A chiusura
dell’ennesimo braccio di ferro che ha opposto il Governo italiano uscente alle
organizzazioni umanitarie operanti nella ricerca e soccorso in mare dei
migranti (nello specifico l’organizzazione Open Arms), ritengo sia quanto mai
utile approfondire alcuni delle principali questioni giuridiche che anche
questa vicenda ha nuovamente sollevato. Alla nave dell’organizzazione
umanitaria Open Arms il Governo italiano aveva intimato il divieto di ingresso
nelle acque territoriali sulla base delle disposizioni introdotte dal d.l. 14
giugno 2019 n. 53, pubblicato in G.U., 14 giugno 2019, n. 138, recante
Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica, convertito, con
modificazioni, nella L. 8.8.2019, n. 77, pubblicata sulla G.U. n. 186 del 9.8.2019.
Nello specifico il Governo aveva ritenuto di trovarsi nelle condizioni per dare
applicazione a quanto previsto dall’art. 1 della nuova legge che contiene
“Misure a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e in materia di
immigrazione” e comporta una integrazione dell’art. 11, d.lgs. 286/98
(rubricato “Potenziamento e coordinamento dei controlli di frontiera”).
Il nuovo comma 1 ter prevede che “Il Ministro dell’interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689. Il provvedimento è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri”
Il nuovo comma 1 ter prevede che “Il Ministro dell’interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell’articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, nell’esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689. Il provvedimento è adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri”
Per capire
l’effettiva portata della citata Convenzione UNCLOS dobbiamo esaminare il comma
1 dell’art. 19 che stabilisce che “Il passaggio è inoffensivo fintanto che non
arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato
costiero. Tale passaggio deve essere eseguito conformemente alla presente
Convenzione e alle altre norme del diritto internazionale”; mentre il
successivo comma 2 afferma che “Il passaggio di una nave straniera è
considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello
Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi
delle seguenti attività:… g) il carico o lo scarico di materiali, valuta o
persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari
o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”.
Si può
vedere dunque come al fine di qualificare come offensivo il passaggio o
l’ingresso di una nave nel mare territoriale sia necessario che ci siano
elementi concreti per configurare una violazione delle leggi sull’immigrazione
ovvero, in riferimento all’ordinamento italiano è necessario che si configuri
l’ipotesi di reato del favoreggiamento all’ingresso irregolare ai sensi
dell’art. 12 del T.U Immigrazione.
Sull’Italia
incombono precisi obblighi internazionali in materia di soccorso in mare
nonché, come si vedrà, l’obbligo di assicurare un POS (place of safety)
nel minor tempo possibile; si tratta di obblighi che discendono innanzitutto
dall’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del
1982 (Convenzione UNCLOS – United Nations Convention on the Law of the Sea)
dalla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974
“SOLAS” (Safety Of Life At Sea) e dalla Convenzione internazionale dì Amburgo
sulla ricerca ed il soccorso marittimi del 1979 detta S.A.R. (Search And
Rescue). Appare dunque chiaro come tutte le attività di soccorso in mare, fino
alla conclusione delle operazioni con attracco in un porto sicuro sono del
tutto estranee alle previsioni del citato art. 19, co. 2, lett. g), Convenzione
di Montego Bay in quanto il transito nelle acque territoriali è di per sè
inoffensivo trattandosi di operazioni di soccorso effettuate in attuazione di
precisi obblighi internazionali. Può accadere, ragionando in astratto, che le
autorità statali impediscano l’accesso alle acque territoriali ad una specifica
nave con a bordo dei naufraghi ma solo se sono chiare le funzioni di
prevenzione di detta decisione ovvero se le autorità sono in possesso di chiari
elementi che fanno ritenere, sulla base di circostanze che vanno indicate con
la massima precisione, che l’ingresso dello specifico natante nelle acque
territoriali e il conseguente sbarco delle persone non avvenga in ragione della
conclusione di un’operazione di soccorso bensì nell’ambito di un’azione volta
al favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Nell’adozione della
delicatissima (e per certi aspetti estrema) decisione di impedire l’accesso
alle acque territoriali le autorità non possono non valutare la condotta
concretamente posta in essere dal comandante della nave, la effettiva
situazione delle persone accolte a bordo e trasportate, la loro condizione
giuridica (nel caso della Open Arms va ricordato come tutti i migranti, già in
acque internazionali, avessero manifestato l’intenzione di chiedere asilo),
nonché le condizioni nelle quali è avvenuto il soccorso in mare etc.
© UNHCR
Comunque
mai, in alcun modo, il rifiuto di accesso alle acque territoriali può essere
assunto per torbide ragioni politiche come il volere ostacolare o dissuadere
l’operato delle organizzazioni umanitarie, o altre magari solo apparentemente
più ragionevoli, come la necessità di giungere a un diverso criterio
ripartizione dei richiedenti asilo nella UE, tema che va affrontato in sede
legislativa con la riforma del Regolamento Dublino III, tema più
volte trattato da Altreconomia.
Diversamente l’utilizzo dei poteri statali per impedire l’ingresso nelle acque territoriali delle navi che effettuano il soccorso configura un abuso del diritto dello Stato (con violazione dell’art.30 della stessa Convenzione UNCLOS) e soprattutto configura serissime violazioni degli obblighi di soccorso ai quali lo Stato stesso non può mai derogare.
Diversamente l’utilizzo dei poteri statali per impedire l’ingresso nelle acque territoriali delle navi che effettuano il soccorso configura un abuso del diritto dello Stato (con violazione dell’art.30 della stessa Convenzione UNCLOS) e soprattutto configura serissime violazioni degli obblighi di soccorso ai quali lo Stato stesso non può mai derogare.
L’espressione
“porti chiusi” che ha afflitto la triste stagione storica che ci auguriamo stia
volgendo al termine non è stata quindi solo una drastica semplificazione
linguistica bensì ha rappresentato un obiettivo politico inaccettabile perché
mirante a mettere in discussione principi giuridici fondamentali
dell’ordinamento democratico quali gli obblighi di soccorso e la tutela della
vita umana in mare.
Alla luce di
quanto finora evidenziato si ben comprende quanto precisa e condivisibile sia
stata la decisione del Presidente della sezione prima ter del TAR Lazio
laddove, nell’accogliere l’istanza cautelare avanzata da Open Arms ha
riconosciuto che la decisione dell’Esecutivo era viziata da “ eccesso di potere
per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto
internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa
amministrazione intimata riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato,
che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente
numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente
difficoltà (per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione
effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della
peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo” di cui all’art. 19, comma 1
[recte, comma 2], lett. g), della legge n. 689/1994)”
A seguito
della sopraccitata ordinanza monocratica del presidente della sezione prima ter
del Tar Lazio la nave soccorritrice faceva ingresso nelle acque territoriali
italiane nella notte tra il 14 e il 15 agosto in condizioni metomarine avverse
e chiedeva l’assegnazione di un porto sicuro il più vicino possibile (porto che
per evidenti ragioni non poteva essere che quello di Lampedusa). Alla nave
della Open Arms riparatasi a ridosso dell’isola di Lampedusa verrà tuttavia
costantemente impedito di concludere le operazioni di sbarco per molti giorni,
fino all’intervento della Procura di Agrigento del 20 agosto di cui si dirà più
avanti e i migranti rimarranno pertanto bloccati a bordo della nave in
condizioni assai critiche. Secondo il ministero dell’Interno (che inizialmente
tentò addirittura maldestramente di emettere un nuovo decreto di impedimento
alle acque territoriali per aggirare la decisione del TAR, tentativo, come
noto, bloccato per l’opposizione degli altri ministri coinvolti) la decisione
del TAR non conduceva ad alcun obbligo in ordine all’assegnazione del porto
sicuro nel territorio nazionale ma solamente era stato autorizzato l’ingresso
della nave della ONG nelle acque territoriali. Si tratta tuttavia di una
interpretazione delle norme vigenti a dir poco forzata e assolutamente non
conforme a quanto previsto dal diritto internazionale. La citata Convenzione
SAR infatti obbliga gli Stati parte ad assicurare “che venga fornita assistenza
ad ogni persona in pericolo in mare. Esse fanno ciò senza tener conto della
nazionalità o dello statuto di detta persona, né delle circostanze nelle quali
è stata trovata” (Capitolo 2.1.10). Proprio al fine di definire nel modo più
chiaro possibile quali debbono essere le prassi operative da seguire nella
gestione delle operazioni di soccorso nel maggio 2004 gli Stati membri
dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) hanno adottato importanti emendamenti
sia alla convenzione SAR che alla convenzione SOLAS (emendamenti entrati in
vigore il 1° luglio 2006). Con tali emendamenti all’obbligo del comandante
della nave di prestare assistenza, viene affiancato e meglio chiarito il
parallelo obbligo degli Stati di cooperare nelle situazioni di soccorso,
sollevando il prima possibile il comandante dalla responsabilità di quanto
possa occorrere ai sopravvissuti attraverso l’indicazione allo stesso di un
“luogo sicuro” (POS – place of safety) nel quale concludere le
operazioni di salvataggio con lo sbarco dei naufraghi.
Le
operazioni di ricerca e soccorso si possono ritenere concluse pertanto solo con
lo sbarco delle persone in un territorio in cui la loro sicurezza e incolumità
non siano più minacciate e siano soddisfatte le necessità di primaria
importanza, come il vitto e un’adeguata assistenza sanitaria. A tal fine spetta
agli Stati predisporre “piani operativi” che permettano di dare concreta ed
efficace attuazione alle previsioni normative sopraccitate. In Italia detti
piani operativi sono stati fissati dalla Direttiva SOP 009/2015 (“Procedure
sperimentali per l’individuazione del POS – place of safety nell’ambito
di operazioni SAR connesse all’emergenza flussi migratori in mare, coordinate
da MRCC Roma ed effettuate con il concorso di unità navali private o di altre
amministrazioni, italiane o straniere”). Nella citata direttiva si evidenzia
come il ministero dell’Interno, nell’assegnazione del porto sicuro “terrà in
considerazione le citate previsioni delle pertinenti convenzioni
internazionali, avendo cura di limitare, per quanto possibile, la permanenza a
bordo delle persone soccorse e di far subire alle navi soccorritrici la minima
deviazione possibile dal viaggio programmato”.
Dopo giorni
di eccezionale tensione, nell’ambito di un’indagine verso ignoti per il reato
di cui all’art. 328 comma 1 c.p. (Rifiuto atti d’ufficio. Omissione), nel
pomeriggio del 20 agosto, proprio mentre nell’Aula del Senato si concludeva
miseramente l’esperienza del “governo del cambiamento”, la Procura di
Agrigento, per ragioni d’urgenza connesse alle condizioni psico-fisiche dei
naufraghi bloccati sulla nave, disponeva il sequestro preventivo
dell’imbarcazione Open Arms e il suo ormeggio a Lampedusa o in altro porto
immediatamente raggiungibile.
Chi scrive
confida che possa finalmente concretizzarsi una seria inchiesta giudiziaria
sull’operato delle autorità italiane nel caso della Open Arms che porti a
rimettere al centro dell’operato dei pubblici poteri il rispetto dello Stato di
diritto e la tutela dei diritti inviolabili della persona; ma soprattutto
confida che possa iniziare a chiudersi quella fase oscura della nostra storia,
caratterizzata da molteplici responsabilità politiche, che ha prodotto uno
scadimento generale della coscienza pubblica con conseguente trasformazione dei
migranti in soggetti privi di ogni diritto e dignità, ovvero in ultima analisi
in “non-persone”.
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