Guardiamoci attorno. Il fatto che Salvini non sia più
ministro dell’Interno e che il governo 5 Stelle-Lega “non sia più” genera in sé
sollievo nelle persone che non danno per normali le disuguaglianze e la povertà
e pensano che la cura garantisce più sicurezza del rancore, che ritengono
possibili politiche di tutela e rigenerazione ambientale, che vedono nel riequilibrio
delle relazioni di genere una prospettiva indispensabile e giusta, e
nell’incontro delle diversità una fonte di ricchezza interiore e maggiori
possibilità di lenire le proprie ingiustizie.
Nello stesso tempo vediamo e ascoltiamo che il
consenso sociale della destra è tutto lì, nella pancia e nella testa delle
persone. L’adesione alle sue posizioni più rancorose e all’individuazione di un
nemico su cui scaricare colpe e responsabilità. La convinzione che quanto
avvenuto sia solo una “questione di poltrone”.
È un rancore che viene da lontano e tanto radicato da
non vedere che la deriva liberticida serviva a coprire l’incapacità negoziale
con l’Unione europea e la volontà di perseguire le politiche inique di sempre,
a cominciare dai regali ad abbienti ed evasori, e persino l’abbandono della
proclamata vocazione di attenzione ai territori. Ma così è stato ed è ancora.
Ci troveremmo dunque in una situazione ancor più grave
di prima se, al di là delle molte parole, il nuovo governo dovesse scegliere la
strada di “un’ordinata gestione degli affari”, scantonando da scelte radicali.
Dovesse pensare che il popolo italiano si raccolga ordinato attorno allo
“scampato pericolo”. E si permettesse di lasciare inattuati gli impegni per
contrastare le disuguaglianze e le dichiarazioni sul “pieno sviluppo della
persona”, “sull’equità intergenerazionale”, sul “Green New Deal”, sulla
“politica industriale”, sul “nuovo umanesimo”, “sull’effettività del diritto
allo studio”.
È nella povertà e nelle disuguaglianze che si è alimentata
tra le persone più fragili e ai margini la distanza dalla politica e da una
prospettiva di emancipazione, perché quelle persone si sono sentite
abbandonate, tradite, non riconosciute. Una sorta di esodo dalla cittadinanza,
con la rinuncia a ogni idea di responsabilità verso i beni comuni e la cosa
pubblica e la penosa rivalsa su chi sta ancor peggio di te. È allora priorità
assoluta riconnettere i diritti, in particolare quelli degli ultimi con quelli
dei penultimi e dei vulnerabili — si tratti di insegnanti, precari, operai,
artigiani, agricoltori o piccoli imprenditori — perché nella faglia della loro
separazione, orchestrata magistralmente da una politica spregiudicata, si sono
incistati rancore e rifiuto. Come germi di un’infezione aggressiva, sono
cresciute lì le spinte allo smantellamento dei diritti. Non è questo solo un
messaggio al nuovo governo e ai suoi ministri e ministre. Pensiamo debba essere
l’impegno rinnovato del mondo della cittadinanza attiva, del privato sociale,
della società in movimento, che nell’azione autonoma luogo per luogo e nella
pressione sociale sui governi possono svolgere un ruolo. Sarebbe una iattura
adagiarsi nel sollievo per la caduta del precedente governo, cadere nella
sindrome del governo amico, fare, come si dice, “sconti”.
Serve piuttosto chiedere segni robusti di una svolta
radicale. Segni che non vedremo più corpi lacerati e prigionieri in mezzo al
mare sacrificati in nome della propaganda e che sia massimo l’impegno per una
politica europea delle migrazioni. Che la progressività fiscale torni a essere
un metro delle decisioni. Che gli impegni puntuali assunti per il lavoro
trovino attuazione. Che essi siano accompagnati dall’introduzione di modelli
partecipativi di governo di impresa, capaci di ricomporre la filiera del lavoro
e dar voce alle comunità interessate alla sostenibilità sociale e ambientale.
Che venga data una missione strategica alle imprese pubbliche. Che siano
compiuti i passi per indirizzare la rivoluzione digitale verso la giustizia
sociale ‒ tema assente nelle parole del governo ‒ a cominciare dal rendere
accessibili in formato aperto tutte le banche dati pubbliche. Che le politiche
per le aree fragili del Paese rilancino e diano vita a strategie di area vasta
centrate sui Comuni e sulla partecipazione dei cittadini. Che ogni misura per
la transizione energetica sia prima di tutto a beneficio dei ceti più deboli.
Che l’amministrazione pubblica sia messa in condizione di fare questo e altro,
garantendole discrezionalità e cogliendo la straordinaria occasione del
rinnovamento di mezzo milione di pubblici dipendenti.
Come ha scritto Marco De Ponte, la cittadinanza attiva
è chiamata oggi a promuovere e organizzare mobilitazione, protesta esigente,
disegno e pratica di alternative radicalmente visionarie. Può e deve
raddoppiare l’autonomo impegno per diffondere e sperimentare le proprie
proposte. Può e deve sollecitare il governo a tenerne conto e chiamarlo a
motivare e discutere gli interventi che si appresta a realizzare, a costruire
un dialogo strutturato con la società che manca da anni.
Questo ‒ sentiamo ‒ deve essere l’impegno del Forum
Disuguaglianze e Diversità e delle altre alleanze sociali cresciute nel Paese.
È un impegno che può aiutare anche a costruire le basi e le intese, dentro e
fuori dei partiti esistenti, di una forma di organizzazione politica più adatta
ai tempi. Quella che migliaia di giovani e meno giovani, in ogni angolo del
paese, vanno discutendo e tentano di praticare in questa stagione.
L’articolo è stato pubblicato come
lettera al direttore su “La Repubblica” dell’11 settembre
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