lunedì 18 dicembre 2023

Quello dell’insegnante è un mestiere complicato – Ermanno Ferretti

Quello dell’insegnante è un mestiere complicato. Non solo perché è davvero difficile riuscire a far breccia nelle menti e nei cuori dei bambini, degli adolescenti e dei giovani adulti, ma anche perché – come accade, bisogna dirlo, anche per altri mestieri a diretto contatto con il pubblico – la percezione della gente è sempre un po’ falsata (come dicevamo in parte anche nell’introduzione della newsletter dedicata a Dario Bressanini).

Moltissimi, in Italia, hanno un’idea pessima della scuola, è inutile nasconderselo: pensano che gli insegnanti facciano poco, siano pigri e svogliati se non perfino inadeguati, e ritengono che la scuola sia – almeno in parte – una perdita di tempo. Parlando con le persone ti accorgi che tutti, prima o dopo, hanno avuto dei problemi a scuola, e una delle cose che, anche a distanza di parecchi decenni, ricordano con maggior nitidezza della loro adolescenza sono soprattutto i pessimi insegnanti.

Non è sempre così, ovviamente: molti hanno anche dei ricordi positivi sulla scuola e magari su un docente che è stato addirittura decisivo per la loro crescita umana e personale, ma il più delle volte lo presentano come un’eccezione, come l’unico faro in mezzo alla nebbia. Per il resto rimane un giudizio perlopiù negativo; e il più delle volte non per la preparazione degli insegnanti (che è giudicata mediamente buona, pur con qualche variabilità), quanto piuttosto per la loro mancanza di empatia, per la loro cattiveria, per il loro sadismo, per l’incapacità di trasmettere i contenuti.

Tutti gli insegnanti, quando sentono queste lamentazioni, ovviamente si arroccano sulla difensiva: sottolineano che la severità serve a crescere, che quando si è adolescenti non si ha la giusta percezione delle cose, e che in realtà per ogni insegnante inadeguato ce n’è almeno uno che invece lavora, e forse anche troppo. Anch’io faccio così, anch’io difendo spesso la categoria, perché in fondo tento di difendere me stesso da accuse che, almeno nel mio caso, mi paiono ingenerose. E però bisogna anche dire che se queste opinioni sono così diffuse, su così larga scala, anche tra professionisti che hanno studiato in giro per il mondo e di esperienza ne hanno da vendere, qualcosa di vero ci dev’essere. Magari non tutto, ma qualcosa sì.

Ne parlavamo anche nel Club del Libro di qualche giorno fa, la riunione mensile dedicata agli abbonati del canale in cui discutiamo di un volume che abbiamo letto tutti. Il libro in questione era, in quell’occasione, il Simposio di Platone, ma partendo dall’amore siamo finiti a parlare dell’amore per il sapere, e dall’amore per il sapere il salto verso la scuola è stato praticamente immediato. Tra i partecipanti sono emerse due visioni: da un lato, quella di chi vede nella scuola italiana tutto sommato un’eccellenza, soprattutto se paragonata ad altre scuole occidentali (europee, americana) in cui la preparazione dei ragazzi è di livello generalmente più scarso; dall’altro, quella di chi ritiene che la nostra scuola debba ancora essere migliorata e riformata, visti anche i risultati dei recenti test OCSE-PISA che ci vedono ancora piuttosto deficitari.

Come ho detto là, entrambe le visioni dicono a mio avviso qualcosa di vero. Io insegno in una scuola da cui escono – stando alle statistiche Eduscopio, Invalsi e così via – alcuni dei migliori studenti della penisola, con risultati eccellenti secondo praticamente tutti i parametri; e questi studenti non hanno problemi ad andare a studiare, se vogliono, in America, in Germania, in Inghilterra, in Francia. Anzi, l’unico problema a volte è la lingua, perché su quel versante – nonostante i molti passi avanti che sono stati fatti negli ultimi anni – siamo ancora un po’ deficitari; ma per il resto i nostri ragazzi, per quanto riguarda la preparazione, non hanno nulla da invidiare ai loro colleghi d’Oltralpe, se non qualche competenza (come quella del lavoro di squadra) che comunque si può affinare e acquisire anche poi.

Il guaio è che il mio liceo non è tutta l’Italia, e che la media nazionale risulta ancora problematica. Giusto per farvi capire la situazione, forse conviene sciorinare qualche numero.

Primo: il tasso di abbandono scolastico (cioè i giovani che lasciano la scuola prima del tempo) è attualmente in Italia all’11,5%, uno dei più alti in Europa. Uno studente su dieci, insomma, si ritira dalla scuola anzitempo. Il dato è preoccupante soprattutto in Sicilia e Campania, dove arriva addirittura, rispettivamente, al 18,8% (quasi uno su cinque) e al 16,1% (fonte: Openpolis).

Secondo: il livello di competenza in italiano in quinta superiore è problematico in molte regioni. I dati Invalsi ci dicono che in Campania quasi il 40% degli studenti è al livello più basso di comprensione della lingua italiana (in Veneto questa percentuale è del 12%). Detta in altri termini, due studenti campani su cinque non capiscono un banale testo in lingua italiana: è un dato drammatico. La media del sud è del 33% (uno studente su tre), la media del nord è del 14% (fonte: Invalsi).

Terzo: in matematica la situazione è ancora peggiore. Sempre l’Invalsi ci dice che in Campania il 46% degli studenti (praticamente la metà) è al livello più basso possibile in matematica: per loro, studiare matematica per 13 anni evidentemente non è servito a nulla o quasi. A Bolzano solo l’8% è in questa situazione, in Veneto il 13%. La media del sud è del 40%, quella del nord del 15%. Abbastanza impressionante, no?

Se andassimo a tirar fuori i dati degli anni precedenti (ve li risparmio, ma potete recuperarli facilmente se volete approfondire), risulterebbe evidente che il problema è strutturale e non episodico; che c’è un divario nord-sud che balza agli occhi e rappresenta un problema enorme. Che c’è, di fatto, una scuola di serie A e una scuola di serie B; e questo al di là degli insegnanti che lavorano dall’una o dall’altra parte.

Quando si guardano questi dati, infatti, la reazione più superficiale potrebbe essere: al nord ci sono gli insegnanti migliori, al sud i peggiori; oppure, in alternativa: al nord ci sono gli studenti migliori, al sud i peggiori. Basta scavare un po’ al di sotto della superficie, però, per rendersi conto che non è così: nella mia provincia, ad esempio, c’è da sempre una buona percentuale di insegnanti meridionali, e com’è possibile allora che insegnanti che hanno frequentato la scuola al sud poi vengano al nord e ottengano, coi loro studenti, risultati così buoni?

Evidentemente le spiegazioni (molte, complesse) stanno altrove; ma il risultato è che c’è un divario enorme, sotto diversi punti di vista, nel nostro paese. C’è un divario tra scuola e scuola, tra città e città, tra regioni e regioni. Chiunque debba iscrivere un figlio alle scuole elementari o medie sa bene che ci sono forti differenze anche tra un quartiere e l’altro di una stessa città; così come ci sono forti differenze tra certe scuole superiori ed altre all’interno della stessa provincia, anche se si tratta dello stesso tipo di scuola superiore.

Siamo il paese delle differenze, e questo per certi versi è un pregio. Ma qui non si tratta di diversi approcci, di diversi tipi d’insegnamento; qui si tratta di offrire ad una certa parte d’Italia quello che non offri a un’altra parte d’Italia. Qui si tratta di far partire con un handicap non da poco chi proviene da certe zone geografiche, dove evidentemente troppe cose non funzionano.

Perché, attenzione: quei dati non riguardano solo la scuola. Anzi, direi di più: non riguardano tanto la scuola, quanto piuttosto quello che sta attorno alla scuola. I programmi delle varie materie sono gli stessi in tutta Italia, il testo delle prove di maturità è lo stesso in tutta Italia, il percorso di formazione e di selezione dei docenti è lo stesso in tutta Italia; eppure i risultati sono incredibilmente diversi. Segno che la scuola non è tutto, che il contesto incide e che bisogna agire a più ampio raggio se si vuole cercare di migliorare le cose.

Ma eravamo partiti, se vi ricordate, dal lavoro che non si vede. Gli insegnanti, in questo, sono specialisti: quelli che hanno voglia di lavorare fanno un sacco di lavoro invisibile (correzioni, preparazione delle lezioni, aggiornamento, studio… tutte cose non conteggiate nel loro orario di lavoro), e pochi se ne accorgono, perché non sono presenti quando questo lavoro viene svolto. Nemmeno gli studenti – a meno che non siano un po’ più empatici o acuti della media – si rendono conto di quante ore i loro prof impiegano per preparare i materiali, per imbastire le lezioni, per correggere adeguatamente i loro compiti, per organizzare le loro uscite o attività.

Però, bisogna dirlo, anche la formazione dei ragazzi è, in sé, un lavoro invisibile. Non coincide solo con quello che si fa a scuola; coinvolge ogni passeggiata che si fa, ogni dialogo che si tiene a casa, ogni film che si vede, ogni canzone che si ascolta, ogni partita a calcio. La cultura è un affare ben più grande delle ore sui banchi di scuola; e quindi non deve stupire che programmi uguali e scuole (apparentemente) uguali diano risultati diversissimi. Perché si impara di più fuori da scuola che a scuola; si cresce di più nelle ore non ufficialmente destinate alla crescita che in quelle formalizzate; perché anche qui conta l’invisibile più che il visibile.

Cosa dovremmo fare, dunque? Quello che ci siamo detti anche qualche settimana fa: imparare a lavorare di più, tutti, spesso in modo invisibile; e a notare e premiare questo lavoro invisibile. Il mondo della cultura, purtroppo, è pieno di gente che ama mettersi in mostra portando un contributo minimo alla crescita delle persone; di professionisti del palcoscenico («i direttori artistici, gli addetti alla cultura», li chiamava Battiato) che vivono di amicizie, di articoli favorevoli, del fatto di mettersi in risalto e di costruzione del personaggio. In realtà sono uomini e donne, a ben guardare, che valgono poco.

E invece ci sono tanti altri che lavorano nell’ombra, che il loro contributo lo danno. Professoresse d’italiano che correggono i compiti di notte scrivendo decine di righe per far capire al ragazzo di turno come migliorare, prof di filosofia che lavorano tutta l’estate a dispense che poi i ragazzi guarderanno di striscio, allenatori di basket o di calcio che si inventano tornei e sacrificano tutti i loro weekend pur di dare ai ragazzi l’occasione di incontrarsi e socializzare, promotori culturali – ma di quelli veri – che invitano relatori pagandoli anche di tasca propria pur di farli venire nel loro sperduto paese di provincia. È questo lavoro invisibile che fa la differenza, che dà i risultati: pochi lo notano, ma è quello decisivo.

Non sempre è un lavoro che va a buon fine: perché magari le dispense di filosofia sono mediocri, perché magari il torneo di basket viene male, perché magari il relatore fa una conferenza noiosa a cui nessuno partecipa; però è solo tramite questo lavoro che, ogni tanto, si trova la modalità giusta e si riesce a lasciare il segno.

Siate quindi quelli che lavorano nell’ombra. Quelli che cercano di fare ogni volta un po’ meglio di quella precedente, quelli che non cercano onori ma sono più interessati a quello che lasciano che a quello che prendono. E siate quelli che sostengono chi fa questo lavoro invisibile, che apprezzano tutti i doni e che si sforzano di capire il lavoro che c’è dietro.

da qui

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