sabato 7 settembre 2019

L’INFINITA DISCORDIA – Ugo Tramballi





Nelle foto pubblicate dai giornali israeliani, il sorriso di Rina mostra la consapevolezza di una vita piena di promesse. A 17 anni non può che essere così. La settimana scorsa, invece, Rina è stata uccisa da una bomba forse comandata a distanza, mentre passeggiava col padre e il fratello, vicino a una sorgente.
Rina era israeliana; chi l’ha uccisa, un palestinese, probabilmente non era molto più grande di lei. Questa è la storia raccontata dai giornali e dalle televisioni di mezzo mondo.  Pochi però hanno aggiunto che la tragedia è avvenuta nei territori occupati da 52 anni, fuori da un insediamento ebraico chiamato Dolev, vicino alla città di Ramallah palestinese, chiusa fra colonie ebraiche, posti di blocco e muro.
Questo non toglie nulla al fatto che si sia trattato di un attentato terroristico: aiuta solo a stabilire il contesto; a ricordare che in Cisgiordania vivono mezzo milione di coloni israeliani liberi di fare ciò che vogliono e tre milioni di palestinesi che non godono minimamente delle stesse libertà.
Non riuscirei comunque a spiegare il contesto meglio di quanto ha fatto in poche righe un giornalista israeliano, Gideon Levy: “Quando un giovane palestinese mette una bomba davanti a una sorgente che era stata rubata al suo villaggio (dalla colonia di Dolev, n.d.r.), sa che sta rovinando la sua vita e quella della sua famiglia. Ma questo non lo dissuade. E non c’è nulla che potrebbe dissuaderlo, eccetto la speranza di una realtà diversa”. Che non esiste.
La nostra missione è insediare il popolo ebraico nella sua terra, renderemo più profonde le nostre radici nella nostra patria. In ogni sua parte”, aveva detto un paio di settimane fa Bibi Netanyahu, annunciano la costruzione di 650 nuove case nell’insediamento di Beit El. Era la sua risposta a un altro attentato palestinese. La stessa che il premier ha dato dopo la morte di Rina, promettendo altre case anche alla vicina colonia di Dolev. E’ la risposta di tutti i governi israeliani, anche di quelli laburisti: più occupazione, distruzione delle case delle famiglie dei terroristi, più sicurezza.
Quest’ultima è doverosa ma sarebbe più efficace se fosse accompagnata da un’alternativa politica, dalla speranza di un cambiamento. Nella narrativa nazional-religiosa che in Israele s’impone sempre di più, chi sostiene ancora la soluzione dei due stati, cioè anche il diritto di una patria per i palestinesi, oggi è considerato un estremista nemico d’Israele. Nella campagna elettorale – qui in Israele si rivota il 17 settembre, solo tre mesi dopo la volta precedente – la questione palestinese non esiste. Non è una novità, è così già da qualche elezione. Questa volta, più che nel passato, i nazional-religiosi e Netanyahu con una certa ambiguità, propongono di annettere il 60% della Cisgiordania, dove sorge la maggioranza delle colonie. L’idea non è del tutto esclusa dall’opposizione di centro-sinistra, Kahol Lavan che fa a gara con Bibi per chi è più a destra. Il partito cosi detto “liberal” è guidato da tre ex generali che accusano Netanyahu di essere troppo debole con i palestinesi; il quarto leader, Yair Lapid, che è un civile, sostiene che “la deterrenza si costruisce con molta forza, una forza sproporzionata”.
Israele continua a essere seriamente minacciato alle frontiere. Un pericolo è Hamas, a Gaza che non è più un partito né una milizia ma una mafia. L’Islam e l’insensato militarismo sono i pretesti per giustificare il suo potere, impossessarsi degli aiuti internazionali e affamare la popolazione. A Nord ci sono Hezbollah libanese e gli iraniani che premono alle frontiere.
In Cisgiordania c’è solo gente che cerca di sopravvivere adattandosi all’assedio: anche chiedendo lavoro nelle colonie israeliane. E poi ci sono alcuni giovani che scelgono la strada del suicidio politico, del terrorismo contro l’ingiustizia come uscita dalla disperazione.
Tornando a Gerusalemme dopo un po’ di tempo, mi ha colpito il numero dei turisti: forse non ne avevo mai visti così tanti. Qualcosa ci guadagnano anche i palestinesi.
Apparentemente anche Ramallah è piena di attività. Ma questa atmosfera di rilassata normalità è a ridosso del permanente dramma d’incomunicabilità che divide i due popoli. L’economia palestinese è costantemente alle soglie del disastro. Come può una comunità costruirne una senza avere il controllo delle sue frontiere? I palestinesi non controllano nemmeno la cerchia daziaria delle loro città e dei villaggi.
Questa è la realtà – il contesto – nella quale è stata uccisa Rina, nel quale è morto accoltellato un giovane militare, e un ragazzo alla fermata dell’autobus è stato intenzionalmente travolto da un auto. La stessa nella quale quasi tutti i loro coetanei palestinesi, responsabili delle aggressioni, sono stati uccisi. Tutto in due settimane. Non è una nuova Intifada. I palestinesi della Cisgiordania e anche quelli di Gaza repressi da Hamas, sono troppo stanchi e disillusi. Come scriveva lo storico palestinese Walid Khalidi, che insegnava a Oxford, il suo popolo chiede solo “una modica quantità di giustizia”.

Allego un commento sui rischi di un conflitto fra Israele e Iran, uscito in questi giorni sul sito del Sole 24 Ore; uno sulle manifestazioni democratiche di Hong Kong e Mosca; e infine un commento sul G7 pubblicato sul sito di Formiche.





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