comunità, ma è solo un
altro lavoro temporaneo a basso reddito come tutti gli altri, da Quezon City
alla Silicon Valley.
Oltre a un piccolo gruppo di lavoratori filippini, l’autrice ha condotto
lunghe interviste con diversi moderatori di contenuti commerciali che lavorano
nella Silicon Valley. Il fatto che la ricerca l’abbia portata a visitare due
dei siti di massimo lustro del capitale globale rende ancora più semplice
marcare il netto contrasto tra questo fasto e le condizioni di lavoro in vigore
in entrambe le zone. I moderatori di contenuti californiani sono in gran parte
neolaureati che entrano nel settore della moderazione dei contenuti di Facebook
e simili nella speranza che questo possa rappresentare un trampolino per
posizioni altamente retribuite nel settore tecnologico. Quello che trovano,
invece, è un posto nel deserto sempre più ampio dei lavori in outsourcing e a progetto
caratteristici della «gig economy». Certo, i contenuti che rivedono portano il
nome dei grandi marchi, ma a pagarli sono gli assegni delle agenzie interinali
che li hanno assunti. Le posizioni che ricoprono sono a breve termine, e se la
paga è migliore di quella di un barista di Starbucks, sono comunque molto più
basse di quelle che si otterrebbero con un «vero lavoro» in una big
tech, e inoltre mancano del tutto di quei benefici sindacali (malattia,
ferie e assicurazione sanitaria) senza i quali non è fattibile lavorare in
America.
Dall’altra parte del pianeta, i loro compatrioti filippini vivono in
condizioni molto simili: lavorano per conto terzi e non direttamente per le
aziende, con salari che un tempo erano relativamente alti nel mercato del lavoro
locale, ma che dalla metà degli anni 2000 sono crollati a causa di una corsa
globale al ribasso sul costo del lavoro. Ma mentre i moderatori americani
parlano molto della difficoltà di affrontare ciò che vedono, i lavoratori
filippini intervistati nel libro parlano più che altro dei compromessi
richiesti dal lavoro outsourcing non vocale (tipo call-center): la retribuzione
è drasticamente inferiore, ma almeno non si deve avere a che fare con americani
arrabbiati che urlano al telefono.
L’analisi di Roberts chiarisce che i pericoli di questo tipo di lavoro
superano ogni confine nazionale. Le condizioni dei moderatori di contenuti
commerciali della multinazionale filippina dei centri commerciali Megaworld sono
le stesse dei lavoratori della miriade di società americane senza nome della
Silicon Valley: riassumendo, lavoro a progetto, stipendi bassi e nessun
beneficio, a cui si aggiunge l’essere esposti tutti i giorni a violazioni
estreme delle norme sociali sulla sessualità e sulla violenza e i danni
psicologici che ne derivano. Nel libro, la questione dell’emotività e
dell’impatto psicologico del lavoro di pulizia di internet emerge in
particolare quando parla del contesto contesto americano, mentre i documenti
raccolti nelle Filippine sono trattati sotto un altro angolo. Si parla meno di
necessità di interventi di salute mentale sul posto di lavoro e più di
come la concorrenza con l’India nella fornitura di manodopera temporanea a
basso costo alle aziende statunitensi stia facendo aumentare la velocità e la
quantità delle immagini e dei contenuti che i lavoratori di Quezon City devono
moderare ogni giorno per essere competitivi. È un richiamo alla struttura
ideologica e storico-sociale del sentimento: ciò che conta per questi
lavoratori mentre navigano nel peggio di internet dipende dal contesto in cui
ogni immagine richiama il passato.
Ciò che accomuna i lavoratori di San Francisco e di Manila è, da un lato,
l’importanza del loro lavoro – Roberts chiarisce che Internet senza moderatori
commerciali sarebbe impossibile da navigare – e, dall’altro, la sua totale
disponibilità da parte dei giganti tecnologici globali. In tutto il libro,
l’autrice chiama i moderatori di contenuti commerciali «professionisti», una scelta
di designazione che non viene argomentata e sembra non corrispondere alle
condizioni di lavoro descritte. Il termine «professionista», infatti, è forse
adeguato per le 24 ore e le cuffie del monumento al Bpo del centro commerciale
di Eastwood, non ai contratti temporanei e instabili e alle quote di lavoro
sempre più elevate che effettivamente caratterizzano le posizioni descritte nel
libro. Il termine si può leggere quasi come un desiderio: se questi lavori
potessero professionalizzarsi, i lavoratori verrebbero rispettati, pagati bene
e garantiti. Ma, naturalmente, non è così che si trasformano le condizioni di
lavoro, per questo Roberts propone una serie di potenziali rimedi: trasparenza
obbligatoria per legge sulle politiche di moderazione, cambiamenti nelle
abitudini di consumo dei social media da parte degli utenti, consulenze di
salute mentale per i moderatori e, infine, organizzazione dei lavoratori, cosa
che è già in corso sia tra i tecnici di San Francisco e Seattle che tra i
lavoratori in outsourcing di Manila.
La sfida, quindi, è immaginare un modo in cui questi lavoratori relegati
dietro delle enormi quinte digitali, separati l’uno dall’altro da chilometri,
da interfacce e da contratti di outsourcing, possano iniziare a lottare insieme
contro tutti i Facebook del mondo.
Emiliy Drabinski lavora come coordinatrice alla biblioteca dell’Università
Long Island a Brooklyn ed è segretaria della Federazione delle Facoltà della
stessa Università. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com.
La traduzione è di Riccardo Antoniucci.
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