(Intervista di Luca Manes al Collettivo GKN)
All’apparenza
la vicenda della GKN di Campi Bisenzio, in Toscana, è quella di un’ordinaria
speculazione finanziaria, con un fondo, Melrose, che si compra la società, la
smembra e manda per strada centinaia di operai. GKN è un’azienda che realizza
componenti di automotive ed è tutt’altro che in crisi profonda al momento
dell’arrivo del fondo. Anche questo è un elemento ricorrente in situazioni
analoghe.
Ma quella
della GKN di Campi Bisenzio è anche, e soprattutto, una storia di straordinaria
resistenza, che per fortuna ha avuto anche una giusta eco sui media italiani.
Il giorno del licenziamento, nell’estate del 2021, è infatti cominciata
l’occupazione dell’impianto da parte dei lavoratori, riuniti nel Collettivo di
fabbrica. Occupazione che va avanti senza interruzione. Per capirne di più
delle ragioni e della visione del Collettivo, lo abbiamo incontrato e posto ai
suoi esponenti alcune domande. Ne è uscita fuori una lunga intervista, che
parla del loro impegno a tutto tondo, toccando temi di fondamentale importanza
come la transizione ecologica e il cambio di modello
produttivo.
1. Quali sono gli ultimi aggiornamenti
sulla vostra lotta?
Il 18
ottobre si è riaperta la procedura di licenziamento e, ad oggi, sarà definitiva
il primo gennaio 2024. L’abbiamo chiamata l’ora x: quella in cui lo
stabilimento viene “liberato” dai dipendenti, cessa di essere una realtà
industriale, sindacale, una comunità operaia e diventa un puro fabbricato, da
svuotare e immettere sul mercato immobiliare. Una potenziale speculazione immobiliare
che segue quella finanziaria: un doppio crimine sociale in una zona che è
appena stata colpita dall’alluvione, provocata dai cambiamenti climatici e da
speculazioni edilizie.
2.
Perché quella della GKN è una lotta sistemica e quanto è replicabile in
altri contesti, anche dissimili dalla realtà industriale in cui opera la stessa
azienda?
Non so se la
lotta GKN è antisistemica. So che il sistema è antilotta GKN. Noi il 9 luglio
2021 eravamo semplicemente alla catena di montaggio a produrre. E da lì ci
hanno tolto licenziandoci. Più che disquisire su quanto noi siamo
anti-capitalisti, bisognerebbe parlare di quanto il capitalismo è anti-noi.
Esiste un
mondo che ha chiuso questo stabilimento: sovrapproduzione, finanziarizzazione
dell’economia, disimpegno di Stellantis, mancanza di intervento statale,
complicità della politica. Noi non abbiamo fatto altro che resistere. Per
resistere un giorno o un mese, devi tenere duro. Per resistere due anni e mezzo
devi avere un progetto. Sono le circostanze che ci hanno spinto a elaborare un
progetto industriale. E per farlo non potevamo che partire da chi ha difeso la
fabbrica: gli operai, il movimento climatico, le reti di solidarietà e
convergenza. Dalla difesa nasce il rilancio. Non è una vicenda necessariamente
replicabile, ma sicuramente esemplare. Il nostro non è un piano di per sé
antisistemico: la singola fabbrica non può sfuggire al mercato. Eppure il
nostro esempio dà fastidio a un sistema.
3.
Da quali esempi avete tratto ispirazione per condurre la vostra lotta?
Abbiamo
studiato ogni vertenza prima di noi, del recente o remoto passato. Apollon
(Roma 1969), Innse, ecc., e alla fine abbiamo tratto indicazioni dal percorso
di Rimaflow a Milano. E in generale abbiamo dovuto prendere atto di essere nel
mezzo di un caso “argentino”: quando i tempi della resistenza di una singola
fabbrica non coincidono con quelli dell’ascesa generale di un movimento di
massa, assistiamo al fenomeno dell’autorecupero della fabbrica. E quindi
abbiamo dovuto fare mente locale sul caso delle fabbriche recuperate argentine.
Con ognuno dei casi citati, ci sono analogie e differenze. Una differenza su
tutte: noi non stiamo recuperando la fabbrica con la sua produzione originale.
Abbiamo dovuto – e voluto per alcuni aspetti – elaborare un piano di
riconversione ecologica.
4.
Quale può essere il contributo della GKN all’accidentato percorso della
transizione ambientale, che tanti vorrebbero essere in atto, ma che in realtà,
al netto del greenwashing, tarda a partire?
Esistono
tecnologie più verdi di altre. Ma non esiste nessuna tecnologia verde
implementabile su larga scala senza un piano sociale di cambiamento
dell’economia: radicale, urgente. E non esiste piano sociale senza controllo
sociale sulla produzione. Quello che abbiamo appreso è che la capacità della
classe di resistere nella difesa dei propri diritti sociali a un certo punto
produce anche una capacità della classe di conoscere, controllare, indirizzare
le scelte su chi, come, che cosa produrre. Nei suoi picchi storici il movimento
sindacale produce democrazia radicale, consiliare. La democrazia radicale
produce capacità di entrare nel merito dei processi produttivi. Senza tale
contributo, la transizione ecologica non si dà, o non è controllabile. Che poi
è la stessa cosa.
5.
GKN
potrebbe essere anche un primo passo nella giusta direzione del cambio di
modello? Quale puo’ essere vostro punto di forza per innestare un circolo
virtuoso in proposito?
Ripeto che
non siamo un modello. La singola fabbrica non può ergersi a modello. Siamo però
un esempio. E questo esempio domani potrebbe esprimersi in comunicati,
volantini, studi ma anche con prodotti tangibili. Cargobike prodotte sotto
controllo operaio a disposizione di un delivery differente nel
tessuto urbano. Pannelli fotovoltaici al servizio di comunità energetiche che
“democratizzino” l’energia e la sua distribuzione. Enti locali o istituti
pubblici che partecipano alla cooperativa e in cambio ricevono pannelli da
usare per creare fondi con cui abbattere le morosità incolpevoli delle comunità
circostanti. Gli esempi sono tanti, potenzialmente contagiosi. Ripeto:
rifiutiamo ogni tipo di idealizzazione di questo processo. Non stiamo
teorizzando nulla di nuovo o l’oasi felice nel mercato. Stiamo dicendo che è
una grande occasione per dire: si può, si potrebbe. Persa questa occasione,
cosa diremo alla prossima azienda in crisi?
6.
Secondo il vostro collettivo di fabbrica per quale motivo non riuscite ad
accedere ai fondi pubblici per le aziende recuperate? Che cosa vi aspettate in
futuro in merito?
Gli assunti
dell’attuale politica fanno sì che il pubblico non interviene senza privato. Ma
solo a servizio del privato e delle sue perdite, spesso. Il privato non
interviene con una visione pubblica.
Il prodotto
che vogliamo fare non esiste. Per esistere ha bisogno di un investimento. Il
privato non investe se il prodotto non esiste. Il prodotto non esiste senza
l’investimento sulla linea industriale per avere il prodotto. Il mercato
scarica sulle novità verdi tutta la propria inerzia e il proprio
conservatorismo. Per questo la transizione produttiva necessita dell’intervento
di un soggetto che abbia il bene pubblico tra i propri obiettivi.
Siamo in
questo circolo vizioso e ci siamo attrezzati per provare a romperlo, con ogni
mezzo a nostra disposizione. Ma anche quando riuscissimo a romperlo
completamente, rimane il nodo dello stabilimento. Dal punto di vista
finanziario stiamo parlando di bazzecole per i grandi gruppi pubblici e
privati. Con una cifra che oscilla tra i 10 e 50 milioni di euro si chiuderebbe
la partita e daremmo a questo Paese un polo delle rinnovabili e della mobilità
leggera. Il gettito fiscale positivo prodotto sarebbe di gran lunga superiore.
L’Italia avrebbe transizione, entrate fiscali e posti di lavoro.
La verità è
che qua, oltre a una partita di soldi, si gioca un’altra partita: quella della
prerogativa sociale. Una multinazionale deve avere il diritto di chiudere,
aprire, smembrare, cementificare, scappare, rivendere, umiliare un territorio.
Riaprire GKN, per di più con una reindustrializzazione, è lesa maestà a tale
prerogativa.
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