Nelle foto pubblicate dai giornali israeliani, il
sorriso di Rina mostra la consapevolezza di una vita piena di promesse. A 17
anni non può che essere così. La settimana scorsa, invece, Rina è stata uccisa
da una bomba forse comandata a distanza, mentre passeggiava col padre e il
fratello, vicino a una sorgente.
Rina era israeliana; chi l’ha uccisa, un palestinese,
probabilmente non era molto più grande di lei. Questa è la storia raccontata
dai giornali e dalle televisioni di mezzo mondo. Pochi però hanno
aggiunto che la tragedia è avvenuta nei territori occupati da 52 anni, fuori da
un insediamento ebraico chiamato Dolev, vicino alla città di Ramallah
palestinese, chiusa fra colonie ebraiche, posti di blocco e muro.
Questo non toglie nulla al fatto che si sia trattato
di un attentato terroristico: aiuta solo a stabilire il contesto; a
ricordare che in Cisgiordania vivono mezzo milione di coloni israeliani liberi
di fare ciò che vogliono e tre milioni di palestinesi che non godono
minimamente delle stesse libertà.
Non riuscirei comunque a spiegare il contesto meglio
di quanto ha fatto in poche righe un giornalista israeliano, Gideon Levy: “Quando
un giovane palestinese mette una bomba davanti a una sorgente che era stata
rubata al suo villaggio (dalla colonia di Dolev, n.d.r.), sa che sta rovinando
la sua vita e quella della sua famiglia. Ma questo non lo dissuade. E non c’è
nulla che potrebbe dissuaderlo, eccetto la speranza di una realtà diversa”. Che
non esiste.
“La nostra missione è
insediare il popolo ebraico nella sua terra, renderemo più profonde le nostre
radici nella nostra patria. In ogni sua parte”, aveva detto un paio di
settimane fa Bibi Netanyahu, annunciano la costruzione di 650 nuove case
nell’insediamento di Beit El. Era la sua risposta a un altro attentato
palestinese. La stessa che il premier ha dato dopo la morte di Rina,
promettendo altre case anche alla vicina colonia di Dolev. E’ la risposta di
tutti i governi israeliani, anche di quelli laburisti: più occupazione,
distruzione delle case delle famiglie dei terroristi, più sicurezza.
Quest’ultima è doverosa ma sarebbe più efficace se
fosse accompagnata da un’alternativa politica, dalla speranza di un
cambiamento. Nella narrativa nazional-religiosa che in Israele s’impone sempre
di più, chi sostiene ancora la soluzione dei due stati, cioè anche il diritto
di una patria per i palestinesi, oggi è considerato un estremista nemico
d’Israele. Nella campagna elettorale – qui in Israele si rivota il 17
settembre, solo tre mesi dopo la volta precedente – la questione palestinese
non esiste. Non è una novità, è così già da qualche elezione. Questa volta, più
che nel passato, i nazional-religiosi e Netanyahu con una certa ambiguità,
propongono di annettere il 60% della Cisgiordania, dove sorge la maggioranza
delle colonie. L’idea non è del tutto esclusa dall’opposizione di
centro-sinistra, Kahol Lavan che fa a gara con Bibi per chi è più a destra. Il
partito cosi detto “liberal” è guidato da tre ex generali che accusano
Netanyahu di essere troppo debole con i palestinesi; il quarto leader, Yair
Lapid, che è un civile, sostiene che “la deterrenza si costruisce con molta
forza, una forza sproporzionata”.
Israele continua a essere seriamente minacciato alle
frontiere. Un pericolo è Hamas, a Gaza che non è più un partito né una milizia
ma una mafia. L’Islam e l’insensato militarismo sono i pretesti per giustificare
il suo potere, impossessarsi degli aiuti internazionali e affamare la
popolazione. A Nord ci sono Hezbollah libanese e gli iraniani che premono alle
frontiere.
In Cisgiordania c’è solo gente che cerca di
sopravvivere adattandosi all’assedio: anche chiedendo lavoro nelle colonie
israeliane. E poi ci sono alcuni giovani che scelgono la strada del suicidio
politico, del terrorismo contro l’ingiustizia come uscita dalla disperazione.
Tornando a Gerusalemme dopo un po’ di tempo, mi ha
colpito il numero dei turisti: forse non ne avevo mai visti così tanti.
Qualcosa ci guadagnano anche i palestinesi.
Apparentemente anche Ramallah è piena di attività. Ma
questa atmosfera di rilassata normalità è a ridosso del permanente dramma
d’incomunicabilità che divide i due popoli. L’economia palestinese è
costantemente alle soglie del disastro. Come può una comunità costruirne una
senza avere il controllo delle sue frontiere? I palestinesi non controllano
nemmeno la cerchia daziaria delle loro città e dei villaggi.
Questa è la realtà – il contesto – nella quale è stata
uccisa Rina, nel quale è morto accoltellato un giovane militare, e un ragazzo
alla fermata dell’autobus è stato intenzionalmente travolto da un auto. La
stessa nella quale quasi tutti i loro coetanei palestinesi, responsabili delle
aggressioni, sono stati uccisi. Tutto in due settimane. Non è una nuova
Intifada. I palestinesi della Cisgiordania e anche quelli di Gaza repressi da
Hamas, sono troppo stanchi e disillusi. Come scriveva lo storico palestinese Walid
Khalidi, che insegnava a Oxford, il suo popolo chiede solo “una modica quantità
di giustizia”.
Allego un
commento sui rischi di un conflitto fra Israele e Iran, uscito in questi giorni
sul sito del Sole 24 Ore; uno sulle manifestazioni democratiche di Hong Kong e
Mosca; e infine un commento sul G7 pubblicato sul sito di Formiche.
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