Il 13 Settembre 2019 è morto Giancarlo Paba. Il presidente della Società dei territorialisti e delle territorialiste ricorda con commozione uno dei suoi garanti fondatori.
“Considero la mia storia
personale come una storia più tranquilla rispetto a quella di altre figure,
meno dram- matica, forse persino più felice”: così esordiva Giancar- lo Paba in
una intervista collettiva sull’operaismo del 2001; e “Felicità e territorio” è
il titolo del magistrale saggio (che riproduco in coda a questo breve ricordo)
con cui Giancarlo volle contribuire al libro Il territorio bene comune che, nel 2012, accompagnò la fondazione
della SdT.
Credo che proprio questa sua
costante, metodica, serissima aspirazione alla felicità individuale e collet-
tiva – che mi turba ricordare, oggi che Giancarlo non c’è più – sia uno dei
suoi lasciti più importanti: in ogni occasione, pubblica e privata, nei suoi
discorsi ma anche nei suoi silenzi, Giancarlo ci ricordava che, se una cosa non
rende più felici le persone, allora non serve a nulla.
Con quella di Giancarlo la mia
storia e quelle di molti di noi si sono intrecciate per lungo tempo, sul piano
dell’amicizia come su quello politico, culturale e scientifico. All’inizio fu
l’avventura di Potere Ope- raio e la
successiva collaborazione alla rivista Quaderni
del Territorio, il primo tentativo scientifico, alimen- tato dalla comune
militanza operaista, di costruire un’analisi unitaria e multidisciplinare delle
trasforma- zioni del territorio come esito del conflitto fra capitale e lavoro;
seguì, dalla metà degli anni ’80, la co- struzione della “scuola
territorialista”, consolidata nel comune lavoro di ricerca/azione degli anni
’90, in particolare all’Università di Firenze, con la fondazione del LaPEI
(Laboratorio di progettazione eco- logica degli insediamenti). E, più avanti,
con la costruzione dei Corsi di studio in Pianificazione di Em- poli. Per
giungere, nelle ricadute sociali del nostro impegno, prima all’esperienza della
Rete del Nuovo Municipio, nel primo decennio del 2000; e infine, dal 2009, alla
fondazione, costruzione e gestione del- la Società dei Territorialisti e delle
Territorialiste, del cui Comitato dei Garanti prima, e del Comitato Scientifico
poi, Giancarlo ha fatto parte fino alla sua scomparsa.
In tutti questi diversi ruoli,
Giancarlo non ha mai smesso di essere se stesso: un profondo e tenace in-
tellettuale sardo, un uomo dalla straordinaria intelligenza, cultura e capacità
analitica, argomentativa e progettuale, che oggi lascia alla disciplina
urbanistica e all’intera comunità scientifica un’eredità teorica, tecnica e
propositiva difficile da circoscrivere; così come difficile da contenere in
formule preconfezio- nate era il suo modo di pensare, sempre critico (anche con
la comunità che condivideva), ellittico, capa- ce di intuizioni folgoranti e di
meticolosi e turbinanti richiami bibliografici e documentali, e in cui
l’argomentazione razionale si coniugava spesso con la scrittura poetica.
“Essere radicali”, diceva Marx,
“vuol dire prendere le cose alla radice; ma la radice, per l’uomo, è l’uomo
stesso”. Alla radice del contributo umano e scientifico di Giancarlo, due
tensioni: la prima, la sua instancabile spinta verso la radicalizzazione di
problemi e soluzioni, per fare ogni volta un altro pas- so in avanti, verso
orizzonti imprevedibili e affascinanti; la seconda, l’urgenza etica di una
verifica con- tinua delle idee attraverso la costruzione della partecipazione
sociale. Queste tensioni radicali rappresen- tano lo sfondo, concettuale e
pratico, della sua perenne ricerca della felicità.
Per questo contributo, del suo
lavoro e della sua persona, al di là di umane incomprensioni e dolorosi
distacchi, ringrazio profondamente Giancarlo, anche a nome della Società che
rappresento.
Alberto Magnaghi
Presidente della Società dei
territorialisti e delle territorialiste ONLUS
G.
Paba (2012), “Felicità e territorio. Benessere e qualità della vita nella città
e nell’ambiente”, in A. Magnaghi, a cura di, Il territorio bene comune, Firenze University Press.
Felicità e territorio.
Benessere e qualità della vita nella
città e nell’ambiente1
Giancarlo
Paba
Esiste il comandamento della felicità nel senso che,
quando uno sprazzo di felicità appare all’orizzonte di una o più persone, come
esperienza vissuta o semplicemente come una possibilità, la felicità comanda
sulle persone. Spesso quello che comanda è di essere annunciata e condivisa con
altri. E lo fa con una potenza che supera di gran lunga quella degli imperativi
morali. Credo perfino che certe rivoluzioni siano scoppiate così, solo perché
la felicità si è mostrata all’orizzonte (Luisa Muraro2).
Il calcolo del nostro Pnl tiene conto
dell’inquinamento atmosferico, della pubblicità delle sigarette e delle corse
in ambulanza per soccorrere i feriti sulle strade. Mette in conto i sistemi di
sicurezza che acquistiamo per proteggere le nostre case e il costo delle
prigioni in cui rinchiudiamo coloro i quali riescono a penetrarvi. Integra la
distruzione delle nostre foreste di sequoie e la loro sostituzione con
un’urbanizzazione tentacolare e caotica. Comprende la produzione del napalm,
delle armi nucleari e delle automobili
blindate della polizia destinate a reprimere i disordini nelle nostre città.
[...] In compenso il Pnl non tiene conto della salute dei nostri figli, della
qualità della loro istruzione, né dell’allegria dei loro giochi. Non misura la
bellezza della nostra poesia, [...] del nostro coraggio, della nostra saggezza
o della nostra cultura. [...] In breve, il Pnl misura tutto, tranne quello che
rende la vita degna di essere vissuta (Robert
Kennedy3).
1. Filosofia
civile, economia civile, felicità pubblica
Per Agostino,
nelle Confessioni, la felicità si
conserva nella memoria; per Nietzsche l’uomo può essere felice solo nell’oblio4.
Giordano Bruno afferma che l’ignoranza è la madre della felicità, mentre per
Wittgenstein solo la “vita di conoscenza” può rendere felici, “nonostante la
miseria del mondo”. Per Giacomo Leopardi “il vivente non può mai conseguire la
sua felicità”, il desiderio è infinito, quindi sempre insoddisfatto, in un modo
simile al “paradosso di Easterlin”5 o a una
1 Le definizioni di benessere e felicità attraversano le
regioni del sapere, incidono sulle regole di vita, condizionano gli stili di
governo, influenzano le pratiche di trasformazione delle città e dei territori.
Su questi temi la discussione è molto estesa tra gli stessi aderenti alla
Società dei territorialisti/e, i quali hanno costruito visioni e pratiche
progettuali che testimoniano un umore di fondo condiviso, ma anche una varietà
di nuances tra sensibilità diverse e
diversi orizzonti disciplinari. Poiché non è possibile costruire una teoria
unificata su argomenti così vasti, queste note si pongono un obiettivo più
modesto: definire i contorni di quell’umore condiviso, attraverso una rassegna
delle definizioni, delle domande aperte, degli orizzonti più problematici. Le
osservazioni contenute in questo scritto sono costruite sui contributi di
Sandro Balducci, Alessandro Falorni, Ezio Manzini, Camilla Perrone, Claudio
Saragosa, sugli scritti di Alberto Magnaghi e di altri aderenti alla scuola
territorialista, sugli studi che sono sembrati più utili o significativi.
2 L. Muraro, Non è
da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma, 2011, p.
32.
3 R. Kennedy, cit. in Z. Bauman, L’arte della vita, Laterza, Bari/Roma, 2010, p. 7.
4 Per un confronto vedi E. Borgna, La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Roma, 2011; Nietzsche ha
scritto: “Ma sia nella massima, sia nella minima, felicità, è sempre una cosa
sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare
o,
con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico” (p. 83).
5 “The relationship between happiness and income is
puzzling. At a point in time, those with more income are, on average, happier
than those with less. Over the life cycle, however, the average happiness of a
cohort remains constant despite substantial income growth” (R.A. Easterlin,
“Income and Happiness: Towards a Unified Theory”, The Economic Journal, 111, 2001, p. 1).
scalinata di
Escher: sali i gradini della felicità e ritorni ogni volta al punto di
partenza. Per molti musicisti, e alcuni studi di biomusicologia lo confermano,
la musica rende felici, e una jam session, secondo Eagleton, è il massimo della
felicità, “un piacere in sé”6. Anche per Keith Jarrett la musica
serve a scacciare l’infelicità, però trasferendola su chi ascolta: “If this
sadness could no flow out of me, it would kill me”7. Per Schubert,
al contrario, la musica è triste sempre, come la vita: “Esiste davvero della
musica allegra? Io non ne conosco”8: “Là, dove tu non sei, è la
felicità”, canta il viandante in un suo Lied famoso.
Le opinioni
sono divise soprattutto su un punto fondamentale: per molti la felicità è context-free, essa dipende da noi stessi,
magari dal nostro rapporto con il cosmo o con dio (e la felicità collettiva è
semplicemente la somma delle felicità individuali). Per Giordano Bruno, insieme
a molti altri, la felicità è invece context-specific:
essa dipende dal contesto, persino dalle qualità dei luoghi e “talvolta infatti
il mutamento di luogo si dimostra assai, se non addiritttura massimamente,
efficace [...] per la felicità sia della sorte, sia della vita; in un certo
luogo gli uomini sembrano sventurati, ingrati, infermi nell’animo e nel corpo,
mentre in un luogo diverso essi acquistano vigore sotto uno o più di tali
aspetti; questo effetto scaturisce dai diversi principi che presiedono a
ciascun luogo”9.
Non c’è quindi
niente di più insicuro del concetto di felicità: “È possibile fare sulla
felicità affermazioni certe ed esenti da obiezioni? Eccone una: la felicità è
una buona cosa, desiderabile e da tenere
in gran conto. E un’altra: è meglio essere felici che infelici. Ma questi due
pleonasmi sono più o meno tutto ciò
che si può dire della felicità in modo sicuro e con fondamento. Ogni altra
affermazione contenente il termine ‘felicità’ susciterà sicuramente controversie”10.
Invocare the pursuit of happiness, nella
costituzione degli Stati Uniti o nelle fiction televisive, nelle utopie
urbanistiche o nella pubblicità delle gated
communities11, nei trattati di filosofia o nei romanzi di Harmony, può significare molte cose
differenti e contrastanti (e proprio nel campo dell’urbanistica, dietro
l’obbietivo del perseguimento della felicità si sono nascoste realizzazioni
molto infelici, in base a una valutazione più
ragionata).
Sulle
condizioni di felicità personale e di benessere individuale sarà quindi
necessario restare prudenti e lasciare che ciascuno trovi la sua strada.
Viviamo peraltro in un periodo nel quale sembra esistere l’obbligo di essere
felici (“La coercizione a cercare la felicità” è per Bauman l’essenza del
“progetto moderno”) e alla figura del facilitator,
tipica della pratiche partecipative, si è affiancata la nuova professione di felicitator, di costruttore di felicità,
happiness enabler, tecnico del
benessere individuale e collettivo12.
Non seguiremo queste nuove mode e nei punti che
seguono l’attenzione si soffermerà sulla felicità
pubblica e sulle condizioni di benessere dipendenti dal contesto (città,
ambiente, luoghi comuni), restando a ciascuno di noi di immaginare in quale
misura questa particolare forma di “felicità
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6 T. Eagleton T., Il
senso della vita. Un’introduzione filosofica, Ponte alle Grazie, Milano,
2011, p. 136.
7 Dal commento di Robert Bly nell’opuscolo del Vienna Concert, ECM, 1991. Analogamente,
in Architettura e felicità, il libro
di Alain De Botton (Guanda, Milano 2006), l’architettura è animata “dal
desiderio di tener lontana la tristezza”,
mentre per Christopher Alexander sadness e happiness sono
aspetti intrecciati dell’architettura: “I try to make the building so that it
carries my eternal sadness. It comes, as nearly I can in a building, to the
point of tears. […] This sadness of tears, when I reach it, is also joy. The
sky over the Bay Bridge, the lights of the cars, the rain, the existence on
this earth. What makes it sad is that it comes closest, in the physical
concrete beams and columns and walls, as close as possible, to the fact of my
existence on this earth. I reminds me of it, it makes me to take part in it. Se
when it happens, it is also a kind of joy, a happiness” (C. Alexander, The Nature of Order: An Essay on the Art of
Building and the Nature of the Universe, Book 4 - The Luminous Ground ,
Center for Environmental Structure, p. 246).
8 H.J. Frölich H.J., Franz
Schubert, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1990, p. 131.
9 Giordano Bruno, De
rerum principiis et elementis et causis, 1589-90 (la citazione è tratta
dall’edizione a cura di Nicoletta Tirinnanzi, Procaccini, Napoli, 1995, p.
117). Per la distinzione tra felicità context-free
e felicità context-
specific vedi: V. Borooah, “What Makes People Happy? Some
Evidence from Northern Ireland”, Journal
of Happiness Studies, 7, 4, 2006, 427-465.
10 Z. Bauman, L’arte
della vita, Laterza, Bari/Roma, 2010, p. 35.
11 Uno dei libri più noti dedicati alle gated communities si intitola proprio
così: S. Low, Behind the Gates:
Life, Security, and the Pursuit of
Happiness in Fortress America, Routledge, London/New York, 2003.
12 L’ultimo numero dell’International Journal of Wellbeing (1, 2, 2011), curato da John
Helliwell e altri, si intitola appunto Felicitators
e disegna i contorni di questa nuova professione.
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territoriale”
contribuisca a quella della nostra esistenza. Prima di entrare nel cuore del
problema è tuttavia importante ricordare una tradizione di pensiero,
specificamente italiana, di ‘filosofia civile’ e di ‘economia pubblica’ che
costituisce una cornice ancora attuale dei concetti di felicità e di benessere
collettivo. Un “pensiero vitale”, come lo ha definito Roberto Esposito nel
ricostruire i caratteri della “differenza italiana” nella tradizione filosofica
occidentale. La filosofia italiana,
nel suo basso continuo, è appunto “filosofia civile”, e in molti casi
biopolitica, geofilosofia, spesso caratterizzata da “una qualche connessione
tra filosofia e territorio, intendendo per quest’ultimo non tanto uno spazio
geograficamente determinato, ma piuttosto un insieme di caratteristiche ambientali, linguistiche, tonali che
rimandano a una modalità specifica e inconfondibile rispetto ad altri stili di pensiero”13.
Questa
“resistenza del vitale” e “della comunità, come apertura della soggettività
alla propria alterità”, questo riferimento nella nostra tradizione di pensiero
“da un lato alla falda biologica della vita e dall’altro all’ordine mobile
della storia”, si riflette anche in una particolare visione dell’economia come
“scienza della felicità pubblica” e come “economia civile”, che si è sviluppata
in Italia a partire dal Settecento: “La felicità ha una lunga tradizione in
economia. L’economia moderna nasce nei paesi mediterranei come scienza della felicità pubblica, dove l’aggettivo pubblica metteva l’accento anche sulla
natura sociale della felicità”14.
Dal “discorso sulla felicità” di Pietro Verri alle lezioni di “economia civile”
di Antonio Genovesi, alla “pubblica felicità” di Giuseppe Palmieri e di
Ludovico Muratori, è proprio in questa tradizione che è possibile ritrovare le
radici di una visione alternativa dell’economia e del rapporto tra economia,
felicità, benessere collettivo, comunità, territorio (la valorizzazione di
questa tradizione di pensiero è dovuta in particolare ad alcuni economisti italiani
di cultura cattolica come Luigino Bruni, Pier Luigi Sacco, Stefano Zamagni e
Pier Luigi Porta15).
A conclusione
di questo punto è infine utile ricordare uno scritto di Carlo Cattaneo (Del pensiero come principio d’economia
publica, 1859-61), che contiene una visione della ricchezza ancora di
grande attualità, non appiattita sul capitale e sul mondo delle merci (anche se
realisticamente consapevole della loro importanza). Cattaneo distingue tra fisica della ricchezza e psicologia della ricchezza. Alla prima
appartengono la natura, il lavoro e il capitale; alla seconda appartengono
l’intelligenza e la volontà (“fenomeni, che svolgendosi nell’uomo interiore,
soggiaciono alle leggi proprie del pensiero”). La ricchezza complessiva è
quindi l’insieme, forse possiamo dire il gioco, di queste dimensioni, e in
questo gioco un ruolo fondamentale assumono la natura e quella “forza sopra
tutte le altre poderosa e impermutabile” che è costituita dall’intelligenza
(oggi la chiameremmo forse ‘conoscenza interattiva”) e dalla volontà (come
capacità di azione collettiva e di orientamento delle politiche economiche e territoriali).
2. La
felicità è stocastica o contestuale?
Felicità e
benessere sono concetti di uso comune, ma oggi sono oggetto di ricerche
specializzate e sofisticate, in particolare nelle scienze cognitive, nella
psicologia sociale, nell’economia e nelle teorie della decisione, nelle scienze
della politica e dell’amministrazione.
La discussione
si è sviluppata fortemente in questi anni nella letteratura internazionale, con
approfondimenti teorici e sperimentali, e la crescita e la diffusione di libri
e riviste dedicate16. Uno dei punti di partenza di queste
riflessioni è costituito dagli studi di Easterlin (il noto “paradosso
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13 R. Esposito, Pensiero
vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino,
2010, p. 14.
14 L. Bruni, “L’economia e
i paradossi della felicità”, in P. Sacco, S. Zamagni, a cura di, Complessità relazionale e comportamento
economico, verso un nuovo paradigma di razionalità, Il Mulino, Bologna,
2002.
15 L. Bruni, S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, il Mulino,
Bologna, 2004.
16 Le riviste più importanti sono Journal of Happiness Studies, Health
and Well-Being, International Journal
of Wellbeing, nei cui editorial board figurano tra gli altri Richard
Easterlin, Ruut Veenhoven, Ed Diener, Martin Seligman, Bruno Frey, John
Helliwell. Ruut Veenhoven dirige inoltre il World
Database of Happiness, una straordinaria fonte di dati e di informazioni su
felicità e benessere (www1.eur.nl/fsw/happiness/).
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della
felicità”, secondo il quale la percezione soggettiva della felicità è
influenzata dagli incrementi/decrementi di reddito solo per un periodo breve,
per riportarsi rapidamente al livello precedente), e da quelli di Tversky e
Kahneman, psicologi (ma il secondo ha vinto il Nobel per l’economia nel 2002),
che hanno posto i fondamenti di una Hedonic
Psychology, un campo interdisciplinare di ricerche che cerca di indagare e
misurare le condizioni di felicità e benessere delle persone e delle comunità17.
I risultati di
questi studi sono naturalmente assai controversi e spesso contradditori. Lykken
e Tellegen, a un estremo delle ricerche, sono drastici: la felicità è un
fenomeno stocastico18. Le differenze di condizione socio-economica e
ambientale spiegherebbero solo il 3 per cento delle variazioni nella percezione
soggettiva di benessere, mentre i soli fattori genetici sarebbero associati al
50 per cento delle variazioni rilevate. Insomma nasciamo felici o infelici, e
le cose del mondo, materiali e spirituali, possono solo modificare
marginalmente questa condizione originaria, questo aspetto innato del
carattere. La felicità individuale, in questa visione estrema, è un destino non
un traguardo (e se la felicità collettiva è considerata come la semplice
aggregazione delle felicità individuali, anche i popoli e le città sarebbero felici
o infelici per disposizione della natura).
Molti altri
studi sottolineano invece il social
context of well-being, il ruolo che il contesto assume nella percezione di
benessere e felicità, l’influenza dei fattori economici e sociali, e anche di
alcuni aspetti legati alle condizioni urbane e territoriali: le relazioni di
prossimità, l’organizzazione dello spazio pubblico, la partecipazione dei
cittadini alla vita della comunità, le diverse articolazioni del capitale
sociale e relazionale19. Gli stessi fattori individuali che incidono
sulla percezione di benessere (per esempio la salute fisica e psicologica)
possono essere fatti risalire al contesto urbano e territoriale (al neighborhood context of well-being20).
In altri studi infine viene messo in evidenza il ruolo svolto dalla natura e
dall’ambiente: Haybron ha studiato per esempio gli effetti di benessere del
Central Park di New York sottolineando la dimensione collettiva del parco e
della sensazione di felicità che ne deriva: “places like Central Park need
people to make them happen […]. To a considerable degree, we pursue happiness
together, and for each other”21.
La relazione
tra felicità e contesto (più in generale tra benessere e territorio) è
naturalmente fondamentale nella visione territorialista. In alcuni contributi
di Ezio Manzini questa relazione è al centro dei ragionamenti, ed è quindi
utile riportarne con qualche ampiezza lo sviluppo delle argomentazioni22.
Manzini
ricostruisce l’evoluzione dell’idea di benessere nelle società moderne
articolandola in tre fasi alle quali corrispondono tre concezioni/visioni tra
loro assai diverse: il benessere basato sui prodotti (product-based well-being); il benessere basato sull’accesso (access-based well-being) e infine il benessere basato sul contesto (context-based
well-being). La prima visione (benessere
17 R.A. Easterlin, “Does Economic Growth Improve the
Human Lot?”, in P.A. David, M.W. Reder, eds., Nations and Households in Economic Growth: Essays in Honor of Moses
Abramovitz, Academic Press, New York, 1974. Vedi inoltre le fondamentali
antologie: D. Kahneman, E. Diener, N. Schwarz N., eds., Well-Being : The Foundations of Hedonic Psychology, Russell Sage
Foundation, New York, 1999; D. Kahneman, A. Tversky, eds., Choices, Values, and Frames, Cambridge University Press,
Cambridge/New York, 2000.
18 D. Lykken, A. Tellegen, “Happiness is a Stochastic
Phenomenon”, Psychological Science,
7, 4, 1996, 186-189.
19 J.F. Helliwell, R.D. Putnam, “The Social Context of
Well-Being”, Philosophical Transactions
of The Royal Society B, 359, 2004, 1435-1446.
20 R.J. Sampson, “The Neighborhood Context of
Well-Being”, Perspectives in Biology and
Medicine, 46, 3, 2003, 53- 64.
21 D.M. Haybron, “Central Park: Nature, Context, and
Human Wellbeing”, International Journal
of Wellbeing, 1, 2, 2011, 235-254. Più in generale
sulla relazione tra felicità e ambiente naturale
vedi E.K. Nisbet,
J.M. Zelenski, S.A.
Murphy, “Happiness is in our Nature: Exploring
Nature Relatedness as a Contributor to Subjective Well-Being”,
Journal of Happiness Studies, 12, 2011, 303-322.
22 E. Manzini, Idee
di benessere (e idee sul benessere). Immagini del quotidiano nella transizione
verso la sostenibilità,
s.d.
(dal sito della SdT, www.societadeiterritorialisti.it). Le citazioni riportate
più avanti sono tratte da questo contributo.
basato sui
prodotti) è legata alla dimensione tradizionale del capitalismo industriale e
allo sviluppo del consumo di massa:
Nel quadro di questa visione, che possiamo definire
come il benessere basato sui prodotti, l’idea
che ha teso a diventare dominante è quella che le scelte di vita tendano a
ridursi a scelte di acquisto e che, di conseguenza, la libertà di scegliere
tenda a coincidere con la libertà di comprare. Metaforicamente, l’immagine che
meglio esprime questa visione è quella per cui le condizioni ideali di
benessere per un soggetto è quella di “essere e di fare” ciò che si può essere
e fare in uno shopping mall: essere
un cliente munito di denaro (o meglio di una inestinguibile carta di credito)
di fronte alla più ampia scelta di merci e di servizi, e poter scegliere cosa
comprare nella massima libertà.
La seconda
visione (benessere basato sull’accesso) è quella che si è consolidata negli
ultimi decenni, nella fase post-industriale dello sviluppo capitalistico:
Negli ultimi anni, almeno per ciò che riguarda le
società ad industrializzazione più matura (ma anche negli strati più
cosmopoliti di ogni altra società globalizzata), una nuova idea di benessere
sta emergendo e si sta diffondendo. Quest’idea di benessere, che deve essere
messa in relazione con la contemporanea evoluzione dell’economia verso
un’economia dei servizi e della conoscenza, può essere sintetizzata dagli
slogan “dai prodotti materiali a quelli immateriali”, “dal consumo
all’esperienza” e “ dal possesso all’accesso”. Nel quadro di questa nuova
economia e delle idee e dei comportamenti che ne derivano, la posizione
centrale dei prodotti materiali nella definizione dell’idea di benessere tende
a diventare obsoleta: il benessere non
appare più legato al possesso ed al consumo di un “paniere” di beni materiali,
ma piuttosto alla disponibilità di accesso ad una serie di servizi, esperienze
e beni intangibili.
La terza
visione, proposta da Manzini, è fondata su una visione alternativa di
“benessere basato sul contesto”, e comporta una profonda discontinuità di
paradigma e di comportamenti sociali rispetto ai modelli precedenti:
In sintesi, il tema progettuale da affrontare (dalla
società nel suo complesso) è il seguente: come andare verso una società in cui
le aspettative di benessere siano meno legate all’acquisizione di nuovi
artefatti e più capaci di riconoscere ed apprezzare le qualità dell’ambiente
fisico e sociale in cui si vive? Posta in questo modo la domanda, emerge che
l’oggetto dell’osservazione (e dell’azione) nella ricerca del benessere diventa
un’entità complessa, che comprende le due componenti ora indicate (i nuovi
artefatti e l’ambiente) e che può essere definita come il contesto di vita. E dunque è proprio il contesto di vita e le sue
qualità che, a mio parere, dovrebbe diventare il riferimento nella ricerca di
nuove forme di benessere. Il benessere sostenibile dovrebbe insomma proporsi
come un benessere basato sul contesto. Cioè
un benessere costruito tenendo conto dell’intera scena in cui ha luogo la vita
della persone.
Il
ragionamento di Manzini parte dalla prospettiva del design, da un’attenzione ai
prodotti e ai servizi, ma si allarga a una considerazione dei processi
relazionali e dell’ecologia territoriale23.
Manzini immagina la nuova idea di benessere (e di felicità pubblica) non come
un quieto riposo nella tradizione, ma come un campo di trasformazione e di
innovazione:
È chiaro che l’indicare una direzione implica,
necessariamente, una forte componente soggettiva e progettuale. Ma, se si vuole
davvero innescare un processo positivo di crescita culturale e sociale, il
mettere in campo questa soggettività e questa progettualità più che un rischio
da correre è un’assoluta necessità. La difficoltà concettuale (e progettuale)
che questa assunzione di responsabilità comporta è che essa ci pone in una
condizione in qualche modo paradossale: vogliamo andare verso un mondo in cui
le aspettative di benessere siano meno legate all’esistenza di nuovi artefatti
e più capaci di riconoscere e valorizzare le qualità del contesto, ma l’unica
maniera che abbiamo per farlo è quella di avanzare, a nostra volta, delle nuove
proposte: delle soluzioni innovative, la cui innovatività sia tale da innescare
nuove idee di benessere e sul benessere.
La concezione
di benessere qui delineata è quindi dinamica, attiva: non il recupero di una
felicità perduta, ma il cammino verso un nuovo orizzonte di benessere
collettivo che richiede una grande energia di trasformazione, di azioni diffuse
e molecolari, in un intreccio tra ecologia sociale
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23 E. Manzini, “Design per un’ecologia territoriale”, Contesti. Città, territori, progetti, 2,
2010, 77-81.
(rivoluzione
ecologica degli stili di vita) e ecologia territoriale. È necessario quindi ri- contestualizzare (nel linguaggio
magnaghiano si potrebbe difre ri-territorializzare)
l’idea di benessere, immaginare un processo di trasformazione profonda delle
relazioni tra benessere e territorio, muovendosi, secondo Manzini, lungo le
seguenti direzioni:
-
contestualizzare
le proposte progettuali e valorizzare l’esistente (prima di realizzare qualcosa
di nuovo, utilizzare quello che già c’è);
-
avvicinare le
persone e restringere i circuiti materiali (inteso come attualizzazione del
concetto di ‘locale’);
-
condividere e
socializzare (inteso come attualizzazione del concetto di ‘comunità’);
-
aumentare l’intelligenza sistemica (inteso come attualizzazione dei concetti di partecipazione,
cura, convivialità, friendliness);
-
creare isole di
lentezza (inteso come attualizzazione del tempo contemplativo).
3. Misurare
cosa (e come)?
La citazione
di Bob Kennedy all’inizio di questo scritto chiude la questione
sull’adeguatezza del prodotto nazionale lordo come misura della ricchezza e del
benessere di una comunità. Ne riporto la conclusione: “il Pnl misura tutto,
tranne quello che rende la vita degna di essere vissuta”.
Nessuno ormai
difende in modo acritico il Pnl, neppure quelli che si affannano a
incrementarlo, ma che cosa misurare in alternativa (se è necessario ‘misurare’
qualcosa)? Il prodotto interno lordo misura il valore delle merci prodotte in
un anno, di tutte le merci, comprese le merci “violente, sbagliate, oscene”, ha
scritto Giorgio Nebbia24. Nebbia propone di istituire un nuovo
rapporto tra contabilità fisica e contabilità economica, in grado di tenere
conto dei fattori naturali, dei flussi di materia e di energia. In questo modo
sarebbe possibile ridefinire il valore delle merci: “valgono di più le merci e i servizi che, a parità di utilità
economica, richiedono meno materie
prime, meno energia, durano più a lungo, generano meno scorie, comportano minori inquinamenti e minore usura delle risorse naturali”25
(sullo sfondo le riflessioni di Georgescu-Roegen, rilette da Bonaiuti).
La storia
recente è quindi piena di tentativi di misurazione alternativa del benessere
economico e dello sviluppo: Hicksian income (Maximum Sustainable Consumption),
MEW (Measure of Economic Welfare), HDI (Human Development Index), e altri
ancora. Qualcuno ha proposto persino di sostituire il prodotto nazionale lordo
con il Gross National Happiness, come
misura complessiva della felicità di un paese26. Daly e Cobb, anni
fa, hanno elaborato un più utile sistema di misura chiamato ISEW (Index of
Sustainable Economic Welfare27), migliorato nel corso del tempo.
Esso tiene conto del “capitale naturale” e di molti fattori che sfuggono al
calcolo economico tradizionale: distribuzione ineguale del reddito, lavoro
domestico non pagato, spese per istruzione e salute, costi della pendolarità e degli incidenti
stradali, costi dell’inquinamento (acqua, aria,
24 Secondo Nebbia sono (marxianamente) violente tutte le
merci; sono sbagliate quelle che danneggiano le persone e l’ambiente; sono
oscene le armi, “che assommano tutte le ‘virtù’ delle merci capitalistiche: il
massimo profitto per l’imprenditore, la necessità di continuo ricambio, la
massima efficienza come effetto mortale sugli esseri umani, sui beni materiali
e sui beni della natura” (G. Nebbia, Le
merci e i valori. Per una critica ecologica del capitalismo, Jaca Book,
Milano, 2002, p. 27).
25 Manzini mette in evidenza i rischi di un rebound effect, se ci si limita a una
semplice diminuzione dell’impatto ambientale delle singole merci: “Ci si
accorge così che quando i prodotti diventano leggeri, piccoli, efficienti ed
economici tendono a cambiare di statuto e a
proliferare, evolvendo verso forme di consumo più ampio e veloce, avvicinandosi
ai cicli della moda”. Lo stile di vita acquista un ruolo fondamentale per
ridurre l’impatto ambientale e sociale dello sviluppo. Per una decostruzione
radicale del rapporto tra necessità, merci e bisogni (questi ultimi intesi come
costruzione/costrizione sociale), resta fondamentale il contributo di I.
Illich, “La storia dei bisogni”, in Id., La
perdita dei sensi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2009.
26 A.C. Brooks, Gross
National Happiness, Basic Books, New York, 2008.
27 H.E. Daly, J.B. Cobb, For the Common Good, Beacon Press, Boston, 1994; vedi l’appendice
pp. 443-507.
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rumore),
perdita di aree umide e di terreni agricoli, distruzione di risorse non rinnovabili,
danni ambientali a lungo a termine, e altri fattori ancora28.
La
proliferazione degli indici e dei sistemi di misura sottolinea l’insufficienza
dei sistemi tradizionali di calcolo, ma rimane prigioniera dell’idea di una
contabilità economica del benessere, pur estendendo il calcolo dei costi e dei
benefici a un numero crescente di fattori trascurati.
Nella visione
territorialista è invece necessario uscire dal mondo delle merci e da una
concezione del territorio come merce (o supporto, o strumento), per entrare in
un mondo di produzione delle relazioni a mezzo di relazioni, e in una
concezione del territorio come bene comune. La liberazione dalla dittatura
delle merci consente di immaginare un sentiero alternativo di trasformazione
sociale chiamato appunto di decrescita felice, intesa come disconnessione
radicale tra felicità e “economie di comunione” da una parte e forme
tradizionali della crescita e dello sviluppo dall’altra parte29.
Più importanti
per un punto di vista territorialista sono i molti tentativi di misurare gli
effetti della crescita, e più in generale dell’azione umana, sull’ambiente e
sul territorio: dalla carrying capacity all’urban ecological footprint, dall’environmental space (o ecospace, o environmental utilization space) ai concetti di resilience, emergy, exergy30,
e altri ancora. Si diffondono contabilità e bilanci alternativi: il “bilancio
del carbonio”, o il “bilancio entropico” – che misura “gli effetti di produzione entropica
generati dai flussi
di materia-energia-informazione
fra ambiente e insediamento”31. E magari, con riferimento alla
necessità di mutamento degli stili di vita, il “bilancio di giustizia” proposto
dai cosiddetti “bilancisti” (e dai Beati costruttori di pace): “modificare
secondo giustizia la struttura dei propri consumi e l’utilizzo dei propri
risparmi, monitorare il proprio consumo per cambiare l’economia dalle piccole
cose, dai gesti quotidiani”. O ancora il “bilancio partecipativo”, per una
redistribuzione sociale e territoriale delle risorse, o il “bilancio di genere”
alla ricerca di un equilibrio maggiore nella distribuzione della spesa pubblica
tra uomini e donne, o il “bilancio intergenerazionale” per una maggiore equità
tra le diverse età della vita, o il “bilancio dei bambini” per una
rendicontazione delle politiche destinate ai minori (utilizzato per esempio dal
comune di Venezia). E in una discussione su quali siano i parametri più
efficaci per misurare la qualità della vita urbana è stata proposta una happiness per hectare, una misura della
felicità per unità di superficie legata al rapporto tra densità abitativa e
servizi urbani32. Analizzando in profondità le diverse incarnazioni
della carrying capacity e la
proliferazione di sistemi di misura si arriva alla consapevolezza che ciò di
cui abbiamo bisogno è qualcosa di più di un semplice set di indicatori; scrive
Camilla Perrone “La relatività degli indicatori (e le diverse accezioni del
concetto di limiting factor), la
soggettività e la molteplicità delle prospettive sulle interpretazioni dei limiti, evidenziano come in realtà
quello di carrying capacity
sia un concetto
28 In Italia l’ISEW è stato ristudiato sotto l’impulso di
Enzo Tiezzi, come strumento di valutazione e di orientamento delle politiche,
nelle province di Modena e Rimini (F.M. Pulselli, S. Bastianoni, N.
Marchettini, E. Tiezzi, La soglia della
sostenibilità, Donzelli, Roma, 2011).
29 M. Bonaiuti, a cura di, Obiettivo decrescita, EMI, Bologna, 2004; S. Latouche, Come si esce dalla società dei
consumi.
Corsi e percorsi della decrescita,
Bollati Boringhieri, Torino, 2011; P. Cacciari, a cura di, La società dei beni comuni. Un’antologia, Ediesse, Roma, 2011.
30 Environmental
space: “la porzione dell’ambiente
naturale che può, in un dato momento storico, essere utilizzata [...] senza
determinare danni irreversibili agli ecosistemi, in termini di stock o di sink”; Resilience:
“capacità di un sistema di adattarsi al cambiamento, mantenendo la propria
struttura e la propria funzionalità”; Emergy:
“la quantità e la qualità di energia necessaria per ottenere un dato prodotto o
ottenere un dato flusso di energia in un processo, poi ricondotta a
energia solare equivalente”; Exergy; “quantità di energia ottenibile da un dato prodotto o
sistema e che, come tale, può essere posta in relazione, in termini di
efficienza, alla relativa energia” (S. Pareglio, “Dottrina economica e
sostenibilità ambientale: appunti per il governo del territorio”, in C.
Perrone, I. Zetti, a cura di, Il valore
della terra, Angeli, Milano, 2010, pp. 230-231).
31 C. Saragosa, L’insediamento
umano. Ecologia e sostenibilità, Donzelli, Roma, p. 159.
32 J.-C. Kucharek, “Happiness per Hectare”, RIBA Journal, May, 2006. Sui limiti
della densità come misura della felicità o qualità della vita urbana, vedi S.
James, The Great Density Debate (www.rudinet./pages/16806).
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flessibile e
plurale che stempera il senso del limite e lo riconduce alla complessità della sostenibilità integrata”33.
Scrive ancora
su questo punto Magnaghi: “In questo rovesciamento dell’approccio la potenziale
offerta patrimoniale del territorio, condensata nei suoi caratteri statutari,
può assumere il ruolo di uno strumento di
valutazione polivalente (quali-quantitativo, inclusivo degli aspetti
morfotipologici e paesaggistici) che potrebbe far evolvere il concetto di
capacità di carico verso quello di valutazioni per la valorizzazione
patrimoniale”34. Occorre quindi passare dalla misura del capitale
(anche del “capitale naturale”) alla costruzione e valutazione qualitativa del
patrimonio, “dalla carrying capacity alla
sfida dei beni comuni”, a una visione e a una pratica del territorio come
patrimonio e bene collettivo, a un modello di “pianificazione a misura di
territorio” 35.
Un sistema di
“valutazione polivalente, inclusiva degli aspetti morfotipologici e
paesaggistici”, come quello indicato da Magnaghi36, richiede quindi
lo sviluppo di modelli di valutazione della qualità dei luoghi e dei territori
più flessibili e più ‘caldi’ di quelli fin qui analizzati. Christopher
Alexander affermava che la qualità di un luogo non è definibile in modo
meccanico, e che nelle configurazioni spaziali dobbiamo ricercare una quality without a name37 (e
in fondo i pattern di Alexander sono molto simili agli schemi morfo-tipologici
applicati nella scuola territorialista di Empoli). La “qualità senza nome” non
è priva di caratteristiche percepibili e interpretabili (e quindi anche
progettabili). Alexander elenca alcuni di questi caratteri: un luogo possiede
una qualità senza nome quando è “alive, whole, comfortable, free, exact,
egoless, eternal” (e la ricerca di ciascuno di questi aspetti richiede
un’indagine accurata e sottile). Soprattutto, i luoghi che hanno una qualità
senza nome posseggono una caratteristica che credo sia fondamentale nella
visione territorialista e che Alexander chiama generativeness: la capacità dei luoghi e dei territori di
riprodursi (mantenendosi vivi, interi, confortevoli, liberi, esatti, altruisti,
eterni) in base a un codice di trasformazione condiviso.
4. Valori
di esistenza (e simili)
L’incantevole paesaggio che ho visto questa mattina è
senza dubbio costituito da venti o trenta fattorie. Miller possiede questo
campo, Locke quell’altro e Manning il bosco più in là. Nessuno di loro, però,
possiede il paesaggio. Vi è una
proprietà all’orizzonte che non appartiene a nessuno, se non a colui il cui
occhio è capace di assemblare tutte le parti, cioè il poeta. È questa la parte
migliore delle fattorie di quegli uomini, a cui tuttavia nessun atto di
proprietà dà diritto (Ralph Waldo Emerson, Nature, 1936).
In un famoso
articolo sugli ecosystem services (i
benefici diretti e indiretti della semplice esistenza dei sistemi naturali),
Robert Costanza e il suo gruppo di ricerca hanno elaborato una stima del
contributo che i sistemi ecologici e il capitale naturale forniscono
all’umanità, servizi il cui valore non è calcolato all’interno dell’economia di
mercato. Costanza ha preso in considerazione 17 categorie di ecosystem services per 16 biomi
terrestri. Il valore stimato degli ecosystem
services per
33 C. Perrone, “Misura, qualità, sostenibilità. Appunti
per una pianificazione a misura di territorio”, in C. Perrone, I. Zetti, a cura
di, Il valore della terra. Teoria e
applicazioni per il dimensionamento della pianificazione territoriale,
Angeli, Milano, 2010.
34 A. Magnaghi, “Ecosistema territoriale e bioregione
urbana”, in C. Perrone, I. Zetti, a cura di, cit., p. 316.
35 C. Perrone, “Misura, qualità, sostenibilità. Appunti
per una pianificazione a misura di territorio”, cit., p. 194; C. Perrone, Per una pianificazione a misura di
territorio. Regole insediative, beni comuni e pratiche interattive, Firenze
University Press, Firenze, 2011.
36 A. Magnaghi, “Ecosistema territoriale e bioregione
urbana”, cit. p. 316.
37 C. Alexander, The
Timeless Way of Building, Oxford University Press, New York, 1979; C.
Alexander et al., A Pattern Language:
Town, Buildings, Construction, Oxford University Press, New York, 1977.
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l’intera
biosfera è stato di 33 trilioni di dollari nel 1994, mentre il valore globale
del prodotto lordo era per lo stesso anno di 18 trilioni di dollari38.
Si tratta di
una cifra impressionante, naturalmente, e tuttavia forse inutile. Serve per
capire come il benessere non derivi dalla disponibilità delle merci, come la
nostra vita dipenda da una molteplicità di legami diretti e spontanei con la
natura e l’ambiente, serve a capire l’importanza dei valori di utilità della
biosfera. Serve per rivelare il valore nascosto delle cose del mondo, per
calcolare il valore della “proprietà all’orizzonte che non appartiene a
nessuno”, per riprendere la citazione di Emerson.
Le condizioni
di benessere e i sentimenti di soddisfazione possono tuttavia essere legati non
soltanto ai valori d’uso trascurati dal mercato, ma anche ai non-use values, ai valori che le “cose”
del mondo possiedono indipendentemente dall’uso che potremmo farne. Siamo per
esempio in grado di apprezzare l’uso potenziale delle risorse, l’utilità che le
cose avranno nel nostro futuro (option
value), oppure sentiamo un certo grado di felicità nel sapere che alcuni
beni vengono salvaguardati per le generazioni future (bequest value), e più in generale siamo in grado di provare una
qualche soddisfazione (etica, religiosa, ecologica, biologica, panica) per il
fatto di sapere che umani e non umani, piante e animali, acque e montagne,
semplicemente esistono, e stanno bene, o almeno in una condizione decente di
convivenza, anche se non hanno un rapporto diretto con la nostra vita
quotidiana (existence value).
Questa
consapevolezza (questa contentezza collettiva per l’esistenza del mondo) apre
naturalmente molti problemi. Il primo è quello relativo alla calcolabilità dei non-use values o dei valori di esistenza
(a meno di non estendere il tentativo di Robert Costanza fino al punto di stimare
il valore della terra in sé, indipendentemente dai servizi che essa fornisce
all’umanità, ciò che ovviamente è impossibile). Qualche anno fa una branca
delle scienze della valutazione (contingent
evaluation) ha cercato di effettuare questi calcoli, con risultati
inservibili. In realtà i valori di esistenza delle cose del mondo sono
importanti proprio perché sfuggono al calcolo economico, e forse a qualsiasi
altra forma di calcolo, perché il loro significato va oltre i valori di utilità
personale e sociale.
Il secondo
problema è stato qualche volta sfiorato nelle discussioni all’interno della
cultura territorialista, restando tuttavia ancora non completamente esplorato.
Magnaghi considera l’approccio ambientalista o biocentrico come “portatore di
un punto di vista volutamente parziale [...], rischiando da una parte un forte
determinismo nel progetto dell’ambiente antropico, dall’altra di non produrre
una critica radicale del sistema socioeconomico che determina il degrado
ambientale”, e si tratta di una posizione condivisibile39. Alcune
ricerche e discussioni più recenti cercano tuttavia di spostarsi su un terreno
diverso, in un tentativo di superare il dualismo ecocentrismo/antropocentrismo
(e in generale i dualismi natura/cultura, organico/inorganico, umano/animale,
mente/corpo, ecc.) riconoscendo una qualche forma di agency (di autonoma capacità di influenza) a tutte le “cose” del
mondo40. Forse il concetto di co-evoluzione,
spesso utilizzato all’interno di molti nostri ragionamenti (a partire, almeno
per gli urbanisti, dall’originaria matrice geddesiana), può essere più
intensamente declinato appunto come intreccio di relazioni (né dualistiche, né
deterministiche) tra geosfera, biosfera e noosfera.
5. Partecipazione
e felicità
Partecipazione
e democrazia deliberativa sono diventate un campo sterminato di discorsi e di
pratiche, e anche di tecniche, procedure, protocolli. In molte esperienze
vengono utilizzate strumentazioni formalizzate (dai town meeting alle consensus
conferences, dalle giurie di cittadini
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38 Costanza et. al., “The Value of World’s Ecosystem
Services and Natural Capital”, Nature,
387, 1997, 253-260.
39 A. Magnaghi, Il
progetto locale. Per una coscienza di luogo, Bollati Boringhieri, Torino,
pp. 68-69.
40 G. Paba, Corpi
urbani. Differenze, interazioni, politiche, Angeli, Milano, 2010; G. Paba,
“Le cose (che) contano: nuovi orizzonti di agency nella pianificazione del
territorio”, CRIOS. Critica degli
ordinamenti spaziali, n. 1, 2011; C. Knappett, L. Malafouris, eds., Material Agency; Towards a
Non-Anthropocentric Approach, Springer, New York, 2008.
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al deliberation day). Il rischio è quello
della standardizzazione e della diffusione di
modalità ‘fredde’ di gestione dei processi partecipativi. L’uso di
strumenti codificati garantisce spesso l’efficacia della partecipazione, e
talvolta l’equilibrio della discussione, il rispetto delle posizioni, l’ascolto
dei cittadini e degli attori sociali. Può tuttavia accadere che la
preponderanza dei dispositivi tecnici e l’imprigionamento dei sentimenti degli
attori, non siano in grado di liberare le energie e la creatività che entrano
in gioco nei processi interattivi più aperti e imprevedibili. Mauro Giusti, uno
dei fondatori del Lapei, ha scritto a questo proposito: “Gli strumenti devono
essere concepiti come tali, e vanno quindi usati strumentalmente. Le tecniche,
anche quelle molto strutturate, devono essere utilizzate per promuovere
l’informale, per dargli voce, luogo, respiro”41. Gli avanzamenti più
interessanti nel campo della partecipazione nascono dall’invenzione di nuovi
strumenti di interazione o dall’uso, talvolta improprio, ma innovativo di
quelli esistenti.
La
partecipazione ha quindi a che fare con le emozioni e con i sentimenti (“non
lasciare il dolore fuori della porta”, avverte John Forester42), ed
è interessante che Frey e Stutzer, tra gli esponenti più importanti degli happiness studies, istituiscano una
relazione diretta tra partecipazione e felicità, studiando “l’effetto del
processo politico economico sul benessere dei cittadini” e “l’interazione della
democrazia con la felicità”43.
Il punto di
partenza fondamentale è la distinzione nell’analisi dei processi economici (e
in generale dei processi di interazione, anche partecipativa) tra le utilità di risultato e le utilità di processo. Le prime sono i
prodotti ottenuti, gli obiettivi colpiti, i risultati raggiunti. Le utilità di
processo sono viceversa i benefici conseguiti nel corso dell’azione, la
soddisfazione provata nell’interazione, il piacere derivante dal lavoro
collettivo per la produzione di beni comuni (“l’utilità procedurale guarda al
benessere soggettivo che le persone ricavano dal processo decisionale in se
stesso, indipendentemente dal risultato”44). Soltanto il riferimento
ai livelli di soddisfazione e di felicità che possono derivare dalle attività a motivazione intrinseca45
è quindi in grado di spiegare l’estensione
e il lento ma progressivo rafforzamento delle forme di cittadinanza
attiva e di economia civile che si accompagnano, o si contrappongono, alle
economie di mercato e alle attività gestite dallo stato. La partecipazione non
è quindi solo un efficiente dispositivo decisionale, ma è anche (o può essere)
un’attività auto-motivata, che trova in se stessa le ragioni di soddisfazione e
di piacere.
Frey e Stutzer
affermano che “l’indice dei diritti alla partecipazione democratica ha un
elevato effetto positivo sulla felicità” di una nazione o di una comunità ed è
quindi un parametro essenziale di valutazione dei livelli di benessere, e in
particolare essi dimostrano che “gli istituti di democrazia diretta [per
esempio i referendum] incrementano il benessere soggettivo dichiarato”, e che
inoltre “il miglioramento colpisce tutti – vale a dire il fattore istituzionale
è importante in senso aggregato”. Anche “il federalismo, inteso come
decentramento amministrativo” (il riferimento è alle consuetudini elvetiche) ha
effetti positivi sulla felicità e “pertanto, la variabile ‘autonomia locale’ si
aggiunge ai fattori demografici ed economici nell’equazione della felicità”46.
Felicità
pubblica e partecipazione trovano infine una dimensione ancora più
significativa nelle molte forme di cittadinanza attiva e di auto-organizzazione, e in particolare nelle pratiche sociali
41 M. Giusti, “Modelli partecipativi di interpretazione
del territorio”, in A. Magnaghi, a cura di, Rappresentare
i luoghi, Alinea, Firenze, 2000, p. 453.
42 J. Forester, “Deliberazione politica, pragmatismo
critico e storie traumatiche: non lasciare il dolore fuori della porta”, in CRU. Critica della razionalità urbanistica,
4, 1996, 60-78.
43 B.S. Frey, A. Stutzer, Economia e felicità. Come l’economia e le istituzioni influenzano il
benessere, Il Sole 24 Ore, Milano, 2006, pp. 150 e 167.
44 Ivi, p. 206.
45 B.S. Frey, Non
solo per denaro. Le motivazioni disinteressate dell’agire economico, Bruno
Mondatori, Milano, 2005. Per Frey la motivazione intrinseca è “la forza
interiore che spinge le persone a intraprendere un’attività per il proprio
gusto o a causa di una norma interiorizzata” (p. 225).
46 B.S. Frey, A. Stutzer, cit., pp. 177-179.
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che producono
beni o servizi di utilità collettiva (“politiche pubbliche dal basso”)47.
Negli ultimi anni è cresciuto lo spazio per questo tipo di pratiche: “esiste
una domanda di partecipazione ed anche di beni pubblici non adeguatamente
coperta dall’offerta standard di politiche pubbliche, [e di] forme più
complesse di coproduzione di beni a più alto contenuto relazionale e cognitivo,
rispetto ai quali isolatamente sarebbero incapaci sia lo stato che il mercato”.
Quindi “è possibile la produzione sociale di beni pubblici, ovvero avere beni pubblici da pratiche sociali
invece che da policies”48.
Queste
pratiche hanno delle caratteristiche che non è qui possibile analizzare in
dettaglio, ma alcune hanno una relazione diretta con i sentimenti di felicità e
di benessere. Le politiche pubbliche dal basso sono (o possono essere)
altamente inclusive; esaltano l’aspetto interattivo e costruiscono beni
relazionali (producono relazioni a mezzo di relazioni); valorizzano i saperi
dei destinatari e la conoscenza locale; mettono i relazione i corpi e
apprezzano le differenze; sono basate sulla circolarità, la reciprocità e la
gratuità delle prestazioni; sviluppano la qualità intesa non come proprietà del
bene o del servizio ma come qualità relazionale, sistemica; mobilitano le mille
articolazioni del terzo settore e del terzo attore; sono disegnate in base alle
caratteristiche del contesto e incrementano la dotazione di beni e servizi
comuni. Tutti questi aspetti, legati non (solo) ai risultati ma ai modi di fare
e di essere nel corso dell’interazione, hanno quindi una relazione diretta con
la felicità pubblica, con “lo stare bene in città”49 e nel
territorio, come misura qualitativa del benessere.
6. Città
felici, città della gioia
Il rapporto
tra felicità e architettura è assai controverso: per Le Corbusier la felicità
urbana era garantita dalla scatola abitativa luminosa e soleggiata posta in
cima a un grattacielo, per Wright la felicità riposava nel rapporto isolato e
quieto con il suolo di una qualsiasi delle sue disseminate prairie houses. Molte distopie urbanistiche e sociali hanno assunto
l’orizzonte della ricerca della felicità come riferimento programmatico. Gli
architetti di Scampia e del Corviale pensavano a microcittà felici, ricche di
attività e di relazioni. Barteztzky e Schalenberg, in una antologia sulle
utopie degli ultimi secoli esplicitamente finalizzate a costruire città felici,
mettono in evidenza il carattere concentrazionario e autoritario di molti dei
modelli sociali e urbanistici immaginati o effettivamente realizzati. È
impressionante per esempio la somiglianza di linguaggio e di modalità di
rappresentazione della retorica nazista e di quella sovietica nel propagandare
i contorni della felicità urbana e sociale promessa nei rispettivi regimi50.
Nel disegnare la traiettoria delle utopie sociali Françoise Choay sottolinea i
rischi legati al pouvoir correctif et
orthopedique di molte di esse51. La visione di felicità territoriale qui presentata è lontana da
queste tradizioni; la dimensione utopica coltivata nella scuola territorialista
ha un carattere completamente diverso: si tratta di un’utopia concreta, achievable (Mumford), di una reasonable hope (Geddes) radicata nelle
pratiche sociali, disegnata in un dialogo interattivo con i luoghi, i territori
e le comunità52.
47 Questo problema viene affrontato con qualche dettaglio
in G. Paba, Corpi urbani, cit., pp.
99-114; A. Balducci, “La produzione dal basso di beni pubblici urbani”, Urbanistica, 123, 2004, 7-16; P.L.
Crosta, “Altro che consenso. Pratiche sociali di beni pubblici in un contesto
di compresenza”, Urbanistica, 114,
2000, 18-22.
48 C. Donolo, “Dalle politiche pubbliche alle pratiche
sociali nella produzione di beni pubblici? Osservazione su una nuova generazione
di policies”, Stato e mercato, 73, 2005.
49 P. Bellaviti, a cura di, “Benessere urbano. Approcci,
metodi e pratiche per sostenere la capacità di ‘stare bene’ nello spazio
urbano”, Territorio, 47, 2008, 9-55.
50 A. Barteztzky, M. Schalenberg M., eds., Urban Planning and the Pursuit of Happiness:
European Variations on a
Universal
Theme (18th-21th Centuries),
Jovis, Berlin, 2009.
51 F. Choay, “L’utopie et le statut philosophique de
l’espace edifié”, in Aa.Vv., Utopie. La
quête de la société idéale en Occident, Fayard, Paris, 2000.
52 Per qualche ulteriore considerazione vedi G. Paba, Movimenti urbani. Pratiche di costruzione
sociale della città, Angeli, Milano, 2003, pp. 116-125.
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Il rapporto
tra città e felicità è stato spesso indagato in termini generali, e qualche
volta è stato esplorato con riferimento ad alcune città particolari53.
A conclusione di queste note prenderò in considerazione cinque città che sono
state esplicitamente chiamate, progettate o studiate come città felici.
Esistono al mondo molte città felici e molte città infelici (o meglio molte e
diverse combinazioni di felicità e infelicità in ogni singola città), e quindi
la scelta di queste cinque città è quasi solo un pretesto. L’obiettivo è quello
di riflettere su alcuni aspetti della felicità urbana che possano costituire
anche per noi un riferimento, e di sottolineare qualche aspetto critico, dal
quale tenersi lontani. Le cinque città sono Freudenstadt
e Glückstadt, nel nord e nel sud
della Germania; Fermo, la cittadina
incastonata nelle colline delle Marche; Anand
Nagar, la ‘città della gioia’ della periferia povera di Calcutta; Bogotá, la grande capitale della
Colombia.
Freudenstadt è una piccola città termale
del Baden-Württemberg fondata dal duca Federico di Württemberg nel 1599 e
progettata da Heinrich Schickhardt. Glückstadt
è una cittadina dello Schleswig-Holstein fondata nel 1617 nell’estuario
dell’Elba dal re danese Cristiano IV. Denominate città della gioia e della
fortuna rappresentano la manifestazione fisica dell’idea di felicità urbana
incarnata nelle utopie. Glückstadt e Freudenstadt sono tipicamente delle ‘città
del principe’54, come molte città ideali effettivamente costruite
(da Cosmopolis a Sabbioneta, per restare in Italia): ordinate e organizzate,
minutamente disegnate. La promessa di felicità si affida in questo caso alla
bellezza e alla forma, ma forma e bellezza della città sono realizzabili solo
come esito di un modello autoritario di progettazione e di governo. Un secolo
dopo, sempre in Germania, l’idea di felicità nell’organizzazione della città è
ripresa da Johann Peter Willebrand nel Grundriss
einer schoenen Stadt. Willebrand estende l’attenzione dalla forma della
città alle modalità di governo: la Glückseligkeit,
la felicità (o la fortuna) di una “città bella”, dipende non soltanto da una
buona organizzazione dello spazio, ma anche dal controllo delle popolazioni,
dallo sviluppo di una dimensione civica, dalla buona amministrazione e dal
disegno delle politiche di sicurezza e di ordine pubblico (Policeywissenchaft).
Possiamo
imparare qualcosa da questi esempi del passato: l’importanza della morfologia
urbana, del limite delle città, della
necessità di una buona gestione dello spazio pubblico. Se guardiamo tuttavia
ancora oggi la pianta di Glückstadt è possibile leggere le analogie con le
forme bloccate del new urbanism (e
persino delle gated communities,
anche se le barriere elettroniche hanno oggi sostituito quelle murarie) e
dobbiamo forse porci l’interrogativo se la città
bella, per riprendere un’espressione di Cervellati, non debba essere bella
anche dal punto di vista della democrazia nelle modalità di gestione e di governo.
Fermo è una
piccola città delle Marche, collocata in una regione ricca, con una storia
importante alle spalle e un presente relativamente tranquillo. Giorgio
Piccinato ha effettuato uno “studio sulla felicità urbana” prendendo Fermo come
campo di indagine: “la nostra ipotesi di partenza è che esistano ‘città
felici’, dove il benessere collettivo si accompagna ad un’alta qualità della
vita. Ciò che è più significativo, queste felici condizioni si possono trovare
all’interno di una società ricca, scartando tutte le ipotesi sui poveri felici
perché estranei allo stress della vita moderna”55. Piccinato trova
degli “indizi di felicità pubblica” in alcune caratteristiche morfologiche e di
struttura sociale della città: “il centro storico è abitato e usato dai
residenti (e non svenduto all’industria turistica); il centro della città è
usato come luogo simbolico di interazione sociale; la coesione sociale è
abbastanza forte da includere gli immigrati e non c’è sensazione di
insicurezza; la popolazione è stabile o in aumento; stili di vita metropolitani, pieno impiego e alti redditi
sono garantiti; le
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53 Tra i contributi di analisi della felicità urbana
utilizzati per questo scritto è necessario ricordare A. Balducci, D. Checchi,
“Happiness and Quality of City Life: The Case of Milan, the Richest Italian
City”, International Planning Studies,
14, 1, 2009, 19-57.
54 A. Bartetzky, M. Schalemberg, “Shapes of Happiness:
Planning Concepts and Their Manifestations in Urban Form”, in A. Bartetzky, M.
Schalemberg, eds., cit., pp. 6-17.
55 G. Piccinato, a cura di, Fermoimmagine. Studio sulla felicità urbana, Quodlibet, Macerata,
2008, p. 7.
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espansioni
moderne sono sostanzialmente corrette (pur se proprio non pregevoli)”56.
L’analisi sul campo, basata su questionari, focus
group e interviste in profondità, ha confermato gli indizi di felicità
iniziali e ha restituito qualche insegnamento ulteriore sull’idea di felicità
urbana, utile anche per noi. Un livello soddisfacente di felicità urbana è
possibile solo all’incrocio tra identità sociale e identità spaziale, tra
tutela patrimonio storico e modernizzazione degli stili di vita, tra dimensione
urbana e tenuta del sistema di relazioni umane, tra solidità economica e
stabilità sociale, tra mantenimento dell’identità locale e accoglienza nei
confronti degli stranieri.
In un
villaggio del Bengala, una famiglia benestante rovinata dall’ingiustizia di un
grande proprietario terriero, è diventata povera, ma di quella povertà
essenziale, che non è ancora miseria, di cui ha scritto Majid Rahnema57.
La famiglia “disponeva ancora di tutto quello che può costituire la ricchezza
di un contadino indiano: un granaio per il riso, un pagliaio, due mucche e un
bufalo, un campo, un po’ di granaglie di scorta negli orci per i giorni duri,
perfino qualche rupia nel salvadanaio. E che dire delle nuore? Anche loro
avevano portato la felicità in casa. Erano belle come Pârvati, la moglie del
dio Shiva, e tutte e tre potevano essere madre dei Pandava. Sì, i Pal erano
poveri, ma erano felici”58. Siamo tuttavia all’inizio della trasformazione
della povertà in miseria, quando i sistemi tradizionali (Rahnema li chiamerebbe
‘vernacolari’) di sopravvivenza garantivano la continuità della vita, la
speranza nel futuro – le nuore! – e un sentimento minimo di felicità.
Cambiamenti economici e sociali, e anche climatici, distruggeranno l’economia
dei territori agricoli e milioni di persone si sposteranno nelle grandi città
indiane. Anche il figlio maggiore di Pal dovrà fuggire dal villaggio, con la
famiglia, trasferendosi nella metropoli di Calcutta. Approderanno in un punto
miserabile della periferia urbana, un terreno derelitto nel quale un
industriale alloggiava i suoi operai, battezzando quel luogo, con un’operazione
paradossalmente simile a quella del re di Glückstadt, con il nome di Anand Nagar,
che significa “città della gioia”, come se quell’ammasso di baracche contenesse
comunque una promessa di felicità.
Dominique
Lapierre ha raccontato quest’epopea in un libro famoso, descrivendo le
condizioni incredibili di malattia, miseria, degrado fisico e umano di quella
parte del mondo59. Ma Anand Nagar è anche in qualche modo davvero
una “città della gioia”, per la resistenza dei legami comunitari, per la
solidarietà tra le persone, per la mobilitazione dei volontari, per il
desiderio di riscatto dei suoi abitanti, persino per qualche forma di residua
felicità e di fiducia nel futuro.
Da questa
quarta “città felice” possiamo imparare un’altra lezione, utile per una visione
territorialista della felicità pubblica: che sono alla fine le relazioni e le
interazioni a costituire il fondamento della città, e le forme di solidarietà e
aiuto reciproco, e la ricchezza di desideri e di aspirazioni, e che solo queste
possono garantire una possibilità di riscatto e di miglioramento futuro60.
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56 Ivi, pp. 6-7
57 M. Rahnema, Quando
la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino, 2005; M. Rahnema, J. Robert, La potenza dei poveri, Jaca Book,
Milano, 2010.
58 D. Lapierre, La
città della gioia, Mondadori, Milano, 1996, pp. 16-17.
59 Anand Nagar “deteneva il triste primato della più alta
concentrazione umana del pianeta: centotrentamila abitanti per
chilometro quadrato. Non c’era un albero, non c’era un
fiore, una farfalla, un uccello, tranne avvoltoi e corvi. I bambini non
sapevano che cosa fossero un cespuglio, una foresta, uno stagno. L’aria era
talmente impregnata di ossido di carbonio e di zolfo che l’inquinamento causava
la morte di almeno un membro di ogni famiglia. La canicola pietrificava uomini
e bestie per gli otto mesi dell’estate e il monsone trasformava stradine e
catapecchie in laghi di fango e di escrementi. Fino a un passato recente, lebbra,
tubercolosi, dissenteria e tutte le malattie da carenza riducevano la speranza
di vita a uno dei livelli più bassi del mondo. Ottomilacinquecento mucche e
bufale incatenate in permanenza in stalle sovraffollate davano un latte
infestato da microbi. [...] Nove abitanti su dieci non avevano una rupia al
giorno per comprarsi trecento grammi di riso. [...] Considerata come un
quartiere pericoloso e malfamato, un’accozzaglia di Intoccabili, di paria, di
asociali, essa era un mondo a parte, tagliato fuori dal mondo” (D. Lapierre, La città della gioia, cit., pp. 52-53).
60 Sul ruolo del capitale sociale (e relazionale) nella
ricerca della felicità si soffermano molti degli happiness studies; vedi per esempio A. Leung, C. Kier, T. Fung, L.
Fung, R. Sproule, “Searching for Happiness: The Importance of Social Capital”, Journal of Happiness Studies, 12,3,
2011, 443-462.
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L’ultima città
è quella di Bogotá, capitale della Colombia, una metropoli sterminata e
inquinata, piena di favelas, miseria e criminalità. Due forti leadership
municipali, i sindaci Antanas Mockus (1994-97; 2000-03) e Enrique Peñalosa
(1997-2000), hanno inpresso alla città un cambiamento importante, “investendo
in cittadinanza” e mettendo in atto politiche urbane che hanno cercato di
cambiare la qualità e il livello di benessere (pur partendo da una situazione
di forte disagio)61. Peñalosa ha richiamato in modo esplicito il
tema della felicità come orizzonte della sua azione di governo, disegnando un
sistema complesso di incremento della sostanza collettiva della città. Un ruolo
centrale ha avuto la creazione di un sistema più efficiente di trasporto collettivo
(TransMilenio: una rete di collegamenti rapidi e sicuri di autobus che
trasporta oggi un milione di passeggeri su percorsi dedicati), ma ad essa si
sono aggiunti interventi che hanno esteso l’uso comune della città: 52 nuove
scuole e ristrutturazione di altre 150, con un incremento del 34% degli
studenti; 1200 parchi e playground costruiti o migliorati; 13 nuove biblioteche
centrali e periferiche; estensione delle reti idriche; 100 asili nido; 100mila
nuovi alberi; 270 chilometri di piste ciclabili, 15 di strade pedonali, 42 di
vie verdi, e così via. La criminalità è diminuita, come effetto non (soltanto)
di politiche di repressione, ma attraverso il coinvolgimento attivo degli
abitanti e il contemporaneo miglioramento delle condizioni urbanistiche e sociali.
Bogotá è
probabilmente ancora oggi una città piena di problemi, infelice per la
maggioranza degli abitanti, e i risultati di quelle iniziative amministrative
andranno verificati nel tempo. Il racconto di quest’ultima città ci consegna
tuttavia, come ulteriore insegnamento, la consapevolezza che la felicità urbana
e il benessere collettivo dipendono certamente da fattori soggettivi,
imprevedibili, non pianificabili, ma che le politiche urbanistiche e
territoriali, quando assumano il contesto di vita degli abitanti come un
articolato bene comune, possono creare le basi di una vita decente anche nei
luoghi più poveri del mondo.
61 K. Beckett, “A Tale of Two Cities: A Comparative
Analysis of Quality of Life Initiatives in New York and Bogotá”, Urban Studies, 47, 2, 2010, 277-301; J.
Walijasper, Can We Design Cities for
Happiness, http://shareable.net/blog/can-
we-design-cities-for-happiness;
R. Montezuma, “The Transformation of Bogotá, Columbia, 1995-2000: Investing in
Citizenship and Urban Mobility, Global
Urban Development, 1, 1, 2005.
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