Quello dell’insegnante è un mestiere complicato. Non solo perché è davvero difficile riuscire a far breccia nelle menti e nei cuori dei bambini, degli adolescenti e dei giovani adulti, ma anche perché – come accade, bisogna dirlo, anche per altri mestieri a diretto contatto con il pubblico – la percezione della gente è sempre un po’ falsata (come dicevamo in parte anche nell’introduzione della newsletter dedicata a Dario Bressanini).
Moltissimi,
in Italia, hanno un’idea pessima della scuola, è inutile nasconderselo: pensano
che gli insegnanti facciano poco, siano pigri e svogliati se non perfino
inadeguati, e ritengono che la scuola sia – almeno in parte – una perdita di
tempo. Parlando con le persone ti accorgi che tutti, prima o dopo, hanno avuto
dei problemi a scuola, e una delle cose che, anche a distanza di parecchi
decenni, ricordano con maggior nitidezza della loro adolescenza sono
soprattutto i pessimi insegnanti.
Non è sempre
così, ovviamente: molti hanno anche dei ricordi positivi sulla scuola e magari
su un docente che è stato addirittura decisivo per la loro crescita umana e
personale, ma il più delle volte lo presentano come un’eccezione, come l’unico
faro in mezzo alla nebbia. Per il resto rimane un giudizio perlopiù negativo; e
il più delle volte non per la preparazione degli insegnanti (che è giudicata
mediamente buona, pur con qualche variabilità), quanto piuttosto per la loro
mancanza di empatia, per la loro cattiveria, per il loro sadismo, per
l’incapacità di trasmettere i contenuti.
Tutti gli
insegnanti, quando sentono queste lamentazioni, ovviamente si arroccano sulla
difensiva: sottolineano che la severità serve a crescere, che quando si è
adolescenti non si ha la giusta percezione delle cose, e che in realtà per ogni
insegnante inadeguato ce n’è almeno uno che invece lavora, e forse anche
troppo. Anch’io faccio così, anch’io difendo spesso la categoria, perché in
fondo tento di difendere me stesso da accuse che, almeno nel mio caso, mi
paiono ingenerose. E però bisogna anche dire che se queste opinioni sono così
diffuse, su così larga scala, anche tra professionisti che hanno studiato in
giro per il mondo e di esperienza ne hanno da vendere, qualcosa di vero ci
dev’essere. Magari non tutto, ma qualcosa sì.
Ne parlavamo
anche nel Club del Libro di qualche giorno fa, la riunione mensile dedicata
agli abbonati del canale in cui discutiamo di un volume che abbiamo letto
tutti. Il libro in questione era, in quell’occasione, il Simposio di
Platone, ma partendo dall’amore siamo finiti a parlare dell’amore per il
sapere, e dall’amore per il sapere il salto verso la scuola è stato
praticamente immediato. Tra i partecipanti sono emerse due visioni: da un lato,
quella di chi vede nella scuola italiana tutto sommato un’eccellenza,
soprattutto se paragonata ad altre scuole occidentali (europee, americana) in
cui la preparazione dei ragazzi è di livello generalmente più scarso;
dall’altro, quella di chi ritiene che la nostra scuola debba ancora essere
migliorata e riformata, visti anche i risultati dei recenti test OCSE-PISA che
ci vedono ancora piuttosto deficitari.
Come ho
detto là, entrambe le visioni dicono a mio avviso qualcosa di vero. Io insegno
in una scuola da cui escono – stando alle statistiche Eduscopio, Invalsi e così
via – alcuni dei migliori studenti della penisola, con risultati eccellenti
secondo praticamente tutti i parametri; e questi studenti non hanno problemi ad
andare a studiare, se vogliono, in America, in Germania, in Inghilterra, in
Francia. Anzi, l’unico problema a volte è la lingua, perché su quel versante –
nonostante i molti passi avanti che sono stati fatti negli ultimi anni – siamo
ancora un po’ deficitari; ma per il resto i nostri ragazzi, per quanto riguarda
la preparazione, non hanno nulla da invidiare ai loro colleghi d’Oltralpe, se
non qualche competenza (come quella del lavoro di squadra) che comunque si può
affinare e acquisire anche poi.
Il guaio è
che il mio liceo non è tutta l’Italia, e che la media nazionale risulta ancora
problematica. Giusto per farvi capire la situazione, forse conviene sciorinare
qualche numero.
Primo: il
tasso di abbandono scolastico (cioè i giovani che lasciano la scuola prima del
tempo) è attualmente in Italia all’11,5%, uno dei più alti in Europa. Uno
studente su dieci, insomma, si ritira dalla scuola anzitempo. Il dato è
preoccupante soprattutto in Sicilia e Campania, dove arriva addirittura,
rispettivamente, al 18,8% (quasi uno su cinque) e al 16,1% (fonte: Openpolis).
Secondo: il
livello di competenza in italiano in quinta superiore è problematico in molte
regioni. I dati Invalsi ci dicono che in Campania quasi il 40% degli studenti è
al livello più basso di comprensione della lingua italiana (in Veneto questa
percentuale è del 12%). Detta in altri termini, due studenti campani su cinque
non capiscono un banale testo in lingua italiana: è un dato drammatico. La
media del sud è del 33% (uno studente su tre), la media del nord è del 14%
(fonte: Invalsi).
Terzo: in
matematica la situazione è ancora peggiore. Sempre l’Invalsi ci dice che in
Campania il 46% degli studenti (praticamente la metà) è al livello più basso
possibile in matematica: per loro, studiare matematica per 13 anni
evidentemente non è servito a nulla o quasi. A Bolzano solo l’8% è in questa
situazione, in Veneto il 13%. La media del sud è del 40%, quella del nord del
15%. Abbastanza impressionante, no?
Se andassimo
a tirar fuori i dati degli anni precedenti (ve li risparmio, ma potete
recuperarli facilmente se volete approfondire), risulterebbe evidente che il
problema è strutturale e non episodico; che c’è un divario nord-sud che balza
agli occhi e rappresenta un problema enorme. Che c’è, di fatto, una scuola di
serie A e una scuola di serie B; e questo al di là degli insegnanti che
lavorano dall’una o dall’altra parte.
Quando si
guardano questi dati, infatti, la reazione più superficiale potrebbe essere: al
nord ci sono gli insegnanti migliori, al sud i peggiori; oppure, in
alternativa: al nord ci sono gli studenti migliori, al sud i peggiori. Basta
scavare un po’ al di sotto della superficie, però, per rendersi conto che non è
così: nella mia provincia, ad esempio, c’è da sempre una buona percentuale di
insegnanti meridionali, e com’è possibile allora che insegnanti che hanno
frequentato la scuola al sud poi vengano al nord e ottengano, coi loro
studenti, risultati così buoni?
Evidentemente
le spiegazioni (molte, complesse) stanno altrove; ma il risultato è che c’è un
divario enorme, sotto diversi punti di vista, nel nostro paese. C’è un divario
tra scuola e scuola, tra città e città, tra regioni e regioni. Chiunque debba
iscrivere un figlio alle scuole elementari o medie sa bene che ci sono forti
differenze anche tra un quartiere e l’altro di una stessa città; così come ci
sono forti differenze tra certe scuole superiori ed altre all’interno della
stessa provincia, anche se si tratta dello stesso tipo di scuola superiore.
Siamo il
paese delle differenze, e questo per certi versi è un pregio. Ma qui non si
tratta di diversi approcci, di diversi tipi d’insegnamento; qui si tratta di
offrire ad una certa parte d’Italia quello che non offri a un’altra parte d’Italia.
Qui si tratta di far partire con un handicap non da poco chi proviene da certe
zone geografiche, dove evidentemente troppe cose non funzionano.
Perché,
attenzione: quei dati non riguardano solo la scuola. Anzi, direi di più: non
riguardano tanto la scuola, quanto piuttosto quello che sta attorno alla
scuola. I programmi delle varie materie sono gli stessi in tutta Italia, il
testo delle prove di maturità è lo stesso in tutta Italia, il percorso di
formazione e di selezione dei docenti è lo stesso in tutta Italia; eppure i
risultati sono incredibilmente diversi. Segno che la scuola non è tutto, che il
contesto incide e che bisogna agire a più ampio raggio se si vuole cercare di
migliorare le cose.
Ma eravamo
partiti, se vi ricordate, dal lavoro che non si vede. Gli insegnanti, in
questo, sono specialisti: quelli che hanno voglia di lavorare fanno un sacco di
lavoro invisibile (correzioni, preparazione delle lezioni, aggiornamento,
studio… tutte cose non conteggiate nel loro orario di lavoro), e pochi se ne
accorgono, perché non sono presenti quando questo lavoro viene svolto. Nemmeno
gli studenti – a meno che non siano un po’ più empatici o acuti della media –
si rendono conto di quante ore i loro prof impiegano per preparare i materiali,
per imbastire le lezioni, per correggere adeguatamente i loro compiti, per
organizzare le loro uscite o attività.
Però,
bisogna dirlo, anche la formazione dei ragazzi è, in sé, un lavoro invisibile.
Non coincide solo con quello che si fa a scuola; coinvolge ogni passeggiata che
si fa, ogni dialogo che si tiene a casa, ogni film che si vede, ogni canzone
che si ascolta, ogni partita a calcio. La cultura è un affare ben più grande
delle ore sui banchi di scuola; e quindi non deve stupire che programmi uguali
e scuole (apparentemente) uguali diano risultati diversissimi. Perché si impara
di più fuori da scuola che a scuola; si cresce di più nelle ore non
ufficialmente destinate alla crescita che in quelle formalizzate; perché anche
qui conta l’invisibile più che il visibile.
Cosa
dovremmo fare, dunque? Quello che ci siamo detti anche qualche settimana fa:
imparare a lavorare di più, tutti, spesso in modo invisibile; e a notare e
premiare questo lavoro invisibile. Il mondo della cultura, purtroppo, è pieno
di gente che ama mettersi in mostra portando un contributo minimo alla crescita
delle persone; di professionisti del palcoscenico («i direttori artistici, gli
addetti alla cultura», li chiamava Battiato) che vivono di amicizie, di
articoli favorevoli, del fatto di mettersi in risalto e di costruzione del
personaggio. In realtà sono uomini e donne, a ben guardare, che valgono poco.
E invece ci
sono tanti altri che lavorano nell’ombra, che il loro contributo lo danno.
Professoresse d’italiano che correggono i compiti di notte scrivendo decine di
righe per far capire al ragazzo di turno come migliorare, prof di filosofia che
lavorano tutta l’estate a dispense che poi i ragazzi guarderanno di striscio,
allenatori di basket o di calcio che si inventano tornei e sacrificano tutti i
loro weekend pur di dare ai ragazzi l’occasione di incontrarsi e socializzare,
promotori culturali – ma di quelli veri – che invitano relatori pagandoli anche
di tasca propria pur di farli venire nel loro sperduto paese di provincia. È
questo lavoro invisibile che fa la differenza, che dà i risultati: pochi lo
notano, ma è quello decisivo.
Non sempre è
un lavoro che va a buon fine: perché magari le dispense di filosofia sono
mediocri, perché magari il torneo di basket viene male, perché magari il
relatore fa una conferenza noiosa a cui nessuno partecipa; però è solo tramite
questo lavoro che, ogni tanto, si trova la modalità giusta e si riesce a
lasciare il segno.
Siate quindi
quelli che lavorano nell’ombra. Quelli che cercano di fare ogni volta un po’
meglio di quella precedente, quelli che non cercano onori ma sono più
interessati a quello che lasciano che a quello che prendono. E siate quelli che
sostengono chi fa questo lavoro invisibile, che apprezzano tutti i doni e che
si sforzano di capire il lavoro che c’è dietro.
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