La trama in
sintesi:
Il protagonista di Bartleby lo scrivano (racconto di Herman Melville del 1853) è appunto uno scrivano di nome Bartleby che un giorno, misteriosamente, smette di fare il proprio lavoro. Dopo anni di ligia esecuzione del proprio dovere si chiude in un «Preferirei di no» ripetuto e ostinato sino alla fine quando, condotto in prigione, si lascerà morire di inedia.
Il protagonista di Bartleby lo scrivano (racconto di Herman Melville del 1853) è appunto uno scrivano di nome Bartleby che un giorno, misteriosamente, smette di fare il proprio lavoro. Dopo anni di ligia esecuzione del proprio dovere si chiude in un «Preferirei di no» ripetuto e ostinato sino alla fine quando, condotto in prigione, si lascerà morire di inedia.
Estratto del
testo:
«Era con me, credo, da tre giorni quando, dovendo completare in gran premura una faccenduola, di punto in bianco [lo] chiamai, spiegando rapidamente quello che volevo da lui, cioè esaminare insieme a me un breve documento. Figuratevi la mia sorpresa, anzi la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo angolino, con voce singolarmente soave, ma ferma, Bartleby rispose: “Preferirei di no”. Rimasi per qualche tempo seduto, trasecolato, in assoluto silenzio. Ripetei la richiesta con quanta chiarezza mi era possibile, ma con altrettanta chiarezza giunse la risposta di prima: “Preferirei di no”».
«Era con me, credo, da tre giorni quando, dovendo completare in gran premura una faccenduola, di punto in bianco [lo] chiamai, spiegando rapidamente quello che volevo da lui, cioè esaminare insieme a me un breve documento. Figuratevi la mia sorpresa, anzi la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo angolino, con voce singolarmente soave, ma ferma, Bartleby rispose: “Preferirei di no”. Rimasi per qualche tempo seduto, trasecolato, in assoluto silenzio. Ripetei la richiesta con quanta chiarezza mi era possibile, ma con altrettanta chiarezza giunse la risposta di prima: “Preferirei di no”».
Giada: «Preferirei di no»: una frase
dentro cui sta la storia di un uomo che disobbedisce senza mai alzare la voce.
La possibilità, il desiderio, la scelta e, insieme, il rifiuto: un assurdo
logico che spariglia e disturba. Con un semplice condizionale e un monosillabo
Bartleby inizia la sua resistenza gentile contro la linearità, l’obbedienza, la
produttività che lo circondano.
Marica: Il «No» di Bartleby è netto ma non
aggressivo né polemico, e lo ripeterà identico ogni volta che verrà richiamato
ai suoi compiti lavorativi presso lo studio legale. Mi ricorda C’è chi
dice no di Vasco Rossi: in un mondo che ha perso il senso profondo di
sé, del tempo, dell’uomo («C’è qualcosa che non va in questo cielo. C’è
qualcuno che non sa più che ore sono […] C’è qualcuno che non sa più cos’è un
uomo»), c’è chi si ferma e dice «No, io non ci sono […], io non mi muovo».
Giada: Papa Ratzinger si è fermato nel
2013. Nel 2012 lo ha fatto Philip Roth, annunciando l’addio alla scrittura («A
dire la verità, ho finito») e due anni dopo anche il ritiro dalla scena
pubblica. Chi altro, fra i personaggi considerati emblematici del nostro tempo,
potrebbe scegliere la sottrazione, il rifiuto, il silenzio? Tornando a
Bartleby: con il suo «No» mette in crisi il sistema nel quale era inserito come
un dente nell’ingranaggio e questo «No», per il suo stesso essere
apparentemente senza ragioni, sconvolge la quotidianità circostante lo
scrivano. Con la sua quieta fermezza Bartleby elude gli schemi della corrente
visione di un mondo che si vuole privo di enigmi che non possano essere
sondati, di ombre che non si riesca in qualche modo a illuminare.
Marica: È una sottrazione al dato per
scontato, all’angusta logica della prassi, al micidiale ritornello
giustificazionista «del resto è così che gira il mondo». Certo, anche il
mistero di conseguenza. Non dare spiegazioni vuol dire resistere alla
prepotenza di chi, senza alcun diritto né reale intimità, vuole sapere solo per
controllare. Le domande inopportune fatte dai giornalisti che intervistano solo
per amor di tesi o lo sguardo indagatore del medico che riduce il paziente alla
patologia; le etichette di chi neanche fa queste professioni ma gioca a farle,
vestendo per esempio i panni, sempre più diffusi e a buon mercato, dello
psicologo nel rapportarsi con gli altri. Ordinare le persone in casi, caselle e
statistiche placa momentaneamente l’ansia: permette di restare sulla soglia, di
non rischiare quella vita che è – visto che citavi Roth – un «raro verificarsi
del previsto».
Giada: Appunto: l’imprevedibile enigma
Bartleby può diventare il simbolo di chi decide di uscire da certi meccanismi
che – in contesti e modi plurimi – alimentano il sistema sociale, dalle
dinamiche di un efficientismo che ci mette in riga, dal bisogno di “arrivare”,
di “riuscire”, di “esserci”. Potrebbe, per esempio, ispirare le decisioni
individuali o collettive dei tanti lavoratori variamente precari del nostro
tempo, intrappolati in una incertezza che riduce l’orizzonte al tirare avanti
giorno per giorno, degli elettori costretti a scegliere il male minore… Ma poi
chissà se un enigma può e deve essere trasformato in simbolo.
Marica: Bartleby si rifiuta di sostituire
vecchi idoli con nuovi idoli. Come quello del lavoro, che un tempo si chiamava
stacanovismo ed è poi stato riconosciuto come workaholism, la
dipendenza da un lavoro dai ritmi frenetici, che non risparmia vacanze,
weekend, spazi mentali. Un modello che è spesso considerato ancora oggi – forse
anche per ipercorrettismo rispetto al suo opposto – un valore da imitare, ma che
fomenta una concorrenza sleale ai danni della felicità e della salute della
persona e dei familiari. L’etica del lavoro travisata: l’etica del lavorare
tanto invece che del lavorare bene, o, ancor meglio, del ben lavorare come
parte integrante del ben-essere.
Giada: Dunque il «No» di Bartleby oggi
potrebbe essere la risposta alla richiesta della società – o alla necessità
dell’individuo – di essere immancabilmente presente, di essere visto dagli
altri, perché se nessuno ti vede tu non esisti. Possiamo (che Melville ci
perdoni) pensare allo scrivano come a un esempio di disobbedienza civile in un
mondo nel quale siamo invece spinti verso un continuo marketing su noi stessi,
nel quale la parola-chiave è: comunicazione. Un mondo in cui l’uomo da animale
sociale diventa social networker.
Marica: Esserci sempre e comunque, ma per
qualcosa di esterno ed estraneo a sé. Ma anche Bartleby, portando alle ultime
conseguenze il rifiuto, fino a morire, non cade in fondo nella medesima
trappola? Non fa che ribaltare la situazione, precipitando nell’estremo
opposto. Non dando più nessuna spiegazione, mai, a nessuno, ostinatamente,
finisce sì per riprendere il potere su di sé ma tanto da restarne imprigionato,
e quindi solo. Basta dire di no al mondo come è o occorre poi proporre un nuovo
sì? Dire no senza formulare un’alternativa strutturata è il metodo delle
opposizioni (penso ad alcune forze politiche e parapolitiche), valido finché si
tratta di contrastare l’assolutismo del potere ufficiale, ma che alla fine
resta dentro a quel gioco, se ne fa complice perché di quel gioco ha bisogno
per esistere. Non è insomma un metodo valido per costruire qualcosa, una terza
via che superi il dualismo potere-ribellione. Dare quindi la spiegazione del
perché no, e aggiungere al no un «si potrebbe però», diventa un atto d’amore; è
far sentire anche una voce differente: la propria. Implica certamente la
scelta, l’esporsi, in ultima analisi il coraggio. Esporre cioè all’altro da sé,
a ciò che ci è “straniero” il proprio io nudo. Con il pericolo di essere
disprezzati, derisi, incompresi. Ma avere coraggio vuol dire, letteralmente,
avere cuore. È l’unica via per un cambiamento sostanziale, mi pare.
Giada: Un cambiamento che, in questo
senso, io colgo proprio nelle parole di Bartleby, in quel condizionale che
viene prima del «No» e lascia la porta aperta. Il suo non acconsentire a ciò
cui viene ripetutamente e ottusamente messo di fronte allude forse a
possibilità ulteriori, impensate ma non per questo impensabili.
da qui
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