La rinuncia all’azione come premessa all’illuminazione.
L’Urlo e il furore di William Faulkner esce nel 1929, ed è un
romanzo ombroso quanto la Grande Depressione che inizia a imperversare nello
stesso anno. Intriso fino al midollo delle sue pagine di un’americanità degenere,
razzista e ipocrita, duraturo retaggio della mentalità schiavista e
campanilista degli Stati Confederati, questo gotico sudista “narra”,
perlopiù tacendole, le vicende della famiglia Compson. Vicenda “gotica” perché
tutt’altro che edificante (parrebbe quasi il controcanto aberrante di un libro
che esce trent’anni dopo, Il buio oltre la siepe di Harpee
Lee, la cui famiglia protagonista viene additata dai vicini ben-mal-pensanti
di “negrofilia”). Gli eventi emergono in filigrana a intermittenze irregolari
nel testo o attraverso le riflessioni di Dilsey, la signora afroamericana che
si occupa della disastrata famiglia protagonista.
Facciamo ora, ai fini dell’analisi, una divagazione nello spazio-tempo
intertestuale. Nel Bhagavadgītā, poema epico e testo sacro della
tradizione filosofico-religiosa indiana, il divino auriga Krishna invita il
combattente Arjuna a praticare il sarva-karma-phala-tyagam, la
“rinuncia al frutto delle azioni”. La parola sanscrita ospita, nella sua
complessità, moltitudini, e infatti, in una nota della raccolta di saggi Lanciato
dal pensiero di Renè Daumal, è definita “parola-fiume, Sarasvatī”
(la divinità femminile cui si attribuisce la creazione della lingua sanscrita
stessa). Per quanto possa sembrare poco ortodosso, per ragioni di spazio-tempo
e Storia, lanciandosi dentro la parola, un po’ oltre il pensiero, si potrebbe
azzardare un’associazione fra il concetto del sarva-karma-phala-tyagam e
l’Urlo e il Furore.
Il flusso di coscienza modernista è frutto dell’epoca del
frammento, delle aporie e della afasia del mondo reduce dalla prima guerra
mondiale: un mondo che non ha rinunciato all’azione ma ne ha anzi abusato fino
a mostrarne il suo rovescio, relegandosi all’ombra, a essere ombra di se
stesso. La coscienza modernista, esprimendosi nel flusso di coscienza, rinuncia
al frutto dell’azione perché opera nello squarcio, nei rivoli sperduti
del pensiero lanciato oltre il limite della parola letta. In
questa rinuncia all’azione – su un duplice piano storico e delle tecniche
narrative – il flusso di coscienza non ci mostra eventi, perché gli eventi e il
tempo non esistono più, sono tutte scartoffie di un tempo ormai accantonato
dalla relatività einsteiniana (la teoria della relatività generale è del 1915,
coincide quindi con la guerra), di un mondo che cercava un senso conchiuso
delle cose e che ora è evaporato nell’ombra. Il sarva-karma-phala-tyagam del
flusso di coscienza mostra un “rovescio” di pensieri scomposti, che nella
rinuncia si fa ospite-come la parola sanscrita – di complessa moltitudine e
rappresenta, per dirla con le parole di Pirandello, “il flusso continuo della
vita che nei momenti di piena rompe gli argini e straripa”.
Nell’abbandono si fa spazio alla conoscenza; un vuoto in opposizione al
riempitivo, contrario all’horror vacui narratologico dello storytelling che
richiede invece il divoramento veloce della pagina scritta. Nel mezzo del
fluire, del quotidiano, fa ogni tanto capolino l’illuminazione, la rottura
degli argini, ed ecco che torna l’associazione divagante fra filosofia indiana
e modernismo.
Il flusso di coscienza non ci mostra eventi, perché gli eventi e il tempo
non esistono più, sono tutte scartoffie di un tempo ormai accantonato dalla
relatività einsteiniana.
La rinuncia al frutto dell’azione, come istruzione morale e divagazione
sulle tecniche letterarie, è definibile soltanto in via negativa,
ma consente l’illuminazione epifanica, che è un momento di pienezza assertiva e
conoscitiva ed è ciò che contraddistingue i flussi di coscienza modernisti. In
maniera analoga, se l’illuminazione, che caratterizza anche i testi sacri, si
dà in questi ultimi attraverso un sapere estensivo, nei testi letterari essa
risiede nello squarcio, nei rivoli sperduti del pensiero lanciato oltre il
limite della parola letta.
Il canto del cigno dei Compson nell’Urlo e il furore è un
flusso di coscienza quasi continuo, che dà forma a quella che Bertolucci ha
definito una “sinfonia in quattro tempi”. Fra flussi di coscienza e sprazzi di
linearità narrativa, si dipana l’esistenza dei fratelli, e una sorella,
Compson, figli di Caroline e di un padre assente e alcolizzato. Il primogenito
Benji è disabile, e per questo non viene considerato alla stregua di uomo; ci
sono poi Quentin, innamorato della sorella Caddy, Jason, abietto fratello
“superstite” dopo il suicidio del fratello incestuoso e dopo la morte del
padre, e infine Quentin, figlia illegittima di Caddy.
L’Urlo e il furore, pur nell’abbassamento della materia trattata,
molto dissimile dalla rarefatta malinconia di testi modernisti coevi (Woolf,
Eliot ecc.), fa ampio ricorso al flusso di coscienza. Come ricorda anche Bertolucci,
il titolo del romanzo è tratto da una citazione shakespeariana del Macbeth
nella quale “la vita viene definita racconto detto da un idiota, pieno di urlo
e furore, che non significa nulla”, a testimonianza della sporca e inutile
brutalità materiale del mondo cantato da Faulkner. D’altronde, l’intera storia
della famiglia Compson, protagonista dell’Urlo e il Furore, è sporca,
sbagliata, materiale, “umana troppo umana” e impura. Nella trama aperta del
flusso di coscienza si può scorgere tuttavia un secondo “livello di conoscenza”
invisibilmente riflesso nelle aperture testuali.
Voliamo di nuovo oltre, verso il sarva-karma-phala-tyagam.
Nell’Urlo e il furore, la rinuncia al frutto dell’azione accomuna lo
scrittore a chi legge, perché è un prerequisito necessario per
“l’attraversamento”. Come scrive Bertolucci, prevedendo un plausibile blocco di
lettura verso la metà del romanzo, il flusso di coscienza di Faulkner va goduto
immergendosi “nell’incantagione profonda del suo sound”, mettendosi
in “ascolto” e passando a una modalità percettiva.
L’impulso all’ordine razionale e alla ricerca di sistematizzazione ordinata
e coerente di testi va messo a tacere: non è un caso se la forma narrativa che
utilizza Faulkner è stata messa a paragone con la teoria del Caos. Il testo si
presenta infatti per così dire scardinato dal suo ancoraggio e le parole
danzano appese su precari e temporanei appigli inconsueti, confondendoci,
spingendoci quasi a lanciare oltre il romanzo.
Se l’illuminazione nei testi sacri si dà attraverso un sapere estensivo,
nei testi letterari essa risiede nello squarcio, nei rivoli sperduti del
pensiero lanciato oltre il limite della parola letta.
A confondere gli orizzonti di attesa di chi legge è proprio quella qualità
ombrosa del romanzo che ha colpito tutti coloro che hanno scritto dell’Urlo
e il Furore (alcuni si sono messi a contare le occorrenze della parola
“ombra” nel testo) e che lo rende appunto, come scrive Tadini, un romanzo di
ombre. Le ombre sono il male che si nasconde dietro alle taciute vicende di
questa famiglia segnata dall’incesto e dall’ottusità e che genera un eterno
ritorno dell’uguale (il ripetersi degli stessi nomi di generazione in
generazione), mostrandosi nella filigrana delle parole-pensieri dei personaggi.
L’ombra è un tema ricorrente soprattutto nelle prime due parti del romanzo,
affidate a Benji e Quentin, figli maschi della seconda generazione Compson. La
loro voce, canto, o forse, più che altro elegia, è affidata a flussi di
coscienza nei quali l’azione è “rinunciata” e se ne mostra il “rovescio”
traslucido. Sarva-karma-phala-tyagah.
L’azione è qualcosa che Benji, primo Compson in scena, può subire ma non
agire. Benji è nato “idiota” e vive una vita fatta di percezioni. Nella seconda
metà del romanzo verrà definito dall’abietto fratello Jason “il grande castrato
d’America”, a dimostrazione di questo passare sotto silenzio le azioni più cupe
della vicenda, che spesso possiamo intuire solo ricostruendo parti di racconto
non contigue. Benji è un personaggio dell’ombra perché pensa senza pensiero,
percependo soltanto; la sua esistenza è lanciata in una panica melma percettiva
totalizzante. Il suo mondo privato è una continuità visiva e uditiva
costantemente esposta alle intemperie del mondo esterno e il suo rifugio è nell’ombra
del mondo, nel risvolto non visibile agli occhi altrui. “Esci ancora con lui da
quel cancello e ti ammazzo”, dirà Jason, frustrato fratello minore di Benji a
Luster, nipote di Dilsey.
Benji pare quasi l’anacronistico e paradossale frutto dell’incesto che si
consuma fra suo fratello e sua sorella, Quentin e Caddy. Anacronistico frutto
perché, come Sartre ha scritto, il piano della temporalità e della cronologia
non sono la stessa cosa nell’Urlo e il furore. Benji vive come se “si
tenesse all’inconsistenza silenziosa e imponderabile dell’ombra, di quell’ombra
che vede seguire immancabilmente non soltanto cose e persone ma anche la luce”,
dice Tadini. In linea con l’atemporale consanguineità confusionaria della sua
famiglia, Benji sente una costante nostalgia di Caddy, eletta dalla sua
intelligenza emotiva/percettiva a sorella-madre. Anche Caddy è una reietta,
quali sono d’altronde i portavoce del flusso di coscienza dell’Urlo e il
furore, Caddy, Quentin e Benji. Caddy viene espulsa come un relitto dalla
famiglia, è una “puttana” come la definisce Jason, il quale ricatterà e
maltratterà poi la nipote Quentin, concepita “nel peccato” dalla sorella
ripudiata.
Quentin è un altro personaggio dell’ombra, libero dalla portata dell’azione
e sciolto dai vincoli del ritmo narrativo; non racconta ma mostra un mondo
fatto di intermittenze. Nel suo flusso di coscienza, il secondo dei quattro
tempi, si apre un mondo di pensiero inframmezzato da intermittenze per così
dire ossessive, rendendo forse questa la parte più complessa della traversata.
Quentin si muove come trasportato da una corrente. A un certo punto si fa
trascinare in giro per la città da una bambina italiana cercando in teoria di
riportarla a casa ma forse in realtà perché è preda di una “dissociazione temporale”
che lo rende passivo d’azione e inerte. Dopo l’episodio si fa addirittura
arrestare senza battere ciglio, è al di sopra della nenia degli eventi perché
scardinato dal tempo. È proprio il tempo che contraddistingue il suo flusso di
coscienza, esprimendo appieno la dissociazione fra tempo cronologico,
dimensione temporale percepita e intermittenze epifaniche.
A confondere gli orizzonti di attesa di chi legge è proprio quella qualità
ombrosa del romanzo che ha colpito tutti coloro che hanno scritto dell’Urlo
e il Furore.
I pensieri di Quentin all’inizio sono ritmicamente cadenzati dal pensiero
che si rivolge all’orologio, regalo del padre, prima in forma evitante, come
rifiuto temporale, “mi alzai per raggiungere il comò e vi passai la mano sopra
e toccai l’orologio e lo misi a faccia in giù e tornai a letto”. Poi l’orologio
diventa antropomorfica inquietante presenza controllante, “ma l’ombra del
telaio era sempre là e avevo imparato a dire l’ora precisa quasi al minuto e
così mi tocco di voltargli le spalle, sentendomi prudere, mentre lui stava
lassù, gli occhi che una volta gli animali avevano dietro la testa”. L’orologio
sotto forma di ombra angosciante diventa primordiale creatura sorvegliante.
Sboccia come un fiore del male la prima occorrenza ossessiva nella testa di Quentin:
“è uscita di corsa dallo specchio, dall’onda di profumo. Rose. Rose. Il signor
Compson e signora annunciano le nozze di”; l’orologio continua a intercalare il
flusso di coscienza nelle pagine successive diventando ritardo, indimenticata
presenza, come quando cerchiamo di lasciare andare un pensiero e dopo una
boccata questo torna imperterrito a martellarci la coscienza. Quentin
mastica pensieri rimuginanti perché è assediato dall’idea del matrimonio
imminente dell’amata sorella Caddy,
hai mai avuto una sorella? Eh eh? [finchè a un tratto] un passero tagliò il
sole di sbieco, si posò sul davanzale, alzò la testa verso di me. L’occhio era
tondo e vivo. Prima mi guardava con un occhio, poi flic! Ed era l’altro, mentre
la gola gli palpitava più in fretta di qualsiasi pulsazione. L’orologio
cominciò a battere l’ora. Il passero smise di cambiare occhio e mi studiò
fermamente con lo stesso fino a quando cessarono i rintocchi, come se stesse
ascoltando anche lui. Poi volò via dal davanzale e sparì.
L’improvvisa comparsa, in mezzo al quotidiano, di questo passero pieno di
intenzioni, può essere letto come un’epifania, a segnalare l’apice
dell’autocoscienza tormentata di Quentin, un po’ alla Delitto e Castigo,
e che mette in moto la scollatura fra cronologia e temporalità.
Dalton Ames, Dalton Ames […] fino al giorno in cui egli dirà: Sorgete, e a
galla, piano piano, verrà solo il ferro da stiro. Non è quando capisci che
nulla può aiutarti […] è quando capisci di non aver bisogno di nulla. Se avessi
potuto essere sua madre distesa col corpo inarcato e dischiuso a ridere, a
fermare suo padre con la mia mano per impedire, vedere, guardarlo morire prima
di essere vissuto. Ora lei era ritta sulla soglia […] Battei il cristallo sullo
spigolo del cassettone e raccolsi i frammenti di vetro nella mano […] sul
quadrante c’era una macchia rossa, quando la vidi cominciò a dolermi il
pollice.
Passa il passero, la ruminazione mentale di Quentin è all’apice e a questo
punto si rompe il tempo. Il taglio netto dal tempo cronologico, nel suo
metonimico manifestarsi sotto forma di orologio, è insieme carnale e simbolico.
Già Sartre aveva scritto del valore simbolico della rottura dell’orologio di
Quentin e anche Tadini lo rimarca: “spezzando il suo orologio, Quentin è come
se mostrasse di desiderare la libertà di Benji – il suo tranquillo nichilismo
percettivo, la sua capacità di dissestare ogni ordine di senso”.
Il tempo fugge verso il suo centro ormai invisibile, nell’ombra, e Quentin
agisce inerte, trasportato dalla corrente dei suoi pensieri ormai liberati
dalla gabbia delle lancette, muovendosi in un tempo lento tutto suo, come ci
dimostra proprio la scena con la bambina. Può finalmente riportare i suoi
pensieri a un fulcro percettivo, come il fratello Benji. Quentin percepisce ormai
solo il valore aspettuale del tempo, quello a cui primitivamente davano valore
gli indoeuropei e che indica la qualità dello svolgersi delle azioni senza
precisa collocazione nel tempo.
Nei loro soliloqui Benji e Quentin sono accomunati anche dall’avere delle
specie di appigli calmanti di pensiero, parole che si ripetono tipo mantra,
come salsapariglia e caprifoglio, quasi a indicare
questo loro rapporto panico con la natura circostante e la loro liberazione dal
peso dell’azione narrata, o sensata. I due fratelli, Benji sempre, Quentin dopo
che rompe l’orologio, non hanno bisogno della narrazione, pensano per libere
associazioni. Alla fine Quentin abdica all’azione con il massimo gesto di
rinuncia al frutto dell’azione, lanciandosi simbolicamente e concretamente nel
nulla: nella realtà testuale nell’assenza di parola, nei fatti da un ponte
vicino alla facoltà di Harvard dove era stato mandato a studiare perché figlio
prescelto per dare frutti dell’azione, optando per l’in-azione.
Nell’Urlo e il furore il male vero sembra stare proprio
nell’azione, coincidente con la parola, solida convinzione marmorea e
irremovibile.
A proposito di cronologia, nei pensieri di Quentin sembra comparire anche
una volontà di riavvolgere il tempo, stavolta cronologico e fattuale: “muoversi
stando fermi. Le mie viscere si torcevano per te. Ora lei dritta sulla soglia.
Benji. Che urlava. Benjamin il figlio della mia vecchiaia che urlava. Caddy!
Caddy!”. Quentin sembra conscio della paradossale percezione contro le leggi
del tempo, che Benji sia figlio suo e di Caddy, e vorrebbe rompere quella
condanna all’inferno ereditario il cui contrappasso è l’immutabile ripetizione;
perché vorrebbe impedire il concepimento della sorella amata, che nei suoi
pensieri sta dritta sulla soglia, sulla porta del tempo avveratosi e non
rimasto alternativa possibile, frutto di un’azione non risparmiata.
Il desiderio di Quentin richiama il completo scardinamento della
temporalità modernista, percepita come una fluidità anche direzionale, nella
compenetrazione di passato, presente e futuro. Dopo l’espiazione simbolica di
Quentin, che non lava i peccati dei Compson, prende la parola Jason.
Millantatore, agente che perpetua il male generazionale della propria famiglia,
inganna la madre, ricatta la sorella e la nipote Quentin, omonima del fratello,
maltrattandola. Non è un caso forse che la narrazione si faccia lineare proprio
quando a parlare è lui, in un climax ascendente di raggiungimento della
linearità nella terza e nella quarta parte del romanzo e che mostra un’azione
piena e priva di senso, oltre l’azione. Nella parte dedicata
al punto di vista di Jason, la terza, (la quarta è super partes),
non c’è rinuncia, né fatica di lettura dovuta alle volute di pensieri
scomposti.
Nell’Urlo e il furore il male vero sembra stare proprio
nell’azione, lanciata dentro la parola, con essa coincidente, tutta
solida convinzione marmorea e irremovibile. La redenzione, che come ci dice
Bertolucci sta anche forse nella liturgia finale del parroco afroamericano, che
viene celebrata nello stesso momento in cui Jason si dedica all’azione attiva
inutile e ottusa di ricerca della nipote che gli “ruba” i soldi che lui prima
ha rubato a lei, sta forse proprio nella parola che rinuncia al frutto
dell’azione. Quella che come una freccia si lancia al centro
rotante del pensiero, immobile e plastico, danzante, dei flussi di coscienza
degli sbagliati e giusti Quentin, Benji e Caddy, il cui inconscio emerge nel
testo dalle intermittenze di pensiero come un fiume inarrestabile,
rompendo gli argini del linguaggio.
È come quando balla stando seduti hai mai ballato stando seduto? Potevamo
udire la pioggia, un topo nella greppia, la stalla vuota, senza cavalli. Come
fai quando balli tieni cosi
Oh
Quando ballo tengo così credevi che non fossi forte abbastanza vero
Oh Oh Oh Oh
Quando tengo ballo così voglio dire hai sentito quel che ho detto ho detto
oh oh oh oh
Un critico americano una volta chiese a Faulkner se dietro allo schema di
richiami presente nel testo dell’Urlo e il furore vi fosse una
progettualità, una qualche intenzionalità, e Faulkner rispose di no, aveva
messo tutto come gli era venuto in mente lì per lì, scrivendo il testo
abbastanza d’impulso. L’Urlo e il Furore è forse la prova
della lezione di Francesco Orlando, secondo cui la letteratura è lo spazio
dell’inconscio, del sovrannaturale e degli oggetti desueti quale forse,
ultimamente, sta diventando la lettura di Faulkner.
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