venerdì 1 dicembre 2023

Dice un proverbio africano: quando due vicini litigano, prima è passato un inglese

 


articoli e video di Francesco Dall’Aglio, Ariel Umpièrrez, John Mearsheimer, Fulvio Scaglione, Ennio Remondino, Fabio Ruzzarin, Fabio Mini, Ugo Mattei, Giacomo Gabellini, Stefano Orsi, Fabrizio Poggi, Marco Travaglio, Ezequiel Bistoletti, Alberto Capece, Alessandro Orsini, Sara Reginella, Sergei Lavrov, Gaetano Colonna, Laura Ruggeri, Tatiana Santi, Giuliano Marrucci


La ritirata di Russia – Marco Travaglio

Martedì Repubblica ha intervistato in pompa magna Anna Netrebko, “regina della lirica, soprano russa senza confronti, voce da brivido, vigore espressivo, piglio da diva, milioni di follower e carisma ammaliante”, “scoperta dal geniale direttore Valery Gergiev, vicino a Putin”. A dieci giorni dalla prima della Scala che la vedrà mattatrice nel Don Carlo di Verdi, si è concessa in “esclusiva” a Rep “a patto di non citare quei temi” (la guerra in Ucraina). E Rep ha subito accettato: “Bello prendersi una vacanza dai fuochi e affrontare il ritratto del suo personaggio verdiano”. Non bello: bellissimo. Abbiamo atteso 24 ore prima di scriverne per dare modo ai Riotta, Mieli, Polito, Cappellini, Severgnini, Folli, Grasso, Sarzanini, Guerzoni, Iacoboni e gli altri atlantisti nostrani di infilare Rep in una nuova lista di putiniani servi della cyberpropaganda russa. Invece tutti zitti e Mosca.

Sembra passato un secolo, non 18 mesi, da quando la “regina della lirica” dovette ritirarsi dalla Scala perché Sala e il teatro avevano cacciato il “geniale direttore” Gergiev per putinismo molesto. Altri teatri cancellavano i balletti di Tchaikovsky e altri musicisti protoputiniani. La Fiera del libro per ragazzi di Bologna bandiva editori e autori russi. Il Festival della fotografia di Reggio Emilia rimandava indietro il russo Gronsky, così putiniano che appena rientrò a Mosca sfilò in un corteo contro la guerra di Putin e fu arrestato dalla polizia di Putin. Gli atleti russi, olimpici e pure paralimpici, erano banditi dalle gare o costretti a parteciparvi senza bandiere. La Bicocca, dopo approfondite ricerche, scoprì che era russo anche tal Dostoevskij, sedicente scrittore che, con Tolstoj, Cechov, Puskin, Gogol’ e altri putribondi figuri, minacciava di diffondere la propaganda putiniana e sospese il seminario di Paolo Nori sulle sue opere. Mezzo mondo cancellò i film russi e i corsi di russo. Le fiere feline squalificarono i gatti russi per evitare miagolii putinisti. Il concorso Albero dell’Anno espulse la quercia di Turgenev (pure lui proditoriamente russo). Banditi anche gli intellettuali e artisti ucraini che avevano osato nascere o esibirsi in Donbass o in Crimea. La delegazione russa fu estromessa dalle celebrazioni per la liberazione di Auschwitz, notoriamente liberato non dall’Armata Rossa, ma dagli ucraini e dagli americani (come ne La vita è bella di Benigni). Il tutto fra le standing ovation della stampa atlantista. La stessa che ora copia Orsini, relega l’eroico Zelensky nei trafiletti, invoca un compromesso Mosca-Kiev prima che si noti la disfatta Nato e stende tappeti rossi alla regina putiniana della lirica, che si esibirà non a caso dinanzi a La Russa. Di questo passo c’è pure il rischio che riabilitino quel Dostoevskij.

da qui

Il mito che Putin fosse intenzionato a conquistare l’Ucraina e a creare una Grande Russia – John Mearsheimer

Un numero crescente di prove convincenti dimostra che la Russia e l’Ucraina sono state coinvolte in seri negoziati per porre fine alla guerra in Ucraina subito dopo il suo inizio, il 24 febbraio 2022 (vedi sotto). Questi colloqui sono stati facilitati dal Presidente turco Recep Erdogan e dall’ex Primo Ministro israeliano Naftali Bennett e sono stati caratterizzati da discussioni dettagliate e sincere sui termini di un possibile accordo.

A detta di tutti, questi negoziati, che si sono svolti nel marzo-aprile 2022, stavano facendo progressi reali quando la Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno detto al Presidente ucraino Zelensky di abbandonarli, cosa che egli ha fatto.

La cronaca di questi eventi si è concentrata su quanto sia stato sciocco e irresponsabile da parte del Presidente Joe Biden e del Primo Ministro Boris Johnson porre fine a questi negoziati, considerando tutte le morti e le distruzioni che l’Ucraina ha subito da allora – in una guerra che Kyiv probabilmente perderà.

Tuttavia, un aspetto particolarmente importante di questa storia, riguardante le cause della guerra in Ucraina, ha ricevuto poca attenzione. La convinzione convenzionale ben radicata in Occidente è che il Presidente Putin abbia invaso l’Ucraina per conquistare il Paese e renderlo parte di una Grande Russia. Poi, si sarebbe spostato a conquistare altri Paesi dell’Europa orientale. La controargomentazione, che gode di scarso sostegno in Occidente, è che Putin sia stato motivato all’invasione soprattutto dalla minaccia che l’Ucraina entrasse nella NATO e diventasse un baluardo occidentale al confine con la Russia. Per lui e per altre élite russe, l’Ucraina nella NATO era una minaccia esistenziale.

I negoziati del marzo-aprile 2022 chiariscono che la convinzione convenzionale sulle cause della guerra è sbagliata e la controargomentazione è giusta, per due ragioni principali. In primo luogo, i negoziati si sono concentrati direttamente sulla soddisfazione della richiesta della Russia di non far entrare l’Ucraina nella NATO e di diventare invece uno Stato neutrale. Tutti coloro che hanno partecipato ai negoziati hanno capito che il rapporto dell’Ucraina con la NATO era la preoccupazione principale della Russia. In secondo luogo, se Putin fosse stato intenzionato a conquistare tutta l’Ucraina, non avrebbe accettato questi colloqui, poiché la loro stessa essenza contraddiceva qualsiasi possibilità di conquista dell’intera Ucraina da parte della Russia.

Si potrebbe sostenere che Putin abbia partecipato a questi negoziati e abbia parlato molto di neutralità per mascherare le sue ambizioni più grandi. Non ci sono prove, tuttavia, a sostegno di questa linea di argomentazione, senza contare che: 1) la piccola forza d’invasione russa non era in grado di conquistare e occupare tutta l’Ucraina; e 2) non avrebbe avuto senso ritardare un’offensiva più ampia, perché avrebbe dato all’Ucraina il tempo di costruire le proprie difese.

In breve, Putin ha lanciato un attacco limitato in Ucraina allo scopo di costringere Zelensky ad abbandonare la politica di allineamento di Kiev con l’Occidente e a far entrare l’Ucraina nella NATO. Se la Gran Bretagna e l’Occidente non fossero intervenuti per ostacolare i negoziati, ci sono buone ragioni per pensare che Putin avrebbe raggiunto questo obiettivo limitato e avrebbe accettato di porre fine alla guerra.

Vale anche la pena ricordare che la Russia ha annesso gli oblast ucraini di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia solo nel settembre 2022, ben dopo la fine dei negoziati. Se fosse stato raggiunto un accordo, l’Ucraina controllerebbe quasi certamente una quota molto maggiore del suo territorio originario rispetto a quella attuale.

È sempre più chiaro che, nel caso dell’Ucraina, il livello di stupidità e disonestà delle élite occidentali e dei media mainstream occidentali è sbalorditivo.

da qui

 

 

LA GUERRA, DI COLPO, NON CI PIACE PIU’ – Fulvio Scaglione

L’infilata è stata notevole. Prima Time Magazine, con un reportage spietato da Kiev, protagonista un presidente Zelens’kyj che, nelle confidenze dei suoi stessi collaboratori, sembra aver perso il senso della realtà. Poi The Guardian, impegnato a raccontare la disillusione e il pessimismo degli ucraini mentre la guerra si prolunga.  Quindi il Wall Street Journal, che invita a rimettere i piedi per terra quanto a sconfitta della Russia. Per chiudere Gazeta Wiborcza, il più importante quotidiano polacco, che titola “Mosca trionfa, l’Occidente esita”, e parla di “vergognoso fallimento” (nostro) nella guerra in Ucraina. Questo ammosciamento generale mi fa poca impressione: è assolutamente speculare al ridicolo entusiasmo che su queste stesse testate dilagava un anno fa, quando Zelens’kyj e i suoi parlavano addirittura di marcia su Mosca. Ho scritto sempre che questa guerra non avrà vincitori ma solo sconfitti e resto del mio parere. Anche per quanto riguarda la Russia che, al di là delle pesanti conseguenze militari, politiche ed economiche, spostandosi verso l’Asia rinnega la sua anima più vera e profonda.

Resto del mio parere anche su un altro fatto, che cercai di sottolineare più di un anno fa, quando nella nostra povera provincia informativa impazzava la caccia al putiniano. Scrissi per Lettera da Mosca che i veri putiniani “cioè quelli che fanno gli interessi di Vladimir Putin e della classe dirigente russa che abita il Cremlino, sono proprio i sostenitori della guerra senza se e senza ma, della guerra da condurre fino allo sfinimento delle forze armate russe e/o al tracollo economico della Russia e a quello sociale del popolo russo, considerato colpevole quanto i suoi leader”. E anche qui non era difficile azzeccare il pronostico.

Tutto quello spirito combattivo, tutta quell’ansia di “fargliela vedere”, infatti, si basava su previsioni minate alla base da  due errori fondamentali, da due sottovalutazioni fatali. Il primo errore: sottostimare la Russia in generale e il Cremlino in particolare. Non sembra ma erano e sono molti quelli convinti che avesse ragione il povero (perché è morto giovane e perché non era molto acuto) John McCain quando diceva che la Russia non è altro che una pompa di benzina travestita da Stato. Piace vincere facile. E invece eccola lì la tua pompa di benzina, che resiste a migliaia di sanzioni, riconverte l’apparato industriale in un’economia di guerra e tira avanti più che bene. E poi, altra previsione sbagliata: tutti a immaginare rivolte di piazza e complotti anti-Putin. Nulla di tutto questo, Prigozhin parzialmente a parte. A colpi di servizi segreti, intimidazioni e leggi repressive il Cremlino ha tenuto il controllo del Paese. Cosa che peraltro non sarebbe riuscita (e anche questa banalità la scrivo da molti anni) se dietro Putin non ci fosse anche il consenso di una parte più o meno importante della popolazione.

L’altro errore fondamentale è stato sottovalutare la situazione internazionale. Ovvero, non rendersi conto che c’era tutta una serie di Paesi che della politica occidentale a trazione Usa ne aveva piene le tasche. D’altra parte, come poteva essere diversamente dopo l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, la Libia  ecc. ecc.? Dopo l’ascesa della Cina e dell’India, dopo gli infiniti pasticci americani in America Latina? Come potrebbe essere diversamente se il pensiero del responsabile della politica estera (e quindi della diplomazia) dell’Unione europea, Josep Borrell, è che l’Europa è un giardino e tutto il resto una giungla? Questo ha fatto si che, al momento dello scontro anche economico con l’Occidente, la Russia trovasse un sacco di sponde. L’Iran, la Cina, certo. Ma anche Paesi da sempre alleati dell’Occidente: per esempio l’Arabia Saudita, che nell’Opec+ collabora con la Russia per tenere discretamente alti i prezzi del petrolio, tanto che il famoso “tetto” dei 60 dollari a barile, decretato dal presuntuosissimo G7, è andato subito a farsi benedire. Come testimonia il Financial Times, il petrolio russo è andato venduto a non meno di 75-80 dollari a barile per tutto l’anno. Quelle sponde hanno aiutato la Russia a resistere alle sanzioni e a chiudere il 2023 con un attivo di 75 miliardi di dollari nella bilancia commerciale.

Il risultato di questa incredibile approssimazione politica è quello che abbiamo sotto gli occhi e che i giornali fin qui citati (nessuno sospettabile di putinismo, vero?) stanno cominciando a descrivere. E dunque avevo ragione. I putiniani veri erano quelli che incitavano alla guerra, senza rendersi conto del pasticcio in cui andavamo a infilarci. Un pasticcio, peraltro, che il radar delle opinioni publiche ha intercettato da tempo. Davvero nessuno nota  che quasi tutti i Governi europei che erano in carica nella prima fase della guerra sono stati mandati a casa come in Slovacchia (dove ora è premier quel Robert Fico che è considerato filorusso) o in Finlandia o in Italia o nel Regno Unito, o feriti a morte come in Polonia (lì avevano fiutato l’aria e avevano cominciato a litigare con l’Ucraina ma il Pis di Jaroslaw Kacsinski non riuscirà a formare una coalizione) o in Olanda, dove il partito più votato e quello del razzista Geert Wilders, di solito definito filorusso.  Altrove l’hanno sfangata con esiti paradossali come in Spagna dove il premier Sanchez, pur di restare in carica, si è acconciato all’amnistia per i separatisti catalani. E l’autonomismo catalano, per molti qui da noi e in Europa, a suo tempo era un prodotto degli hacker russi!

Sapete quali sono stati i due massimi putiniani? Angela Merkel e Francois Hollande. Hanno confessato, anche con un certo orgoglio, di aver lavorato, dopo il Maidan del 2014 e la ribellione del Donbass, non per realizzare gli Accordi di Minsk o comunque trovare una via per la pace ma per rafforzare militarmente l’Ucraina. Non sarebbe stato meglio invece cercare una soluzione negoziata? Oggi davvero pensiamo che, rinunciando a priori a quella prospettiva, Merkel e Hollande abbiano fatto un favore all’Ucraina e all’Europa?

da qui

 

 


La guerra di cui tutti sono stanchi: mancano uomini, soldi, armi e soluzioni – Ennio Remondino

Con la crisi mediorientale che nessuno sa come potrà andare a finire, e la Cina che resta affacciata su Taiwan, la guerra impantanata d’Ucraina, voragine senza fine, diventa eccessiva anche per superpotenza. «Gli Usa potrebbero scaricare sull’Ue il peso della fornitura di armi», l’allarme di Francesco Palmas su Avvenire. In realtà, è da tempo che il comando Usa-Nato prova a scaricare in casa Ue più oneri possibili. Mentre sull’altro fronte, i russi aumentano i fondi, ma sembrano incapaci di fermare l’inerzia, sostiene chi capisce di cose militari.

Combattere non attrae più

In Ucraina, i due belligeranti non hanno mai comunicato né le perdite subite, né lo stato degli arsenali, rendendo azzardata ogni previsione sulla guerra. «Sappiamo però che combattere non attrae più», avverte Palmas. Perfino il comandante supremo ucraino, rimbrottato da Zelensky, si è detto pessimista sulle capacità del Paese: «Potremmo ritrovarci senza effettivi», ha confidato all’Economist. E l’asettica ANSA scrive che 16 mila soldati ucraini hanno disertato, abbandonando la zona di conflitto del Donbass, molti dei quali con le armi. Le città ucraine, piene di mutilati e di invalidi, vedono molti uffici di arruolamento vuoti. E oggi, l’età media di chi combatte al fronte è di 43 anni, «un handicap per qualsiasi esercito moderno».

Fine del consenso generalizzato

E c’è anche di peggio. Time descrive una presidenza isolata, ‘hybris’, troppo orgogliosa, con un Zelensky cieco di fronte ai segnali allarmanti che arrivano dalle battaglie. «L’Ucraina non ha bisogno di F-16, ma di un comando e controllo efficiente, perché è questo il motore e il cervello delle forze armate. Quasi in crisi e scosso dalle purghe di molti quadri, il vertice militare manca purtroppo di ufficiali di stato maggiore. Non ha mai imparato a coordinare azioni di grande respiro, uniche in grado di rompere il fronte», spiega l’analista di cose militari. «È il motivo principale che spiega il fallimento della controffensiva estiva, come ammesso dagli stessi comandanti ucraini». I 400chilometri quadrati riconquistati e i 17 chilometri di avanzata hanno deluso tutti, a partire dai finanziatori occidentali.

Gli assaltatori di ieri frenano

Joseph Borrell, politica estera Ue, citato da Metadefense, ha messo le mani avanti, dicendo che Bruxelles non potrà sostituire Washington nel caso in cui il prossimo nuovo inquilino della Casa Bianca voltasse le spalle a Kiev. «La paralisi amministrativa che pende sulle dinamiche d’oltreatlantico rischia di spegnere le illusioni ucraine, azzerate soprattutto se si realizzasse la vittoria trumpiana», avverte Francesco Palmas. Resta sempre più sola ‘Ursula von der Nato’. A promettere senza soldi. Mentre Le Figaro ipotizza un inverno durissimo, foriero di sconfitte per Kiev. E sulla stampa europea, anche la più militarizzata di ieri, cominciano ad affiorare dubbi su una disfatta ucraina, rilanciati pure dal premier rumeno.

Cancellerie e comandi militari a rivedere vecchie priorità. I nuovi fronti del Vicino Oriente e dalle tempeste che si profilano in Asia, anche se il G7 –ormai pressoché inutile-, ripete il sostegno a Kiev e parte della Commissione si inventa una impossibile ammissione Ue di corsa.

Le pressioni su Zelensky

«La verità è che i nostri leader stanno premendo ufficiosamente su Zelensky perché accetti colloqui con la Russia, pur non avendo precisato i termini della persuasione: pensano forse a un trattato di pace? O a un armistizio in stile coreano? O a un semplice cessate il fuoco? E i russi sarebbero d’accordo a intavolare trattative?».

Guai anche russi

L’Armata Rossa sta facendo l’impossibile: aumenta l’età dei reclutabili; l’industria che sforna missili e blindati e ha la sponda degli arsenali iraniani e nordcoreani. E l’anno prossimo il 6% del Pil nazionale sarà dirottato sulle armi. Servirà davvero? «La Russia è zeppa di problemi. Si trova nella stessa impasse tattica ucraina, nell’incapacità di una manovra dinamica in attacco e nella predominanza della difesa. Insomma non ha nulla capace di spezzare l’inerzia. Mosca ha un’aviazione intatta, ma priva di occhi e di intelligence strategica (acquisire e colpire gli obiettivi in tempo reale)».

Finale prossimo venturo?

Per il generale ucraino Zalujny solo l’arrivo di armi dirompenti (game-changers) potrebbe scompaginare il quadro. Ma i pochi F-16 che stanno per arrivare non consentiranno nessuna svolta. «A Kiev servirebbero piuttosto uomini, difese aeree, mezzi antimina, sistemi da guerra elettronica, armi anticarro e centinaia di aerei». Avvertimento del presidente ceco Petr Pavel il 9 novembre. «Il tempo ora è a favore della Russia, che ha una base più forte per mobilitare le risorse umane», ha detto Pavel. «Potrebbe esserci un momento per l’inizio dei negoziati l’anno prossimo», ha aggiunto Pavel senza specificare i dettagli.

Poco dopo la sua elezione nel gennaio 2023, Pavel aveva dichiarato che l’Ucraina avrebbe avuto solo una possibilità per lanciare una controffensiva di successo, affermando che in caso di fallimento, difficile/impossibile ottenere finanziamenti per un’altra.

Conflitto a spegnersi

Salvo sorprese, il conflitto scemerà forse d’intensità, non solo per le avversità climatiche, ma anche per l’impotenza dei belligeranti, la conclusione su Avvenire.

«La guerra si farà semicalda, con scontri sporadici al fronte, bombardamenti a lungo raggio e un fronte che correrà lungo la nuova cortina di ferro Est-Ovest, a riprova che la pace è un miraggio ancora lontano».

da qui


EU NUCHI D’EUROPA – Laura Ruggeri

Alla fine di ottobre, la presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola ha chiesto a un giornalista se l’UE avrebbe aperto formalmente i colloqui di adesione dell’Ucraina e della Moldavia dopo aver concesso a questi Paesi lo status di candidati nel 2022. “Se un Paese guarda all’Europa, allora l’Europa dovrebbe spalancare le porte. L’allargamento è sempre stato lo strumento geopolitico più potente dell’Unione Europea”. Sebbene Metsola abbia semplicemente riformulato le dichiarazioni del capo della Commissione europea Ursula Von der Leyen e del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, le parole che ha usato ben riflettono le basi ideologiche dell’espansionismo dell’UE. Metsola confonde l’Europa con l’Unione Europea, ma non si tratta di un semplice lapsus: Bruxelles da tempo ritiene che l’UE coincida con l’Europa e che i Paesi che si trovano al di fuori dei confini dell’Unione non siano veramente europei, altrimenti come potrebbero mai “guardare all’Europa”?

Diventare europei significa diventare “civilizzati”, poiché al di fuori del “giardino d’Europa” si vive in una “giungla”, almeno secondo il responsabile degli affari esteri dell’UE Josep Borrell. L’UE, che si propone come incarnazione di valori superiori, ha il dovere morale di aprire le sue porte e ammettere quei Paesi sfortunati che attualmente sono esclusi da questo giardino di delizie, e così facendo, salvarli da un imprecisato pericolo. In pratica una variazione sul tema coloniale del salvatore bianco. Poi Metsola offre l’argomento decisivo a sostegno dell’allargamento: beh, ovviamente è uno strumento geopolitico per rafforzare l’UE. L’idea che l’allargamento renda più forte il blocco, come sostengono i suoi sostenitori, o, al contrario, acceleri la sua implosione, divide le opinioni da due decenni. Metsola opportunisticamente glissa sul fatto che senza unanimità i colloqui sull’adesione non possono nemmeno essere avviati, ma si sa che per gli eurocrati  i fatti contano meno della narrazione. Le metafore utilizzate da Metsola (la porta) e da Borrell (giardino/giungla) rafforzano la dicotomia spaziale dentro/fuori che riflette culturalmente l’opposizione tra valori positivi e negativi, civiltà e barbarie. Senza una sfera esterna “caotica”, reale o immaginaria, la struttura interna non apparirebbe ordinata, anzi non apparirebbe affatto: figura e sfondo si mescolerebbero in un continuum. Supporre l’esistenza di una giungla pericolosa abitata da barbari è essenziale per mantenere l’illusione di ordine e civiltà all’interno. Il problema è che ad ogni round di allargamento l’entropia del sistema aumenta.

La storia dimostra che quando si tenta un’espansione imperiale senza le condizioni necessarie – un esercito sufficientemente forte e un’economia in grado di sostenerlo, una leadership efficace, un’ideologia che stimoli il desiderio di impero e legami istituzionali robusti tra il centro e la periferia – il fallimento e la sconfitta sono inevitabili. Ma non chiedete ai nostri eunuchi di parlare di imperi, soprattutto di quello di cui servono gli interessi. Credono alla loro stessa propaganda e si impegnano a “proteggere, promuovere e proiettare i valori europei, difendere la democrazia e i diritti umani nell’interesse del bene comune e pubblico. Promuovere la stabilità e la prosperità nel mondo, proteggendo un ordine mondiale basato su regole, è un prerequisito fondamentale per la difesa dei valori dell’Unione“. Quando si tratta di dichiarazioni dell’UE la parodia non è necessaria, l’originale ottiene lo stesso effetto comico.

Se un’ulteriore espansione sia positiva o negativa per l’UE è l’equivalente moderno dell’antica discussione bizantina sul sesso degli angeli e, sebbene non sia possibile raggiungere un accordo, il processo si è in gran parte arenato dopo l’ingresso della più grande ondata di nuovi membri nel 2004 e della Croazia nel 2013. Allora perché negli ultimi due anni è balzato in cima all’agenda di così tanti eurocrati? Principalmente perché i sostenitori dell’espansione speravano di poter far leva sull’unità dimostrata dall’UE a fronte del conflitto in Ucraina per far passare un progetto imperialista per procura partorito dal pensiero magico di Washington. La pietra angolare di questo progetto era la piena conquista dell’Ucraina, il cui esercito addestrato dalla NATO avrebbe dovuto infliggere un colpo decisivo alla Russia. Come sappiamo, le cose non sono andate esattamente secondo i piani e quell’unità di intenti sembra ora precaria quanto il futuro dell’Ucraina. All’Ucraina è stato promesso per anni lo status di candidato all’UE e finalmente lo ha ottenuto in cambio di un bagno di sangue. Ovviamente, non ha i requisiti per l’adesione e la prospettiva di restare per anni in una sala d’attesa affollata con altri candidati non è  propriamente allettante.

Bruxelles deve prima trovare e poi offrire una carota più succosa in un momento in cui i sondaggi di opinione mostrano stanchezza verso l’Ucraina. Dopo essersi schierata in difesa dell’“ordine basato sulle regole” degli Stati Uniti, l’UE ha un sacco pieno di pagherò (promesse che non può mantenere), un’economia indebolita, e il giardino delle delizie terrene di Borrell assomiglia sempre più al pannello scuro del famoso trittico di Hieronymus Bosch. Si potrebbe pensare che discutere dell’allargamento dell’UE mentre l’Unione si trova ad affrontare crisi importanti che la stanno mettendo alla prova fino al punto di rottura sia l’epitome della follia. In realtà, alcuni commentatori hanno già paragonato la leadership dell’UE a Nerone che strimpellava durante l’incendio di Roma. Ma a quanto pare Nerone fece anche qualcos’altro, incolpò i cristiani. Offrire un nemico interno o un nemico esterno è una tattica collaudata per schiacciare il dissenso e consolidare il potere.

Ed è esattamente quello che ha provato a fare il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock in una recente conferenza a Berlino dedicata all’allargamento dell’UE. Ha detto a 17 ministri degli Esteri dell’UE e dei Paesi candidati, tra cui l’ucraino Dmytro Kuleba, che l’UE deve espandersi per evitare di rendere tutti vulnerabili. “La Mosca di Putin continuerà a cercare di dividere da noi non solo l’Ucraina, ma anche la Moldavia, la Georgia e i Balcani occidentali. Se questi Paesi possono essere destabilizzati in modo permanente dalla Russia, allora questo rende vulnerabili anche noi. Non possiamo più permetterci zone d’ombra in Europa”. Che fine hanno fatto le promesse di crescita economica, investimenti e accesso a un ricco mercato unico? Poiché nel 2023 suonano tutte piuttosto vuote, Baerbock invoca l’uomo nero. È finita la pretesa che l’UE e la NATO perseguano strategie diverse. Con la porta della NATO chiusa all’Ucraina e con Washington che ha spostato la sua attenzione sul Medio Oriente e sull’Asia-Pacifico, l’onere di sostenere l’Ucraina “per difendere l’Europa” è stato scaricato sull’UE. Se dipingere la Russia come una minaccia è stato a lungo utilizzato dagli Stati Uniti per mantenere in vita la NATO, negli anni più recenti è stato sfruttato per uniformare la politica estera e la difesa degli Stati membri dell’UE. Washington ha promosso e facilitato un consolidamento verticale del potere nell’UE al fine di esternalizzare a Bruxelles alcune delle funzioni di controllo e polizia che consentono l’accumulo di capitale a livello globale e sostengono la sua egemonia…

continua qui



Nessun commento:

Posta un commento