domenica 31 dicembre 2023

Da trent’anni c’è un mondo nuovo - Raúl Zibechi

 

La sollevazione dell’Ejército Zapatista de Liberación Nacional (EZLN), trent’anni fa, è riuscita a mettere l’autonomia al centro degli obiettivi di alcuni movimenti sociali in America Latina. Fino a quel momento non esisteva alcuna corrente politica e culturale orientata in quella direzione, oggi presente nella maggior parte dei paesi della regione latinoamericana. Tutt’al più vi erano posizioni autonomiste ispirate all’“operaismo” italiano che diedero poi origine all’“autonomismo” europeo. Quella corrente di pensiero, che prese forma nelle analisi dei filosofi italiani Antonio Negri e Mario Tronti, non ebbe mai un peso reale nelle lotte e nei movimenti latinoamericani, la sua influenza si concentrò nelle università e tra gli intellettuali marxisti.

L’EZLN si formò nel 1983 nelle regioni indigene del Chiapas. Per dieci anni si andò radicando nei villaggi e, dopo un’ampia consultazione con circa 500 comunità, decise di entrare in guerra, una scelta che prese forma concreta con la sollevazione del primo gennaio 1994, lo stesso giorno in cui il Messico aderiva al Trattato di libero scambio (NAFTA) in America. La guerra durò meno di due settimane perché la società civile si mobilitò esigendo la pace. Cominciò così un periodo di dialogo tra il governo e l’EZLN.

 

Lo zapatismo non ha solamente posto al centro del suo pensiero e della sua pratica politica la discussione sull’autonomia, questione che divenne evidente con gli Accordi di San Andrés del 1996, negoziati con il governo del Messico, ma ha mostrato il protagonismo dei popoli indigeni che sono poi i soggetti più importanti della lotta per l’autonomia.

Gli incontri internazionali hanno giocato un ruolo importante nella diffusione del pensiero dell’EZLN, così come gli innumerevoli comunicati in cui l’allora subcomandante insurgente Marcos raccontava scene di vita nelle comunità e delle militanti e dei militanti del movimento. L’Encuentro Intercontinental por la Humanidad, tenuto a La Realidad nel 1995, accolse centinaia di persone provenienti da tutto il mondo, con una grande presenza di collettivi giovanili europei di carattere libertario e autonomista.

Il fatto che lo zapatismo si rivolgesse ai gruppi più diversi della società, ma soprattutto alla gioventù urbana ribelle (gay, lesbiche, precari e disoccupati) e non utilizzasse concetti tradizionali della sinistra come quelli di “proletariato”, “lotta di classe” e “presa del potere”, era estremamente attraente per i settori che erano già stanchi del linguaggio monotono delle sinistre.

L’influenza dello zapatismo in America Latina può essere rilevata a due livelli: uno più diretto, legato ai militanti più attivi e formati nei cosiddetti nuovi movimenti sociali – come i piqueteros argentini, i settori dell’educazione popolare, i giovani critici e artisti – e, in secondo luogo, in modo più indiretto e trasversale nei movimenti dei popoli oppressi, in particolare degli indigeni e degli afrodiscendenti.

Le tracce dello zapatismo si rintracciano soprattutto nei movimenti meno istituzionalizzati. Le tracce dello zapatismo si rintracciano soprattutto nei movimenti meno istituzionalizzati. In un certo senso, una parte considerevole dei nuovi movimenti si sentirono attratti da tre questioni centrali che trovarono nello zapatismo: il rifiuto della presa del potere statale e la possibilità di crearsi poteri propri, l’autonomia e l’autogestione, e il modo di comprendere il cambiamento sociale come costruzione di un mondo nuovo piuttosto che la trasformazione del mondo esistente.

L’influenza etica e politica dello zapatismo, così come il fallimento delle rivoluzioni incentrate sulla presa del potere e sul cambiamento “dall’alto”, condussero molti attivisti alla convinzione che i cambiamenti debbano essere legati alla ricostruzione dei legami sociali che il sistema distrugge ogni giorno.

La creazione di municipi autonomi e di consigli di buon governo, recentemente smantellati dallo stesso EZLN, ha dimostrato che è possibile governare in un altro modo, senza creare o riprodurre burocrazie permanenti come hanno fatto invece le rivoluzioni vittoriose tradizionali. Attratti dalle sue particolarità, migliaia di attivisti da tutto il mondo, la stragrande maggioranza dei quali europei, sono venuti in Chiapas per conoscere in prima persona la realtà zapatista e hanno contribuito donando risorse materiali.

Sarebbe un errore credere che lo zapatismo influenzi o diriga in qualche modo tutta questa varietà di collettivi. Più di mille gruppi hanno sostenuto il la Gira por la Vida, realizzata nel 2021 in diversi paesi e regioni d’Europa, per ascoltare e consolidare relazioni di fraternità con chi lotta. Penso che la cosa più appropriata sia parlare di confluenze, perché in tutto il mondo si sono formati e crescono gruppi che rivendicano l’autonomia come pratica politica, riferendosi senza dubbio allo zapatismo, ma non in un rapporto di comando e obbedienza.

I movimenti femministi, quelli dei giovani precari e disoccupati, delle imprese autogestite che si moltiplicano nel mondo, hanno trovato nello zapatismo ispirazione per la loro determinazione a creare il nuovo, il loro rifiuto delle istituzioni statali e dei partiti di sinistra. Sebbene le cause delle ribellioni abbiano caratteristiche diverse, ovunque si avverte una profonda stanchezza nei confronti del sistema dominante e delle sue conseguenze sui giovani, come la precarietà del lavoro, la mancanza di prospettive di vita dignitosa e la persecuzione poliziesca di chi dissente.

Popoli nativi e neri

Negli ultimi decenni diversi popoli stanno rivendicando l’autonomia, oppure l’hanno costruita con i fatti. I popoli indigeni sono in prima linea in questo processo, spiccano i Mapuche del Cile e dell’Argentina, i Nasa e i Misak del Cauca colombiano. Più recentemente, i popoli amazzonici sono entrati a pieno titolo nella dinamica delle autonomie, così come alcuni palenque e quilombo neri.

Nel 1998 è stato creato il primo gruppo autonomista mapuche, la Coordinadora Arauco-Malleco (CAM), che incarnava un nuovo modo di fare politica attraverso l’azione diretta contro le imprese forestali le cui coltivazioni di pino soffocano le comunità. Oggi esistono almeno una dozzina di gruppi mapuche che affermano di essere autonomi.

I più importanti sono la CAM, la Resistencia Mapuche Lafkenche (RML), Resistencia Mapuche Malleco (RMM), la Alianza Territorial Mapuche (ATM) e Weichán Auka Mapu [Lucha del Territorio Rebelde], che hanno promosso un’ondata di recupero di terre stimata in 500 territori o proprietà. I più radicalizzati sono Weichan Auca Mapu (WAM) e Resistencia Lafkenche, oltre alla CAM, che si distinguono per azioni dirette contro l’industria forestale. Esistono anche organizzazioni di donne mapuche.

In Colombia, il Consiglio Indigeno Regionale del Cauca (CRIC) è stato creato nel 1971 nell’ambito di un processo di recupero del territorio. Oggi conta 84 riserve nel Cauca e 115 comuni a cui appartengono otto gruppi etnici. Gestiscono programmi sanitari ed educativi con il sostegno dello Stato, hanno costruito le proprie forme economiche come imprese e negozi comunitari, associazioni di produttori e un’istituzione di terzo livello, il Cecidic (Centro di educazione, formazione e ricerca per lo sviluppo integrale della comunità). Hanno creato un sistema di “giustizia comunitaria” e si governano attraverso l’elezione delle loro autorità dai consigli. La Guardia Indigena, un’entità dedita alla difesa dei territori e degli stili di vita indigeni, è la creazione autonoma più importante.

Sia i gruppi mapuche in Cile che il CRIC hanno rapporti con l’EZLN, essendo probabilmente i movimenti indigeni più vicini politicamente allo zapatismo.

Le esperienze si stanno moltiplicando. Come in Cile esistono più di una dozzina di gruppi autonomi (alcune fonti parlano di 15 gruppi), nel Cauca si sono formate la Guardia Cimarrona tra afrocolombiani e la Guardia Contadina, entrambe ispirate alla Guardia Indigena.

Probabilmente l’organizzazione autonomista con la maggiore presenza in Brasile è la Teia dos Povos, nata dieci anni fa nello stato di Bahia. Riunisce comunità e popoli indigeni, contadini senza terra e quilombolas (persone nere discendenti dai maroon), in un’alleanza di base che si sta espandendo in diversi stati e ha l’autonomia – e lo zapatismo – come riferimenti centrali.

Infine ci sono i popoli amazzonici. Nel nord del Perù sono stati creati nove governi autonomi da quando il primo, il Governo Territoriale Autonomo della Nazione Wampis, è stato formato nel 2015, come un modo per fermare l’estrattivismo petrolifero e forestale, nonché la colonizzazione. In totale controllano più di 10 milioni di ettari e in un recente incontro a Lima si è affermato che ci sono altri sei comuni che stanno avviando lo stesso processo di costruzione dell’autonomia.

Nell’Amazzonia Legale brasiliana, sono stati siglati 26 protocolli di demarcazione autonomi , che comprendono 64 villaggi indigeni in 48 territori diversi. I villaggi hanno fatto questa scelta di fronte all’inazione dei governi che sarebbero obbligati a delimitare i loro territori dalla Costituzione del 1988, ma lo fanno in pochissimi casi.

Per quanto riguarda il resto delle autonomie, basta ricordare che decine di popoli indigeni che abitano il Messico hanno seguito i principi zapatisti riunendosi nel Congresso Nazionale Indigeno (CNI), dove partecipano 32 popoli che lottano per la propria autonomia. Nel 2006, il IV Congresso del CNI ha deciso di sottoscrivere la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona e di esercitare l’autonomia nei fatti.

Nuove direzioni per continuare ad esistere

Mentre le autonomie si espandono senza sosta nella regione latinoamericana, lo zapatismo ha deciso di dare una svolta importante al suo processo.

Dal 22 ottobre 2023, l’EZLN ha diffuso una serie di dichiarazioni in cui segnala importanti cambiamenti per affrontare la nuova fase di collasso sistemico e ambientale. Le Juntas de buen gobierno e i municipi autonomi, strutture organizzative create due decenni fa e simboli dell’autogoverno zapatista, cessano di funzionare. Invece di una trentina di municipi autonomi, ci saranno migliaia di strutture di base, di Governo Autonomo Locale (GAL) e centinaia di Collettivi di Governo Autonomo Zapatista (CGAZ) dove prima c’erano solo 12 juntas de buen gobierno.

Le decisioni che hanno preso hanno un orizzonte di 120 anni, ovvero sette generazioni. L’EZLN osserva che ci saranno guerre, inondazioni, siccità e malattie e che quindi “in mezzo al collasso dobbiamo guardare lontano”.

Hanno fatto autocritica sul funzionamento dei municipi e delle juntas, concludendo che le proposte delle autorità non andavano più verso il basso e che le opinioni della gente non arrivano più alle autorità. Dicono, in sostanza, che si era ricreata una piramide e per questo hanno deciso di abbatterla.

Forse il punto più importante è che si propongono di “essere un buon seme” di un mondo nuovo che non vedranno, di voler lasciare “in eredità la vita” alle generazioni future invece della guerra e della morte.

Siamo già sopravvissuti alla tempesta come comunità zapatiste quali siamo. Ma ora non si tratta solo di questo, dobbiamo attraversare questa e altre tempeste che arriveranno, attraversare la notte e arrivare a una mattina, tra 120 anni, in cui una bambina comincerà a imparare che essere libera significa anche essere responsabile di quella libertà“, continua il comunicato .

Seminare senza raccogliere, senza aspettarsi di poter godere dei frutti di ciò che è stato seminato, è la più grande rottura conosciuta con il vecchio modo di fare politica e di cambiare il mondo. È un’etica politica antisistemica quella che lo zapatismo ci consegna, un dono da valorizzare in tutta la sua tremenda dimensione.


La versione in lingua originale di questo articolo è uscita su Nacla. Reporting on the Americas

La traduzione per Comune-info è di marco calabria

Alcune delle illustrazioni che compaiono sono state realizzate da Dante Aguilera Benitez (IG:  el_dante_aguilera ) e Rulo ZetaKa (IG: rulozetaka ), per il Taller de Gráfica Pesada Juan Panadero (IG:  tallerjuanpanadero).

Si trovano in questa cartella  bit.ly/Gráfica-Libre-Zapatista, condivisa dall’organizzazione  zapatista  su Facebook. Le illustrazioni possono essere liberamente utilizzate per la riproduzione, la stampa e la manipolazione, ma non a scopo di lucro o di vendita.

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sabato 30 dicembre 2023

Due notizie (non fra le altre) - Giorgio Agamben

 

L’autorevole rivista «Nature» ha pubblicato i risultati di una ricerca di un gruppo di scienziati dell’Università di Cambridge guidati da Anne Willis che dimostra che i vaccini a mRNA, come quelli usati nella recente pandemia, producono proteine non volute, i cui effetti sull’organismo possono essere dannosi. Anche se la casistica delle patologie spesso gravi e persino letali in cui sono incorse le persone vaccinate era già per noi un’evidenza sufficiente, la ricerca ne offre per la prima volta una dimostrazione scientifica.
La seconda notizia è che vi è un notevole aumento rispetto agli anni precedenti di soggetti ammalati per le sindromi influenziali e il Covid (circa 2.552.000 dall’inizio della stagione). Non ci pare illegittimo suggerire che questo aumento potrebbe essere messo in rapporto con i risultati della ricerca appena citata.
È poco probabile che, malgrado sarebbe doveroso farlo, i medici, i politici e gli esperti che hanno incautamente di fatto obbligato alla vaccinazione la maggioranza della popolazione si interroghino su questi due fatti.
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venerdì 29 dicembre 2023

L’Ucraina è fallita

 

articoli e video di Paolo Di Mizio, Francesco Masala, Giacomo Gabellini, Elena Basile, Roberto Buffagni, Scott Ritter, Lucio Caracciolo, Gian Andrea Gaiani, Clara Statello, Piero Bevilacqua, Alessandro Orsini, Alessandro Marescotti, Andrea Puccio, Jeffrey Sachs, Giulia Bertotto, Pubble, Kit Klarenberg, Domenico Gallo, Francesco Dall’Aglio, Julian McFarlane, Toni Muzzioli, Sara Reginella, Marco Fraquelli, Alberto Fazolo, Nicolai Lilin, Giorgio Bianchi,, Alessandro Marescotti, Alberto Negri, Juan Antonio Aguilar, Miguel Ruiz Calvo



Nazisti a nostra insaputa – Paolo Di Mizio

Islamofobia e russofobia hanno genesi diverse. La prima cova dagli anni ’60-70, coi primi dirottamenti aerei, l’attacco agli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco, ecc., fino ai recenti orrori di Al Qaeda e Isis. C’è poi la crisi di rigetto per i migranti irregolari, in gran parte di fede islamica. La russofobia invece si è manifestata con la guerra in Ucraina. Si è appreso che in Ucraina si commemora la data di nascita di Stepan Bandera, eroe nazionale, alleato di Hitler e autore di stragi di polacchi ed ebrei. Subito dopo la nazi-nostalgia è emersa tra scandinavi e baltici, che hanno una lunga storia di guerre contro la Russia zarista. Insomma l’Ucraina è stata il detonatore di una dinamite conservata al fresco in diverse cantine, laddove negli anni ’40-45 si sperava che Hitler conquistasse la Russia. In altre parole, i nostri amici nordici erano nazisti in nuce e non lo sapevamo. Le racconto questo fatto. il 5 novembre la squadra di calcio danese Ishoj IF si è presentata allo stadio indossando maglie con la scritta “Basta stragi a Gaza” e le è stato impedito l’ingresso. Un anno fa la squadra aveva fatto altrettanto con la scritta “Basta stragi in Ucraina” ed era stata accolta con applausi. La cosa somiglia molto al sorgere del nazismo hitleriano. La vita di un bimbo ucraino, vittima dei russi, vale dieci; quella di un bimbo palestinese, vittima degli israeliani, vale zero. Mi pare si chiami nazismo, o no?

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Parlando con mio nipote, sulla guerra in Ucraina – Francesco Masala

Mio nipote mi chiede di spiegargli qualcosa di quello che accade in Ucraina, che quello che sente in tv non lo convince.

Ci penso un po’ e gli faccio un esempio che forse aiuta a capire meglio cosa succede.

Immagina, gli dico, che il presidente del consiglio italiano sia Melonensky, arrivata al potere con un colpo di stato nel 2014, e decida di prendersela contro i tedesco-parlanti della provincia autonoma di Bolzano, vietando l’uso della lingua tedesca, a scuola e dappertutto, vietando i cartelli bilingui, facendo pubblici roghi dei libri tedeschi, in nome della Tradizione e delle Radici italiane (come nel ventennio nero).

Quando i tedesco-parlanti si rifiutano e si ribellano, Melonenky comincia a bombardare la provincia di Bolzano, a partire dai paesi di campagna, dove quasi tutti parlano il tedesco.

L’Austria fa i suoi passi, prima diplomatici, poi con l’esercito. Dopo qualche scaramuccia Melonensky e gli austriaci firmano due accordi, che prevedono che i tedesco-parlanti non siano più discriminati nella vita pubblica e possano riusare il tedesco senza nessun problema. L’esercito austriaco torna in patria, ma per otto anni l’esercito italiano bombarda sempre più la provincia di Bolzano, a dispetto dei trattati firmati, sulla cui esecuzione c’era l’impegno delle potenze europee.

I tedeschi della provincia di Bolzano implorano per otto anni l’Austria affinché annetta la provincia di Bolzano, odiata dallo Stato italiano.

Dopo otto anni di bombe sulla provincia di Bolzano, e di richieste inascoltate, l’Austria, avendo saputo della preparazione di un massacro di massa da parte delle brigate nere italiane, finalmente interviene con il suo esercito, non per invadere l’Italia, ma solo per annettere la provincia di Bolzano, e inizia una guerra.

Immagina, gli dico, che questo sia successo davvero, tu da che parte staresti?

Con gli italiani in camicia scura o con i tedesco parlanti, che da secoli hanno parlato con la loro lingua in quelle valli?

Ma la guerra in Ucraina non è solo una guerra fra Ucraina e Russia, c’è molto di più, l’Ucraina è stata armata, finanziata e sostenuta dalla Nato, cioè dagli Usa, e dall’Europa, e non da oggi, l’Ucraina è l’agnello sacrificale del tentativo di distruggere la Russia.

Una cosa che non si dice è che nel XX secolo nascono tanti stati, tra cui Israele e l’Ucraina. E l’Ucraina viene scelta come il mezzo per frantumare la Russia. Dopo che è caduto il Muro di Berlino, dopo poco tempo l’Unione Sovietica si è dissolta, le repubbliche sovietiche sono diventate indipendenti. Si ricordi che dopo la dissoluzione dell’URSS  da 15 a 20 milioni di russi sono presenti nelle repubbliche ex-sovietiche.

Casa succede in Ucraina? Lo stato e l’esercito ucraino (per conto della Nato) cominciano a bombardare e ammazzare i cittadini ucraini di etnia russa, per provocare l’intervento della Russia a loro difesa, intervento che poi si verifica. L’assedio della Nato, che abbaia ai confini della Russia, come dice il papa, è il motore della guerra. La provocazione ucraina verso i cittadini ucraini di etnia russa per anni è il casus belli, il grido di dolore del Donbass russofono è stato ascoltato.

Allora alla tv e sui giornali dicono bugie, chiede mio nipote?

L’Occidente collettivo (così viene chiamato il complesso dei paesi a guida Usa) ha sempre avuto in odio l’Urss dalla sua nascita, e forse se a Stalingrado avessero vinto i nazisti non gli darebbe dispiaciuto.

Hollywood ha sempre descritto i russi come ha quasi sempre descritto gli indiani, nemici da sconfiggere e da eliminare (vedi qui), solo che adesso non sono più comunisti (parola per indicare il diavolo), sono un paese che è stato imbrogliato e sfruttato dopo la caduta del Muro di Berlino.

I russi sanno che l’Occidente collettivo (la Nato) è un’entità da temere e da cui difendersi, e che non bisogna mai fidarsi di loro, delle parole che dicono, dei trattati che firmano (e quindi non bisogna fidarsi neanche di noi europei, che gli stiamo facendo guerra, non dichiarata, ma sempre guerra è). E hanno ragione, dicono l’allargamento della Nato e gli accordi di Minsk.

 

 

 

  

Le menzogne non devono celare l’abisso Ucraino – Elena Basile

Si avvicina il Natale. Quale miglior modo di celebrare la religiosità che questa festa, divenuta una orgia di consumi, ispira anche a un laico come la sottoscritta se non cercare, per dovere morale più che politico, di fare luce sul conflitto con l’Ucraina screditando le menzogne dei numerosi protagonisti della propaganda criminale che ha massacrato dai 300 ai 400 mila (fonti di Kiev) soldati ucraini?

Il conflitto a bassa intensità e sulla pelle degli ucraini è stato voluto dagli Stati Uniti che portano a casa un bottino di guerra importante indipendentemente dalla riuscita della guerra. L’obiettivo era la destabilizzazione della società russa. Oggi, lo può testimoniare chiunque si rechi a Mosca e viaggi all’interno del Paese, la Russia non sembra toccata dal conflitto né dalle sanzioni economiche. Non è affatto vero che abbia convertito l’economia civile in economia di guerra come giornalisti incompetenti scrivono. Si sono anzi opposti alla destabilizzazione rafforzando il blocco economico sociale che ha sostenuto Putin a partire dal 2000, reindirizzando i commerci verso il Medio Oriente e il Pacifico, l’America latina e il Sud globale, attirando nuovi investimenti e investendo nell’industria della difesa.

Putin non ha mai avuto l’obiettivo di conquistare i territori dell’Ucraina occidentale che sa ostili. Sarebbe suicida voler governare un territorio immenso e una guerriglia di cui la stampa occidentale ha favoleggiato. Essa non si è vista nei territori dove la maggioranza è russofona e che sono stati occupati. Il Cremlino e l’entourage di Putin, che non governa da solo come con altre riduttive semplificazioni gli occidentali fanno credere, ha una strategia differente illustrata da Jacques Baud. Smantellare l’armamento ucraino da posizioni difensive, e vi sono riusciti a diverse ondate colpendo anche i rifornimenti occidentali. Il 75% della popolazione russa sostiene la guerra, ma sarebbe propenso a un negoziato. Mosca è in una posizione di forza, attende le proposte occidentali. Se non arrivano, una volta smantellato l’armamento ucraino, continuerà ad avanzare verso Odessa.

Gli aiuti Nato non possono cambiare le sorti del conflitto. I militari lo sanno benissimo, ma mandano a morire i giovani, reclutati con la forza nelle università e nelle discoteche, e i meno giovani ormai al fine di mantenere il “piglio politico”, direbbe un mio comico collega, convincere la opinione pubblica che l’Occidente non ha perso. Che la campagna elettorale di Biden sia sacra come il Natale!

Zelensky, marionetta indecente, è stretto tra le élite senza scrupoli occidentali, di cui fanno parte i socialdemocratici come Scholz e i nostri cattolici guerrafondai, e le mafie neo naziste antirusse che, come spiega Baud, hanno soltanto il 2% in Parlamento ma dominano la corrotta società ucraina, pronta a entrare in Europa. La Russia non si è mai opposta a un avvicinamento di Kiev all’Europa. Se si ha memoria storica e onestà intellettuale, si ricorderebbe che ai tempi di Yanukovich la Russia chiese un accordo tripartito: Ue, Ucraina, Russia affinché nell’accordo di associazione Ue-Ucraina si tenesse conto dei legami oggettivi tra industria Ucraina e Russia. Barroso rifiutò ogni tipo di compromesso con Mosca e l’arrogante interpretazione dell’Ue dell’accordo di associazione portò alla cacciata, con l’utilizzo delle bande violente neo naziste, di Yanucovich e al colpo di Stato a Maidan Square, favorito dalla visione patologica del mondo della neo conservatrice Nuland.

La linea rossa per Putin è stata, dal discorso di Monaco del 2007, una sola: l’entrata dell’Ucraina nella Nato che darebbe all’Occidente la possibilità di installare missili nucleari in territorio ucraino (Inutile ricordare che la crisi di Cuba nel 1962 fu causata dall’installazione di missili Urss nell’isola e risolta con il loro ritiro, accompagnato da quello Usa degli Jupiter dalla Turchia.) Stoltenberg continua a mentire all’opinione pubblica dei Paesi Nato e con l’acquiescenza delle classi dirigenti europee e dei loro cani da guardia, perpetua un conflitto senza sbocco sulla pelle del popolo ucraino.

A Gaza, peraltro, ci stiamo macchiando di crimini peggiori. Mentre vendute penne diplomatiche inneggiano all’operazione a guida Usa nel Mar Rosso e alla “potenza di fuoco e alla determinazione di Tsahal”, vengono bombardati campi profughi e ospedali. 7.000 bambini muoiono. I sopravvissuti rischiano agonie peggiori, sotto le macerie, in ospedali fatiscenti, affamati e con il rischio di terribili infezioni. Sembrerebbe che l’Italia abbia bloccato i visti ai palestinesi. Israele e l’Occidente si stanno solo difendendo. I “Guardiani della Prosperità” salpano contro gli Houthi yemeniti e preparano il terreno al vero obiettivo: l’Iran. L’intero mondo ci guarda. La risata nietzschiana ci seppellisce.

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giovedì 28 dicembre 2023

Il debito federale Usa e l'austerità dell'UE - Alessandro Volpi

Gli Stati Uniti hanno fatto lievitare il loro debito federale e continueranno a farlo crescere per finanziare la spesa pubblica, che si affiancherà alla enorme liquidità dei grandi fondi finanziari già in possesso del 40% delle 500 più grandi società mondiali. La Federal Reserve stampa dollari, paga una parte del debito americano mentre l'altra è pagata in larga misura dai fondi finanziari.


Esiste quindi un capitalismo in cui fondi finanziari, Fed e governo partecipano avendo nel dollaro la merce più pregiata, scelta come moneta unica della grande finanza e così, di fatto, imposta al mondo.

L'Unione Europea, e in particolare l'Eurozona, vuole stare dentro questo capitalismo scegliendo la strada dell'austerity, senza fare debito e rifiutando qualsiasi ipotesi di utilizzo dell'euro per il finanziamento del debito stesso, anzi imponendo agli Stati una riduzione dei loro debiti. In estrema sintesi abbiamo un capitalismo globale dove gli Stati Uniti della Finanza usano debito e liquidità in dollari senza limiti mentre l'Europa misura i debiti per non indebolire l'euro, cancellando così la tradizione degli Stati sociali e finendo, in toto, preda dagli Stati Uniti. Però in Italia discutiamo di affidabilità e responsabilità.

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mercoledì 27 dicembre 2023

Dal 2000 il 18 dicembre è la giornata internazionale delle migrazioni - Valerio Calzolaio

 

Il 18 dicembre 2000, ventitré anni fa, l’Onu ha istituito sia la giornata mondiale del migrante che, in un altro giorno di ogni anno (il 20 giugno), la giornata mondiale del rifugiato. Non si differenziano le emigrazioni dalle immigrazioni, quanto piuttosto si celebrano nel primo caso l’insieme delle migrazioni e, nel secondo caso, in particolare, le migrazioni forzate, le fughe riuscite di coloro che diventano profughi o rifugiati, loro malgrado.  Per la ventiquattresima volta, dunque, esiste la giornata internazionale ufficiale di tutte le migrazioni e di tutti i migranti, oltre un miliardo, liberi e forzati, qualunque fosse o sia stata o sia la ragione che li hanno indotti a separarsi dalla residenza precedente, perlopiù dal paese di nascita e maturazione, dall’ecosistema biologico e culturale nel quale sono divenuti senzienti e in vario modo agentivi nella vita. Noi sapiens siamo tutti individui figli di migrazioni, cambi di residenza o ecosistema. Incontri nuovi e incroci fanno parte del patrimonio genetico di ognuno, tutti a proprio modo riprodottici come migranti e meticci.

Ormai si è però diffusa una certa paura a considerare positivamente le migrazioni del passato e soprattutto del presente, abbiamo scordato molto delle nostre origini e rifiutiamo di vedere qualcosa del nostro futuro. Certo, anche in questo scorcio di dicembre 2023 ci saranno messaggi ufficiali degli organismi internazionali, del papa e dei capi di altre confessioni religiose, di alcuni rappresentati di Stato sensibili, troverete qualche articolo e commento di parte degli organi di informazione, forse la sottolineatura di qualche riflessione aggiornata. Ma la libertà di migrare è perlopiù misconosciuta nei paesi ricchi e il diritto di restare rivendicato soltanto per impedire di partire, non per contrastare discriminazioni e oppressioni. Chi intende o deve migrare crea timore altrove, già prima della partenza ed emigrazione dalla sua residenza, ancor più dopo i transiti o l’arrivo con relativa immigrazione.

Le migrazioni forzate indicano emigrazioni obbligate a prescindere da dove poi la fuga giunge. Vi è, fra i migranti attualmente immigrati altrove, chi non ha avuto alcun margine di scelta nell’emigrazione, è dovuto fuggire dalla propria terra per ragioni di forza maggiore. Sono una piccola percentuale del totale ma a loro è da sempre connesso un diritto d’asilo se e quando superano il confine del paese d’originaria appartenenza (qualunque sia la causa, esplicitano molte costituzioni). Per loro si può parlare del riconoscimento di un doppio diritto: il diritto di restare, violato nel loro paese, e il diritto d’asilo, da garantire altrove. Per gli altri migranti vale sempre il diritto di restare e, poi, la Dichiarazione Universale dei Diritti umani prevede di libertà di poter migrare, un certo grado di scelta di emigrazione, acquisendone innanzitutto la capacità.

Non a caso, nel 2020 furono individuate due giornate differenti di memoria e consapevolezza e nei venti anni successivi sono stati negoziati due differenti Global Compact, convenzioni dell’Onu giuridicamente rilevanti per i due separati diritti dei rifugiati da una parte e per il diritto e le libertà dell’insieme dei migranti dall’altra (era nota l’opinione delle forze politiche italiane nel 2018 sui due patti, non è nota l’opinione del governo in carica da 14 mesi). Il fatto è che nessuno contabilizza le migrazioni forzate, quelli che diventano Refugees dopo aver chiesto asilo sono solo una parte degli emigranti fuggitivi (profughi). Vale anche per l’immigrazione cosiddetta irregolare in Europa e nel nostro paese, in Italia. Parliamo solo del fenomeno che determina più clamore mediatico e politico, gli sbarchi.

Dall’inizio dell’anno fino al 14 dicembre 2023, secondo i dati forniti dal Ministero degli Interni, le persone migranti “irregolarmente” sbarcate sulle coste italiane risultano finora 153.407 (circa 340 in più rispetto alla settimana precedente). Di questi, sulla base di quanto dichiarato al momento dello sbarco, 18.164 sono di nazionalità guineana (12%, numeri stabili da parecchio); gli altri provengono da Tunisia (17.087, 11%), Costa d’Avorio (15.973, 10%), Bangladesh (12.122, 8%), Egitto (11.066, 7%), Siria (9.503, 6%), Burkina Faso (8.410, 6%), Pakistan (7.639, 5%), Mali (5.883, 4%), Sudan (5.829, 4%), una quota significativa pertanto quelli di paesi asiatici e una minoranza, dunque, quelli di paesi nordafricani, a cui si aggiungono 41.731 sapiens (ben il 27%) provenienti da altri Stati o per i quali è ancora in corso la procedura di identificazione. Non si sa quanti di loro hanno chiesto subito asilo e, soprattutto, non si tratta, ovviamente, di tutti gli arrivi di immigrati in Italia, non essendo contemplati gli ingressi “irregolari” via terra (non dal Sud conseguentemente), gli ingressi regolari via mare e via terra, i corridoi umanitari e altre evenienze, ulteriore segnale che sono proprio le “regole” a essere discutibili per affrontare seriamente qualità e quantità del fenomeno migratorio contemporaneo.

Nel 2023 gli sbarchi sono aumentati rispetto agli anni precedenti, di molto. Abbiamo altre volte ricordato i numeri reali, più indietro si va nel tempo (ai primi anni novanta e alla Puglia per esempio) più quelle persone le scopriamo oggi inserite nel contesto civile della vita italiana (o europea), quasi sempre lavoratori e famiglie perbene, con versamenti regolari e tassi di criminalità inferiori alla media. Negli anni novanta, tuttavia, si avviano paura (perlopiù immotivata, alla prova dei fatti) e cinico investimento politico e giornalistico sulle paure. Il dibattito istituzionale si concentra sulle norme per bloccare l’immigrazione (con la legge del 2001 per esempio), tutti i partiti coinvolti, qualcuno all’offensiva qualcuno sulla difensiva, ma non era ancora lo sbarco “irregolare” il mezzo principale di arrivo eventuale. I canali irregolari dipendono molto dalla regolarità possibile di altri accessi. Via mare immigrati continuarono ad arrivare prevalentemente dall’Albania, circa 22 mila nel 1997, circa 50 mila nel 1999. Nel primo decennio del nuovo millennio la media fu meno di 20 mila arrivi annui, massimo 37 mila nel 2008, meno di 10 mila nel 2009, poco più di 4 mila nel 2010. Il 2011 fu l’anno di svolta e la Sicilia la regione più coinvolta, per le note ragioni geopolitiche legate alle proteste nei regimi di vari paesi mediterranei africani: quasi 63.000 sbarchi nel 2011 (meno della metà del 2023, comunque)!

Dal 2011 gli sbarchi diventano complessivamente di più, molto dipende da quanto accade in varie aree dell’Africa, dai cambiamenti climatici pure in Asia e dall’incipiente crisi in Siria (siccità, poi guerra dal 2013), le rotte del Mediterraneotornano il conclamato contingente pericoloso transito verso l’Europa (per l’ennesima volta nella storia di lungo periodo e in entrambe le direzioni). Ma non è un’accelerazione travolgente e massiccia, nel 2012 solo 13 mila sbarchi, nel drammatico 2013 appena 43 mila (terribile per la Siria e per il naufragio del 3 ottobre). Da allora le istituzioni dell’Unione Europea in modo più farraginoso e le istituzioni italiane in forme più concitate fissano di continuo nuove “regole”, con provvedimenti contrastati e contraddittori per “bloccare” in qualche modo, senza riuscire a influire sui flussi, Va detto che i “numeri” restano comunque assolutamente lontani da ogni barlume di invasione e compatibili con un continente e singoli paesi di centinaia e decine di milioni di cittadini, un forte bisogno di immigrazione regolare e significative quote di emigranti in altri continenti e paesi. Ribadiamo che poco si ragiona sul carattere asimmetrico e diacronico del fenomeno migratorio e sulla distinzione fra migrazioni forzate e migrazioni un poco più libere, anche per questo è giusto “celebrare” il 18 dicembre una giornata di memoria e di consapevolezza sulle funzioni storicamente e geograficamente positive del migrare per i sapiens.

Nel 2014 si raggiungono 170.100 sbarchi, ancora una volta in buona parte di persone partite dalla Siria e da Stati africani come l’Eritrea; nel 2015 in Italia arrivano via mare 153.842 migranti; nel 2016 sono circa 181 mila gli sbarchi, molti dei quali dalla Nigeria; nel 2017 circa 119 mila (come si vede quest’anno siamo ancora più o meno lì). Dopo il discutibile accordo con la Libia, paese mai stabile e pacificato, dove imperversano bande criminali che trattengono forzatamente, taglieggiano e feriscono chi transita, nei due anni successivi gli sbarchi diminuiscono a 23.370 nel 2018 e a 11.471 (molti dei quali ora di nazionalità tunisina) nel 2019. Nel 2020 il Ministero degli Interni registra 34.154 arrivi via mare (gran parte dalla Tunisia, dove sono scoppiate nuove proteste contro la crisi economica e la corruzione della politica), nel 2021 circa 67 mila persone, molte anche di nazionalità egiziana e bengalese. L’anno scorso, dal primo gennaio al 30 dicembre 2022 sono arrivate 104.061 persone, soprattutto fra marzo e agosto, i paesi di origine soprattutto e stabilmente Egitto, Tunisia, Bangladesh, Siria e Afghanistan.

Come si vede, nel 2023 siamo molto oltre la media del trentennio, del ventennio, del decennio e del quinquennio, nonostante in tutti questi stessi periodi chi periodicamente pro tempore veniva eletto e governava prometteva e si autoattribuiva il potere di poter cambiare strutturalmente la dinamica dei flussi. Ogni singola norma cambiata ha prodotto certo qualche minuscolo cambiamento nei numeri apparenti in Italia (come le molecole che oscurano transitoriamente il risultato delle analisi biologiche del sangue) ma ha soprattutto peggiorato le condizioni e le aspettative di vita di chi era in cammino o in mare. Il 3 ottobre 2023 Save the Children ha diffuso alcuni dati in occasione del decennale di uno dei naufragi più tragici della storia recente del Mediterraneo, morirono 368 persone, quasi tutte eritree, a pochi metri dalle coste di Lampedusa: risultano morti o dispersi solo nel Mediterraneo oltre 28.000 individui sapiens, mentre erano in viaggio alla ricerca di un futuro migliore, di questi ben 1.143 erano minori non accompagnati senza figure adulte di riferimento. In questo 2023 i minori morti o dispersi in mare sono molti più di cento. E finora sono comunque arrivati in 15 mila, una percentuale sul totale degli arrivi cresciuta drasticamente rispetto al 2014.

Visto che chi partecipa al dibattito politico istituzionale raramente vi presta attenzione, sono soprattutto giornalisti e artisti che sottolineano il dramma dell’emigrazione, dei viaggi, dei transiti, vera grande questione irrisolta prima e più delle questioni immigratorie. Sotto questo punto di vista, il Sahara e il Mediterraneo sono meno unici e cruciali rispetto ad altre lande e acque di confine, almeno quantitativamente, pur se da sempre crocevia di tanti popoli, religioni, continenti, percorsi. A titolo d’esempio, il regista messicano premio Oscar Alejandro Iñárritu, dopo aver affrontato nei suoi film più volte il tema delle migrazioni, ha prestato la propria a voce narrante nel 2017 a un’istallazione che numerosi musei del mondo hanno ospitato dal titolo Carne y ArenaCarne e Sabbia, con l’obiettivo di proiettare “gli spettatori nella dura vita di un immigrato” nell’atto di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti. E la sua ultima opera Bardo inizia con una ripresa aerea del deserto. Ha poi spiegato che esiste “un grande equivoco quando si dipinge il migrante come un’opportunista economico: attraversare un deserto o il mare con temperature di oltre 42 gradi mette a rischio la vita. Le ragioni di ognuno sono diverse e ogni storia ha motivazioni profonde”. Del resto, anche Matteo Garrone con Io capitano ha compiuto una simile operazione.

Al di là del 18 dicembre in Europa e in Italia, prima e durante, ogni ora di ogni giorno, in ogni città di ogni paese, anche nel 2023 si è parlato di chi stava per emigrare o di annunciate immigrazioni. Dei singoli episodi e di molti eventi sono piene le cronache sugli organi di informazione. Molti governi si reggono o cadono su arzigogolati accordi legati al migrare (si vedano negli ultimissimi giorni la sentenza della Corte Costituzionale albanese che ha sospeso la procedura parlamentare del protocollo con l’Italia, il nuovo progetto sul Rwanda del premier Sunak nel Regno Unito, la pesante crisi istituzionale in corso in Francia sulla legge per regolare l’immigrazione, giusto per restare dalle nostre parti europee). Sarà così pure nei prossimi decenni. E, probabilmente, le elezioni politiche tenderanno a far acquisire maggior consenso a chi promette di garantire veti e chiusure e strette e blocchi contro l’immigrazione. Così va il mondo, di questi tempi, si celebri o meno una giornata delle migrazioni. Sono solo un poco rammaricato di garantire (più che di prevedere) che di qui al 2050 i sapiens migranti vivi aumenteranno, di numero e in percentuale. E che non avremo fatto abbastanza perché ciò possa e potrà avvenire in pace internazionale e civile convivenza.

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Storia di straordinaria resistenza

 

(Intervista di Luca Manes  al Collettivo GKN)

 

All’apparenza la vicenda della GKN di Campi Bisenzio, in Toscana, è quella di un’ordinaria speculazione finanziaria, con un fondo, Melrose, che si compra la società, la smembra e manda per strada centinaia di operai. GKN è un’azienda che realizza componenti di automotive ed è tutt’altro che in crisi profonda al momento dell’arrivo del fondo. Anche questo è un elemento ricorrente in situazioni analoghe.

Ma quella della GKN di Campi Bisenzio è anche, e soprattutto, una storia di straordinaria resistenza, che per fortuna ha avuto anche una giusta eco sui media italiani. Il giorno del licenziamento, nell’estate del 2021, è infatti cominciata l’occupazione dell’impianto da parte dei lavoratori, riuniti nel Collettivo di fabbrica. Occupazione che va avanti senza interruzione. Per capirne di più delle ragioni e della visione del Collettivo, lo abbiamo incontrato e posto ai suoi esponenti alcune domande. Ne è uscita fuori una lunga intervista, che parla del loro impegno a tutto tondo, toccando temi di fondamentale importanza come la transizione ecologica e il cambio di modello produttivo.   

1.      Quali sono gli ultimi aggiornamenti sulla vostra lotta?

Il 18 ottobre si è riaperta la procedura di licenziamento e, ad oggi, sarà definitiva il primo gennaio 2024. L’abbiamo chiamata l’ora x: quella in cui lo stabilimento viene “liberato” dai dipendenti, cessa di essere una realtà industriale, sindacale, una comunità operaia e diventa un puro fabbricato, da svuotare e immettere sul mercato immobiliare. Una potenziale speculazione immobiliare che segue quella finanziaria: un doppio crimine sociale in una zona che è appena stata colpita dall’alluvione, provocata dai cambiamenti climatici e da speculazioni edilizie.

2.                  Perché quella della GKN è una lotta sistemica e quanto è replicabile in altri contesti, anche dissimili dalla realtà industriale in cui opera la stessa azienda?

Non so se la lotta GKN è antisistemica. So che il sistema è antilotta GKN. Noi il 9 luglio 2021 eravamo semplicemente alla catena di montaggio a produrre. E da lì ci hanno tolto licenziandoci. Più che disquisire su quanto noi siamo anti-capitalisti, bisognerebbe parlare di quanto il capitalismo è anti-noi.

Esiste un mondo che ha chiuso questo stabilimento: sovrapproduzione, finanziarizzazione dell’economia, disimpegno di Stellantis, mancanza di intervento statale, complicità della politica. Noi non abbiamo fatto altro che resistere. Per resistere un giorno o un mese, devi tenere duro. Per resistere due anni e mezzo devi avere un progetto. Sono le circostanze che ci hanno spinto a elaborare un progetto industriale. E per farlo non potevamo che partire da chi ha difeso la fabbrica: gli operai, il movimento climatico, le reti di solidarietà e convergenza. Dalla difesa nasce il rilancio. Non è una vicenda necessariamente replicabile, ma sicuramente esemplare. Il nostro non è un piano di per sé antisistemico: la singola fabbrica non può sfuggire al mercato. Eppure il nostro esempio dà fastidio a un sistema.

3.                  Da quali esempi avete tratto ispirazione per condurre la vostra lotta?

Abbiamo studiato ogni vertenza prima di noi, del recente o remoto passato. Apollon (Roma 1969), Innse, ecc., e alla fine abbiamo tratto indicazioni dal percorso di Rimaflow a Milano. E in generale abbiamo dovuto prendere atto di essere nel mezzo di un caso “argentino”: quando i tempi della resistenza di una singola fabbrica non coincidono con quelli dell’ascesa generale di un movimento di massa, assistiamo al fenomeno dell’autorecupero della fabbrica. E quindi abbiamo dovuto fare mente locale sul caso delle fabbriche recuperate argentine. Con ognuno dei casi citati, ci sono analogie e differenze. Una differenza su tutte: noi non stiamo recuperando la fabbrica con la sua produzione originale. Abbiamo dovuto – e voluto per alcuni aspetti – elaborare un piano di riconversione ecologica.

4.                  Quale può essere il contributo della GKN all’accidentato percorso della transizione ambientale, che tanti vorrebbero essere in atto, ma che in realtà, al netto del greenwashing, tarda a partire?

Esistono tecnologie più verdi di altre. Ma non esiste nessuna tecnologia verde implementabile su larga scala senza un piano sociale di cambiamento dell’economia: radicale, urgente. E non esiste piano sociale senza controllo sociale sulla produzione. Quello che abbiamo appreso è che la capacità della classe di resistere nella difesa dei propri diritti sociali a un certo punto produce anche una capacità della classe di conoscere, controllare, indirizzare le scelte su chi, come, che cosa produrre. Nei suoi picchi storici il movimento sindacale produce democrazia radicale, consiliare. La democrazia radicale produce capacità di entrare nel merito dei processi produttivi. Senza tale contributo, la transizione ecologica non si dà, o non è controllabile. Che poi è la stessa cosa.

5.                   GKN potrebbe essere anche un primo passo nella giusta direzione del cambio di modello? Quale puo’ essere vostro punto di forza per innestare un circolo virtuoso in proposito?

Ripeto che non siamo un modello. La singola fabbrica non può ergersi a modello. Siamo però un esempio. E questo esempio domani potrebbe esprimersi in comunicati, volantini, studi ma anche con prodotti tangibili. Cargobike prodotte sotto controllo operaio a disposizione di un delivery differente nel tessuto urbano. Pannelli fotovoltaici al servizio di comunità energetiche che “democratizzino” l’energia e la sua distribuzione. Enti locali o istituti pubblici che partecipano alla cooperativa e in cambio ricevono pannelli da usare per creare fondi con cui abbattere le morosità incolpevoli delle comunità circostanti. Gli esempi sono tanti, potenzialmente contagiosi. Ripeto: rifiutiamo ogni tipo di idealizzazione di questo processo. Non stiamo teorizzando nulla di nuovo o l’oasi felice nel mercato. Stiamo dicendo che è una grande occasione per dire: si può, si potrebbe. Persa questa occasione, cosa diremo alla prossima azienda in crisi?

6.                  Secondo il vostro collettivo di fabbrica per quale motivo non riuscite ad accedere ai fondi pubblici per le aziende recuperate? Che cosa vi aspettate in futuro in merito?

Gli assunti dell’attuale politica fanno sì che il pubblico non interviene senza privato. Ma solo a servizio del privato e delle sue perdite, spesso. Il privato non interviene con una visione pubblica.

Il prodotto che vogliamo fare non esiste. Per esistere ha bisogno di un investimento. Il privato non investe se il prodotto non esiste. Il prodotto non esiste senza l’investimento sulla linea industriale per avere il prodotto. Il mercato scarica sulle novità verdi tutta la propria inerzia e il proprio conservatorismo. Per questo la transizione produttiva necessita dell’intervento di un soggetto che abbia il bene pubblico tra i propri obiettivi.

Siamo in questo circolo vizioso e ci siamo attrezzati per provare a romperlo, con ogni mezzo a nostra disposizione. Ma anche quando riuscissimo a romperlo completamente, rimane il nodo dello stabilimento. Dal punto di vista finanziario stiamo parlando di bazzecole per i grandi gruppi pubblici e privati. Con una cifra che oscilla tra i 10 e 50 milioni di euro si chiuderebbe la partita e daremmo a questo Paese un polo delle rinnovabili e della mobilità leggera. Il gettito fiscale positivo prodotto sarebbe di gran lunga superiore. L’Italia avrebbe transizione, entrate fiscali e posti di lavoro.

La verità è che qua, oltre a una partita di soldi, si gioca un’altra partita: quella della prerogativa sociale. Una multinazionale deve avere il diritto di chiudere, aprire, smembrare, cementificare, scappare, rivendere, umiliare un territorio. Riaprire GKN, per di più con una reindustrializzazione, è lesa maestà a tale prerogativa.

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Un regime tra i banchi di scuola - Giovanna Mulas

  

Qualche anno fa ho assistito alla proiezione di un film di cui consiglio vivamente visione e riflessione: L’Onda (Die Welle, 2008), diretto da Dennis Gansel e tratto dall’omonimo romanzo di Todd Strasser; basato su un reale esperimento condotto in un liceo californiano nel 1967 dal docente di storia Ron Jones, al fine d’indagare l’espansione del nazional-socialismo e l’indottrinamento della popolazione germanica. Nel film, per spiegare ai suoi studenti liceali il concetto di autocrazia, l’insegnante li coinvolge in un esperimento di “regime dittatoriale” fra i banchi di scuola. Per una settimana dovranno rispondere al rigido sistema disciplinare di “Herr Wenger”, uniformarsi a un codice di abbigliamento e esercitare assieme in un’ottica di organismo gerarchico, isolando o inibendo gli eventuali dissidenti.

In pochi giorni anche i ragazzi caratterialmente più fragili scoprono uno spirito di cameratismo vincente, governano le proprie paure attorno alla figura del carismatico cattivo maestro sentendosi autorizzati a promuovere la violenza in nome della nuova unità acquisita, in una operazione che arriva a fuggire dalle mura dell’edificio scolastico e dal controllo dello stesso insegnante.

Sarà tragedia.

Secondo Darwin la forma originaria della società umana fu quella di un’orda (dal tartaro, a designare le torme dei tartari erranti, tribù, accampamento; passato in occidente attraverso le lingue slave e il persiano con le invasioni mongoliche, estendendo il proprio significato da generico accampamento, a quartier generale, a esercito, fino al significato attuale) sottoposta al dominio illimitato di un maschio forte.

Credete sia possibile, oggi e nella civilizzata Italia, una nuova dittatura? Potenza assoluta di un monarca non vincolato da nessuna legge. Qualcuno crede che l’autocrazia sia da escludere; dopo tutto ne conosciamo le conseguenze. Continuo a pensare a Nietzsche: “…come uno spirito di uccello profetico, che guarda all’indietro quando racconta ciò che verrà”. Per Gustave Le Bon – antropologo, psicologo e sociologo francese – ciò che colpisce in una massa è che gli individui che la compongono, indipendentemente da tipo di vita, occupazioni, temperamento o intelligenza, acquisiscono un’anima collettiva per il solo fatto di trasformarsi in massa. Quest’anima li fa sentire, pensare e agire in modo del tutto diverso da come ciascuno di loro, isolatamente, sentirebbe, penserebbe e agirebbe. La massa è creatura provvisoria, impulsiva, mutevole, irritabile, composta da elementi eterogenei saldati per un istante.

I nostri atti coscienti derivano da substrato inconscio formato da influenze ereditarie. Questo substrato racchiude gl’innumerevoli residui ancestrali che costituiscono l’anima della razza umana. E dietro i nostri atti, nelle cause da noi confessate, ve ne sono di altre da noi stessi ignorate. L’individuo in massa acquista, per il solo fatto del numero, sentimento di potenza invincibile. La massa è anonima, quindi irresponsabile. La personalità consapevole è abolita, la volontà e il discernimento svaniti.

L’individuo immerso nella massa scende di parecchi gradini la scala della civiltà: ha il comportamento di un bambino indisciplinato, è ipnotizzato, automa, incapace di essere guidato dalla propria volontà, è un istintivo con la ferocia e la violenza degli esseri primitivi. Tuttavia la massa è un gregge docile che non può vivere senza un padrone. Trovo interessante un esempio fornitoci da Sigmund Freud: può accadere in un collegio che una delle ragazze riceva da colui che ama segretamente una lettera che la fa ingelosire, alla quale reagisce con un attacco isterico. Alcune sue amiche al corrente della cosa contraggono l’attacco per quella che è detta “infezione psichica”. Un tradimento, o presunto tale, da parte del partner, potrebbe accadere anche a loro, visto che vivono la stessa condizione di amore segreto. Il meccanismo è quello dell’identificazione indotta dalla possibilità o dalla volontà di trasporsi nella medesima situazione. Ecco, dall’identificazione parte la strada che, passando per l’imitazione, giunge all’immedesimazione. Nella massa ognuno s’identifica nell’altro, tutti sono immedesimati nel Capo, il leader che, con forza e potenza superiore, dovrà rappresentarli.

Ora la domanda è: che accade se questo leader delude il gregge-massa?. È fondamentale, per la sopravvivenza della massa, che tutti vengano amati nello stesso modo, senza preferenza di sorta, dallo stesso individuo, quello appunto ritenuto il capo, il leader. L’esigenza di uguaglianza della massa vale solo per i singoli membri, non per il capo. Tutti i singoli vogliono essere dominati da uno solo, molti uguali che s’identificano l’un l’altro e un unico superiore a tutti.

Ora analizziamo l’uomo della società civilizzata a cellulare e web. Mettiamolo al buio, terrorizziamolo: assenza storica di una politica sociale e culturale, disoccupazione ai massimi storici, corruzione, fame, suicidi, depressioni, mancanza di dignità, nuova repressione giustificata con la crescita della violenza, individualismo. Dall’altro lato, nuova consapevolezza che ricchezza e potere sono sempre stati e restano concentrati in pochi, stessi elementi… . Ogni regola verrà annullata: si tornerà primitivi. Facciamo in modo che le persone abbiano paura del presente e del futuro, si farà fare loro qualsiasi cosa: si rivolgeranno a chiunque prometta una soluzione. Ritengo avvenga una sorta di mimetismo speculare: uno slittamento dell’identità da uomo a uomo, dal buio a una parvenza di luce. L’identità verrà catalizzata dalla gerarchia rassicurante.

Quanta responsabilità in tutto questo da parte di politica e religione? Ancora: cosa e come la politica, o la religione, sono in grado di fare per generare il coinvolgimento malato nelle masse? Dopo, appena dopo, le identità speculari sfuggono al controllo.

Avremo a che fare con attori che scoprono la recitazione soltanto nel momento in cui il sipario si apre. Si presuppone un lungo lavoro preparatorio di sistemazione e propaganda: in una società che ha perso consapevolezza tra vero e falso (e la realtà in sé, essendo umana, non è mai univocamente decifrabile), per sopportare il peso della verità o almeno ciò che più avvicina alla verità, occorre grande maturità che può svilupparsi solo tramite l’accettazione del diverso. Ricordiamo che quanto più è forte la mancanza della libertà, tanto più è forte l’insofferenza verso chi dice la verità; un livello profondo di verità implica un livello ugualmente profondo di libertà. Pure, è fondamentale saper dosare la verità in base alla capacità di ricezione altrui: nella reciprocità sta il segreto della disponibilità ad accettare i rapporti basati sulla verità. Qui deve lavorare un movimento politico: l’unità di metodo e contenuto garantiscono alla verità relativa di essere vera. La dialettica, il confronto delle opinioni risulterà di debole impatto se non ci si avvale anche del confronto delle esperienze. Durante i diversi momenti di un’evoluzione economica e in base alle diverse condizioni politiche, culturali-nazionali e sociali, differenti devono essere le forme di resistenza, pronte a correggersi quindi a correggere le forme di opposizione marginali.

L’arte come può sostenere i tempi e gli eventi? Sono convinta che occorra rivolgersi verso le componenti progressive della società, provare a stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita: che l’arte sia denuncia coraggiosa. Sapendo anche di perdere la battaglia, ma non per questo rinunciando a combatterla. Che sia un sentito, autentico Anniversario della liberazione d’Italia dal nazifascismo: in rispetto A, per onore di Quanti son caduti con dignità e onore, che calpestiamo con ignoranza e superbia con scelte politiche malsane. E in rispetto A, per onore Di quanti tra noi, oggi e domani, cadranno.


*Estratto da Oratio de hominis dignitate, saggio (Fontana editore), diffuso in rete in occasione del 25 Aprile 2022


Giovanna Mulas, scrittrice. Tra i suoi ultimi libri La consistenza dell’acqua (A&B editore) e La teoria delle cento scimmie (Ciesse Ed.).

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