Una storia che sa di cravatte inutili, lavori dannosi e savana rurale
Cominciai
dalla cravatta.
Una mattina
mi guardai allo specchio mentre mi facevo il nodo e mi domandai che senso
avesse quel gesto, che avevo fatto centinaia e centinaia di volte. Che senso
avesse quella cravatta. Che senso avesse la cravatta. Forse fu
la difficoltà nel fare il nodo a quel particolare modello trendy che mi ero
comprato da poco, forse che, nonostante la prima impressione in negozio, ora
non mi piacesse proprio più, fatto sta che me la levai e al lavoro ci andai
senza.
Nessuno si
accorse di nulla, eccetto la mia segretaria, particolarmente attenta a ogni
cosa mi riguardasse.
- Niente
cravatta, oggi, dottor Campolongo?
Le sorrisi.
- No, niente
cravatta.
Sorrise pure
lei, a quel punto.
- Se posso
permettermi, sta meglio così - mi disse.
La
ringraziai ed entrai nel mio ufficio.
Quel giorno,
trascorso senza cravatta, mi parve di aver lavorato meglio del solito.
Poi fu la
volta della ventiquattrore. Me ne portavo sempre dietro una. Ma di fatto non
c’era mai dentro niente d’importante. Eliminai pure quella. Senza cravatta e
senza ventiquattrore, mi sentii più leggero, più libero. Decisi quindi di
proseguire con sistematicità in quell’azione di alleggerimento.
Una sera
aprii il mio enorme armadio con il proposito di sbarazzarmi di tutti i capi
d’abbigliamento che non indossavo da oltre un anno. Quando finii, dentro era
rimasto solo un quarto della roba che c’era prima. E pure quella, mi dissi,
meritava una sfrondata, ma decisi di occuparmene in un secondo momento. Guardai
i vestiti scartati: era impressionante, in particolare, e assolutamente
ridicola, la quantità di calzini che avevo ammucchiato negli anni.
Feci la
stessa cosa con le scarpe. Degli oltre quaranta paia in mio possesso, ne
lasciai dentro la scarpiera soltanto otto. Come nel caso dei vestiti, quella
scartata era tutta roba in perfetto stato, e pure particolarmente costosa, solo
che non la usavo mai.
Caricai
tutti gli scarti sull’auto e li consegnai a un’associazione benefica dove
lavorava un mio conoscente. Stavolta immigrati e indigenti si sarebbero vestiti
come signori e non con le solite cose sdrucite e strappate di cui in genere si
sbarazza la gente.
Quell’operazione
ecologica, come la chiamai, non si fermò lì. Era solo all’inizio.
Una sera,
mentre cenavo, mi domandai a cosa servisse mai la tovaglia. La eliminai e
iniziai a mangiare direttamente sul tavolo, senza sentirne affatto la mancanza.
Passai a
occuparmi dell’utensileria da cucina. Vivevo da solo, eppure, complice il fatto
di avere una lavastoviglie enorme, possedevo una quantità di pentole, piatti,
bicchieri e posate sufficiente per un piccolo ristorante. Chiusi per sempre la
lavastoviglie, tenni per me solo lo stretto necessario, lavandolo dopo ogni
pasto, e mi sbarazzai del resto, che di nuovo andai a consegnare
all’associazione del mio conoscente, dove tutti cominciavano a guardarmi con
gratitudine, ma anche incredulità e persino preoccupazione, come si guarda un
matto.
A un certo
punto, quando casa mia, un appartamento di 160 metri quadri con quattro camere
e due bagni, risultò così svuotata che a parlarci dentro si sentiva l’eco,
decisi che era proprio di quell’appartamento enorme che dovevo sbarazzarmi, e
così feci. Ne comprai uno grande meno della metà e mi fu più che sufficiente.
In quella nuova casa, la lavastoviglie non c’era.
La vera
svolta, però, arrivò solo quando mi liberai dello smartphone. Avevo già
provveduto a eliminare tutti i miei account digitali, lasciando attiva solo la
posta elettronica. Quando mi disfai anche dell’oggetto che principalmente mi
era servito a gestire per anni tutta quella paccottiglia di notifiche, messaggi
e comunicazioni completamente inutili, tutti mi presero per matto sul serio.
Eppure, superate alcune iniziali difficoltà (tra cui la più grande fu trovare
in sostituzione un telefono cellulare di vecchio tipo, forse non intelligente
ma senz’altro più discreto), a tutti dimostrai che si poteva vivere
tranquillamente anche senza uno smartphone (ci avrei messo poco a capire che si
poteva vivere tranquillamente facendo a meno di un qualunque telefono).
Fu quello il
momento in cui tornai ad accorgermi piacevolmente, come non mi accadeva da
quando ero un ragazzino, di quanto poteva essere lunga una giornata. Iniziai a
impiegare il mio tempo passeggiando in campagna e leggendo saggi e romanzi
presi in prestito dalla biblioteca, alla quale avevo già ceduto tutti i libri
che avevo in casa (pochi a dire il vero, senz’altro meno dei calzini), e che
nessuno mai avrebbe più riaperto, se lì fossero rimasti. L’unico che avevo
tenuto era “Walden” di Thoreau, perché era diventato la mia guida nel mondo.
Fu proprio
sulla scorta di Thoreau che capii qual era il successivo orpello di cui dovevo
sbarazzarmi: il mio lavoro. In ufficio da tempo mi guardavano tutti con grande
allarme, come fossi un alieno pericoloso. Arrivare indossando sempre gli stessi
capi d’abbigliamento, non stirati e ormai piuttosto stazzonati, e le solite
scarpe (me n’ero lasciate solo due paia, quelle invernali e quelle estive),
aveva spinto non solo la mia segretaria, ma ogni altro mio collega a pensare
che mi fosse venuta a mancare più di qualche rotella. Solo che io ero il loro
capo, e nessuno poteva contestarmi niente. D’altronde, pur vedendomi mal
vestito e mal calzato, non poterono certo dire che avessi iniziato a svolgere
male il mio lavoro. Anzi, senza le distrazioni digitali e il conseguente
sovraccarico cognitivo, ero più lucido e quindi prendevo decisioni migliori. Lo
studio legale cominciò ad avere più successo di prima. Il problema era che
anche quel lavoro, come in pratica ogni altra cosa della mia vecchia vita, era
sostanzialmente inutile e a ben vedere dannoso: si faceva carico di questioni
che avrebbero potuto risolversi in poco tempo col buon senso e invece, prese in
mano dalla mia squadra di azzeccagarbugli, si ingigantivano sempre più fino a
trasformarsi in vere e proprie guerre legali, infinite e senza quartiere. Fu
così che presi la decisione di chiuderlo, ponendo fine anche a
quell’insensatezza.
Il passo
successivo, l’ultimo che potevo compiere, fu liberarmi del mio patrimonio, che
non era poca cosa. Creai una fondazione che per statuto avrebbe dovuto
preoccuparsi di rendere il mondo un posto migliore dal punto di vista sociale e
ambientale, e le cedetti tutto quello che avevo, lasciandomi giusto il necessario
per sopravvivere ancora per qualche tempo.
Poi chiamai
(con un telefono pubblico che faticai parecchio a trovare) un mio vecchio
amico, che da quasi vent’anni faceva il missionario in Africa, e gli domandai
se laggiù avesse per caso bisogno di una mano.
- Ma non eri
ateo? - reagì sorpreso.
- Sì, e lo
sono ancora. È un problema? - gli domandai.
- No - mi
rispose.
Charre è un
villaggio nel nord del Mozambico, vicino al confine con il Malawi. Charre è
l’Africa rurale. Charre è i baobab centenari in mezzo alla savana, che mentre
scrivo si tinge di giallo in attesa delle piogge. Charre è la gente semplice,
che vive coltivando mais e fagioli, allevando capre e mucche, gente che ancora
si toglie il cappello quando ti incontra per strada, che ti stringe la mano
incallita dalla zappa. Charre è dove manca tutto, tranne il sorriso e la voglia
di vivere.
Qui alla
missione siamo in quattro: Joaquin, Abelardo, Andrea e io, l’unico senza saio.
I contadini ci accolgono come ospiti attesi da tempo, ci raccontano la loro
vita, insegnano più loro a noi che noi a loro, e insieme a loro mangiamo con le
mani polenta e gallina, ci laviamo come possiamo, dormiamo per terra in una
capanna.
Per quattro
mesi all’anno questi posti rimangono sommersi dalle acque. Ad aprile, quando le
acque si ritirano, i contadini, dopo essersi rifugiati nelle zone più alte,
tornano a valle, dove la terra è più fertile. Ogni anno, dopo le inondazioni,
ricostruiscono le loro capanne. E io, che non ho più niente al mondo tranne
loro, cerco di aiutarli.
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