venerdì 13 settembre 2019

Gli spazzini invisibili di internet - Emily Drabinski



A Manila, nelle Filippine, nel cuore del grande centro commerciale di Eastwood del distretto di Quezon City, sorge un monumento «agli uomini e le donne che si sono impegnati con passione nel settore dell’outsourcing dei processi aziendali». Un uomo e una donna con cuffie e valigette 24 ore si rivolgono a un futuro radioso circondati da uccelli volanti d’acciaio. A pochi passi da lì c’è il bar Coffee Bean & Tea Leaf, dove Sarah T. Roberts ha intervistato un gruppo di moderatori di contenuti commerciali per il suo saggio intitolato Behind the Screen, il cui sottotitolo recita La moderazione dei contenuti all’ombra dei social media. La moderazione dei contenuti commerciali, o Ccm, è uno dei lavori più sporchi di questa stagione in cui internet è in mano alle grandi aziende tecnologiche. Il lavoro consiste nel rivedere, vagliare e rimuovere contenuti violenti, razzisti e inquietanti pubblicati sia su social network come Facebook e YouTube, sia nella sezione commenti dei siti web dei principali marchi. 
Roberts racconta come quegli stessi fattori economici e sociali che producono per noi esperienze digitali quotidiane relativamente sterilizzate, producono anche una classe globale di lavoratori della moderazione dei contenuti commerciali, legati l’uno all’altro da condizioni di lavoro fatte di contingenza, salari al ribasso, velocità, carichi di lavoro sempre più alti, e sulla continua esposizione ai peggiori elementi dell’umanità, a qualunque ora del giorno o della notte. Roberts ha intervistato lavoratori di diverse categorie: filippini che lavorano normalmente nel settore dell’outsourcing (chiamato tecnicamente Bpo, Business Process Outsourcing) e accettano lavori di Ccm quando non sono disponibili posizioni più competitive nei call-center; oppure giovani laureati di San Francisco i cui grandi sogni tecnologici si trasformano in realtà di precariato a tempo indeterminato; fino a dirigenti di aziende appaltatrici americane che promuovono l’americanità dei loro moderatori umani, secondo una xenofobia pienamente in sintonia con la politica americana contemporanea. Alcuni degli intervistati si concentrano sui traumi psicologici provocati dai contenuti a cui sono esposti. Altri lamentano la riduzione dei salari, l’instabilità del lavoro e la mancanza di tutele. L’autrice ci ricorda che il nostro divertimento nel condividere foto e meme di bambini e petizioni online è reso possibile solo da questi lavoratori sparsi in tutto il mondo, da Manila alla Silicon Valley, che passano la vita a navigare nel peggio del web, tenendo il cyberspazio al riparo dai filmini e dalla pornografia infantile.
La moderazione umana dei contenuti online non è una novità. Infatti, come segnala l’autrice a partire dalla sua esperienza personale, nei primi tempi del web la moderazione era una questione sociale. I moderatori provenivano dalle stesse comunità che moderavano e il loro ruolo era riconosciuto e rispettato dagli altri. Che si usasse Mud, Bbs o Usenet, la moderazione si traduceva essenzialmente a illustrare e far rispettare delle regole di comportamento finalizzate a far funzionare collegialmente il gruppo di discussione. Tutti sapevano che questa attività era essenziale per ottenere un ambiente di gioco o una chat funzionali e, benché anche il primo internet non fosse certo privo di conflitti, il ruolo e l’importanza dei moderatori non venivano mai messi in discussione.
Proiettandosi nell’internet odierno, la moderazione dei contenuti appare alquanto cambiata. Sono finiti i tempi del controllo diretto da parte dei membri delle comunità, con identità pubbliche e note a tutti: i moderatori di oggi sono invisibili, anzi, dice Roberts, la moderazione è quasi un segreto. Nel suo libro, l’autrice condiscende a questa segretezza e chiama con pseudonimi sia le sue fonti che alcune delle aziende per cui lavorano, consapevole dei vincoli di segreto aziendale imposti nel settore. Il rispetto delle norme delle comunità online è imposta ai lavoratori al fine di aumentare i profitti delle grandi aziende di social media. Le regole di ingaggio sono soggette ad accordi di non divulgazione, i moderatori lavorano da cubicoli e call center, e il lavoro non è più fatto per amore di comunità, ma è solo un altro lavoro temporaneo a basso reddito come tutti gli altri, da Quezon City alla Silicon Valley.
Oltre a un piccolo gruppo di lavoratori filippini, l’autrice ha condotto lunghe interviste con diversi moderatori di contenuti commerciali che lavorano nella Silicon Valley. Il fatto che la ricerca l’abbia portata a visitare due dei siti di massimo lustro del capitale globale rende ancora più semplice marcare il netto contrasto tra questo fasto e le condizioni di lavoro in vigore in entrambe le zone. I moderatori di contenuti californiani sono in gran parte neolaureati che entrano nel settore della moderazione dei contenuti di Facebook e simili nella speranza che questo possa rappresentare un trampolino per posizioni altamente retribuite nel settore tecnologico. Quello che trovano, invece, è un posto nel deserto sempre più ampio dei lavori in outsourcing e a progetto caratteristici della «gig economy». Certo, i contenuti che rivedono portano il nome dei grandi marchi, ma a pagarli sono gli assegni delle agenzie interinali che li hanno assunti. Le posizioni che ricoprono sono a breve termine, e se la paga è migliore di quella di un barista di Starbucks, sono comunque molto più basse di quelle che si otterrebbero con un «vero lavoro» in una big tech, e inoltre mancano del tutto di quei benefici sindacali (malattia, ferie e assicurazione sanitaria) senza i quali non è fattibile lavorare in America.
Dall’altra parte del pianeta, i loro compatrioti filippini vivono in condizioni molto simili: lavorano per conto terzi e non direttamente per le aziende, con salari che un tempo erano relativamente alti nel mercato del lavoro locale, ma che dalla metà degli anni 2000 sono crollati a causa di una corsa globale al ribasso sul costo del lavoro. Ma mentre i moderatori americani parlano molto della difficoltà di affrontare ciò che vedono, i lavoratori filippini intervistati nel libro parlano più che altro dei compromessi richiesti dal lavoro outsourcing non vocale (tipo call-center): la retribuzione è drasticamente inferiore, ma almeno non si deve avere a che fare con americani arrabbiati che urlano al telefono.
L’analisi di Roberts chiarisce che i pericoli di questo tipo di lavoro superano ogni confine nazionale. Le condizioni dei moderatori di contenuti commerciali della multinazionale filippina dei centri commerciali Megaworld sono le stesse dei lavoratori della miriade di società americane senza nome della Silicon Valley: riassumendo, lavoro a progetto, stipendi bassi e nessun beneficio, a cui si aggiunge l’essere esposti tutti i giorni a violazioni estreme delle norme sociali sulla sessualità e sulla violenza e i danni psicologici che ne derivano. Nel libro, la questione dell’emotività e dell’impatto psicologico del lavoro di pulizia di internet emerge in particolare quando parla del contesto contesto americano, mentre i documenti raccolti nelle Filippine sono trattati sotto un altro angolo. Si parla meno di necessità di interventi di salute mentale sul posto di lavoro e più di come la concorrenza con l’India nella fornitura di manodopera temporanea a basso costo alle aziende statunitensi stia facendo aumentare la velocità e la quantità delle immagini e dei contenuti che i lavoratori di Quezon City devono moderare ogni giorno per essere competitivi. È un richiamo alla struttura ideologica e storico-sociale del sentimento: ciò che conta per questi lavoratori mentre navigano nel peggio di internet dipende dal contesto in cui ogni immagine richiama il passato.
Ciò che accomuna i lavoratori di San Francisco e di Manila è, da un lato, l’importanza del loro lavoro – Roberts chiarisce che Internet senza moderatori commerciali sarebbe impossibile da navigare – e, dall’altro, la sua totale disponibilità da parte dei giganti tecnologici globali. In tutto il libro, l’autrice chiama i moderatori di contenuti commerciali «professionisti», una scelta di designazione che non viene argomentata e sembra non corrispondere alle condizioni di lavoro descritte. Il termine «professionista», infatti, è forse adeguato per le 24 ore e le cuffie del monumento al Bpo del centro commerciale di Eastwood, non ai contratti temporanei e instabili e alle quote di lavoro sempre più elevate che effettivamente caratterizzano le posizioni descritte nel libro. Il termine si può leggere quasi come un desiderio: se questi lavori potessero professionalizzarsi, i lavoratori verrebbero rispettati, pagati bene e garantiti. Ma, naturalmente, non è così che si trasformano le condizioni di lavoro, per questo Roberts propone una serie di potenziali rimedi: trasparenza obbligatoria per legge sulle politiche di moderazione, cambiamenti nelle abitudini di consumo dei social media da parte degli utenti, consulenze di salute mentale per i moderatori e, infine, organizzazione dei lavoratori, cosa che è già in corso sia tra i tecnici di San Francisco e Seattle che tra i lavoratori in outsourcing di Manila.
La sfida, quindi, è immaginare un modo in cui questi lavoratori relegati dietro delle enormi quinte digitali, separati l’uno dall’altro da chilometri, da interfacce e da contratti di outsourcing, possano iniziare a lottare insieme contro tutti i Facebook del mondo.

Emiliy Drabinski lavora come coordinatrice alla biblioteca dell’Università Long Island a Brooklyn ed è segretaria della Federazione delle Facoltà della stessa Università. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.


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