mercoledì 20 dicembre 2023

La svestizione – Tersite Rossi

 

Una storia che sa di cravatte inutili, lavori dannosi e savana rurale

 

Cominciai dalla cravatta.

Una mattina mi guardai allo specchio mentre mi facevo il nodo e mi domandai che senso avesse quel gesto, che avevo fatto centinaia e centinaia di volte. Che senso avesse quella cravatta. Che senso avesse la cravatta. Forse fu la difficoltà nel fare il nodo a quel particolare modello trendy che mi ero comprato da poco, forse che, nonostante la prima impressione in negozio, ora non mi piacesse proprio più, fatto sta che me la levai e al lavoro ci andai senza.

Nessuno si accorse di nulla, eccetto la mia segretaria, particolarmente attenta a ogni cosa mi riguardasse.

- Niente cravatta, oggi, dottor Campolongo?

Le sorrisi.

- No, niente cravatta.

Sorrise pure lei, a quel punto.

- Se posso permettermi, sta meglio così - mi disse.

La ringraziai ed entrai nel mio ufficio.

Quel giorno, trascorso senza cravatta, mi parve di aver lavorato meglio del solito.


Poi fu la volta della ventiquattrore. Me ne portavo sempre dietro una. Ma di fatto non c’era mai dentro niente d’importante. Eliminai pure quella. Senza cravatta e senza ventiquattrore, mi sentii più leggero, più libero. Decisi quindi di proseguire con sistematicità in quell’azione di alleggerimento.

Una sera aprii il mio enorme armadio con il proposito di sbarazzarmi di tutti i capi d’abbigliamento che non indossavo da oltre un anno. Quando finii, dentro era rimasto solo un quarto della roba che c’era prima. E pure quella, mi dissi, meritava una sfrondata, ma decisi di occuparmene in un secondo momento. Guardai i vestiti scartati: era impressionante, in particolare, e assolutamente ridicola, la quantità di calzini che avevo ammucchiato negli anni.

Feci la stessa cosa con le scarpe. Degli oltre quaranta paia in mio possesso, ne lasciai dentro la scarpiera soltanto otto. Come nel caso dei vestiti, quella scartata era tutta roba in perfetto stato, e pure particolarmente costosa, solo che non la usavo mai.

Caricai tutti gli scarti sull’auto e li consegnai a un’associazione benefica dove lavorava un mio conoscente. Stavolta immigrati e indigenti si sarebbero vestiti come signori e non con le solite cose sdrucite e strappate di cui in genere si sbarazza la gente.

Quell’operazione ecologica, come la chiamai, non si fermò lì. Era solo all’inizio.


Una sera, mentre cenavo, mi domandai a cosa servisse mai la tovaglia. La eliminai e iniziai a mangiare direttamente sul tavolo, senza sentirne affatto la mancanza.

Passai a occuparmi dell’utensileria da cucina. Vivevo da solo, eppure, complice il fatto di avere una lavastoviglie enorme, possedevo una quantità di pentole, piatti, bicchieri e posate sufficiente per un piccolo ristorante. Chiusi per sempre la lavastoviglie, tenni per me solo lo stretto necessario, lavandolo dopo ogni pasto, e mi sbarazzai del resto, che di nuovo andai a consegnare all’associazione del mio conoscente, dove tutti cominciavano a guardarmi con gratitudine, ma anche incredulità e persino preoccupazione, come si guarda un matto.

A un certo punto, quando casa mia, un appartamento di 160 metri quadri con quattro camere e due bagni, risultò così svuotata che a parlarci dentro si sentiva l’eco, decisi che era proprio di quell’appartamento enorme che dovevo sbarazzarmi, e così feci. Ne comprai uno grande meno della metà e mi fu più che sufficiente. In quella nuova casa, la lavastoviglie non c’era.


La vera svolta, però, arrivò solo quando mi liberai dello smartphone. Avevo già provveduto a eliminare tutti i miei account digitali, lasciando attiva solo la posta elettronica. Quando mi disfai anche dell’oggetto che principalmente mi era servito a gestire per anni tutta quella paccottiglia di notifiche, messaggi e comunicazioni completamente inutili, tutti mi presero per matto sul serio. Eppure, superate alcune iniziali difficoltà (tra cui la più grande fu trovare in sostituzione un telefono cellulare di vecchio tipo, forse non intelligente ma senz’altro più discreto), a tutti dimostrai che si poteva vivere tranquillamente anche senza uno smartphone (ci avrei messo poco a capire che si poteva vivere tranquillamente facendo a meno di un qualunque telefono). 

Fu quello il momento in cui tornai ad accorgermi piacevolmente, come non mi accadeva da quando ero un ragazzino, di quanto poteva essere lunga una giornata. Iniziai a impiegare il mio tempo passeggiando in campagna e leggendo saggi e romanzi presi in prestito dalla biblioteca, alla quale avevo già ceduto tutti i libri che avevo in casa (pochi a dire il vero, senz’altro meno dei calzini), e che nessuno mai avrebbe più riaperto, se lì fossero rimasti. L’unico che avevo tenuto era “Walden” di Thoreau, perché era diventato la mia guida nel mondo.


Fu proprio sulla scorta di Thoreau che capii qual era il successivo orpello di cui dovevo sbarazzarmi: il mio lavoro. In ufficio da tempo mi guardavano tutti con grande allarme, come fossi un alieno pericoloso. Arrivare indossando sempre gli stessi capi d’abbigliamento, non stirati e ormai piuttosto stazzonati, e le solite scarpe (me n’ero lasciate solo due paia, quelle invernali e quelle estive), aveva spinto non solo la mia segretaria, ma ogni altro mio collega a pensare che mi fosse venuta a mancare più di qualche rotella. Solo che io ero il loro capo, e nessuno poteva contestarmi niente. D’altronde, pur vedendomi mal vestito e mal calzato, non poterono certo dire che avessi iniziato a svolgere male il mio lavoro. Anzi, senza le distrazioni digitali e il conseguente sovraccarico cognitivo, ero più lucido e quindi prendevo decisioni migliori. Lo studio legale cominciò ad avere più successo di prima. Il problema era che anche quel lavoro, come in pratica ogni altra cosa della mia vecchia vita, era sostanzialmente inutile e a ben vedere dannoso: si faceva carico di questioni che avrebbero potuto risolversi in poco tempo col buon senso e invece, prese in mano dalla mia squadra di azzeccagarbugli, si ingigantivano sempre più fino a trasformarsi in vere e proprie guerre legali, infinite e senza quartiere. Fu così che presi la decisione di chiuderlo, ponendo fine anche a quell’insensatezza.

Il passo successivo, l’ultimo che potevo compiere, fu liberarmi del mio patrimonio, che non era poca cosa. Creai una fondazione che per statuto avrebbe dovuto preoccuparsi di rendere il mondo un posto migliore dal punto di vista sociale e ambientale, e le cedetti tutto quello che avevo, lasciandomi giusto il necessario per sopravvivere ancora per qualche tempo.

Poi chiamai (con un telefono pubblico che faticai parecchio a trovare) un mio vecchio amico, che da quasi vent’anni faceva il missionario in Africa, e gli domandai se laggiù avesse per caso bisogno di una mano.

- Ma non eri ateo? - reagì sorpreso.

- Sì, e lo sono ancora. È un problema? - gli domandai.

- No - mi rispose.


Charre è un villaggio nel nord del Mozambico, vicino al confine con il Malawi. Charre è l’Africa rurale. Charre è i baobab centenari in mezzo alla savana, che mentre scrivo si tinge di giallo in attesa delle piogge. Charre è la gente semplice, che vive coltivando mais e fagioli, allevando capre e mucche, gente che ancora si toglie il cappello quando ti incontra per strada, che ti stringe la mano incallita dalla zappa. Charre è dove manca tutto, tranne il sorriso e la voglia di vivere.

Qui alla missione siamo in quattro: Joaquin, Abelardo, Andrea e io, l’unico senza saio. I contadini ci accolgono come ospiti attesi da tempo, ci raccontano la loro vita, insegnano più loro a noi che noi a loro, e insieme a loro mangiamo con le mani polenta e gallina, ci laviamo come possiamo, dormiamo per terra in una capanna.

Per quattro mesi all’anno questi posti rimangono sommersi dalle acque. Ad aprile, quando le acque si ritirano, i contadini, dopo essersi rifugiati nelle zone più alte, tornano a valle, dove la terra è più fertile. Ogni anno, dopo le inondazioni, ricostruiscono le loro capanne. E io, che non ho più niente al mondo tranne loro, cerco di aiutarli.

da qui

Nessun commento:

Posta un commento