Il dogma delle privatizzazioni continua ad essere il faro dei governi italiani, siano essi in mano al mitizzato centro-sinistra di Prodi, al pilota automatico di Draghi o al nazionalismo sovranista di Meloni. Come una litania ipnotica, ogni volta che si affronta la tematica del debito pubblico -artatamente raccontato come il problema dei problemi- scatta il riflesso condizionato delle privatizzazioni.
E così anche l’ammucchiata reazionaria che ha oggi in
mano le redini del Paese affida il proprio destino alla vendita dei gioielli di
famiglia. Non che ne siano rimasti molti, dopo la scorpacciata degli anni ’90,
che aveva permesso nel 2001 all’allora ministro del Tesoro, Vincenzo Visco, di
introdurre il Libro Bianco sulle privatizzazioni con queste parole:
“La legislatura si conclude con la pressoché totale
fuoriuscita dello Stato dalla maggior parte dei settori imprenditoriali dei
quali, per oltre mezzo secolo, era stato, nel bene e nel male, titolare”.
Ma tant’è, si raschia il barile per avere un po’ di soldi ‘sporchi, maledetti e
subito’, regalando al mercato imprese strategiche o servizi di interesse
generale.
E’ così che è stato pomposamente annunciato il
secondo tempo della privatizzazione di Poste italiane, un passaggio
ridicolo anche dal punto di vista economico. Il governo Meloni si appresta
infatti a vendere l’intera quota in mano al Ministero dell’Economia e della
Finanza, pari al 29,26% del capitale sociale, contando di incassare 3,8 mld di
euro.
In termini di abbattimento del debito pubblico, che
viaggia sui 2.860 mld di euro, siamo alla presa per i fondelli; in termini di
bilancio, contando che l’utile attuale di Poste è pari a 1,5 mld/anno (500
ml/anno il dividendo per lo Stato), significa che nell’arco di otto anni
l’incasso ottenuto dalla privatizzazione verrebbe sterilizzato dalla perdita
dei dividendi annuali, con il risultato di aver perso il controllo di un ente
pubblico senza aver ricavato nulla dal punto di vista economico.
D’altronde, il governo Meloni non fa che ripetere
quanto già precedentemente fatto dal governo Renzi (a testimonianza della
pluralità delle chiese ma dell’unico dio adorato), che nel 2015 collocò sul mercato
quasi il 35% della quota di capitale detenuta dallo Stato, dopo averne ceduto
un’analoga quota a Cassa Depositi e Prestiti.
Dentro questo mefitico scenario, forse alcune
considerazioni vanno ricordate.
La prima è che il
sistema postale italiano è stato uno dei pilastri dell’unificazione del Paese e
un’infrastruttura che ne ha garantito la coesione sociale e territoriale:
se già in questa prima fase di privatizzazione si sono visti gli effetti in
termini di riduzione del personale, orientamento al business invece che al
servizio pubblico e chiusura delle sedi periferiche, non ci vuole un indovino
per prevederne l’esponenziale moltiplicazione.
La seconda considerazione riguarda
il fatto che l’infrastruttura sociale di Poste è stata edificata con i soldi
pubblici attraverso le tasse costantemente versate da quella parte del Paese
che non ha mai potuto, né voluto evaderle: di conseguenza
Poste non può mai essere considerata una proprietà del governo di turno, ma un
bene pubblico dell’intera comunità, che ha il diritto di deciderne finalità e
gestione.
Infine, dopo tre
decenni di privatizzazioni che hanno spolpato il Paese e messo con le spalle al
muro le comunità territoriali, credo sia giunto il
momento di fare un’operazione di onestà intellettuale e aprire una discussione
pubblica sugli effetti delle privatizzazioni in termini economici, sociali e
relazionali.
Perché se si priva una comunità dei beni che la
rendono tale è inaccettabile poi lamentarsi se la coesione sociale si è persa e
i territori sono diventati luoghi anonimi di individui brulicanti e rancorosi.
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