Liberarsi dalle catene – Toni Negri
Negli anni Sessanta, Settanta, dice Negri, le riflessioni teoriche erano
parte integrante delle lotte operaie. “L’operaismo è stata una pratica di
studio, di intervento – meglio di intervento e di studio – che noi, io e tanti
altri compagni, soprattutto in Italia nelle grandi fabbriche della piana del
Po, utilizzammo in quegli anni. Noi intervenivamo, accompagnando gruppi di
operai con i quali vivevamo […] Si studiava insieme che cosa avveniva
dentro la fabbrica, quali erano i rapporti di comando che venivano subiti per
comprendere bene quali erano i momenti in cui sarebbe stato possibile
ribellarsi, insieme a chi lavorava sulle catene di montaggio o sulle grandi
linee delle industrie chimiche”.
Una stagione di scioperi clamorosi e di analisi straordinarie che hanno
consentito grandi avanzamenti, nella società e nel welfare. Analisi che si sono
mosse dal lavoro di fabbrica al nuovo profilo dell’operaio sociale.
Conclude Negri, emozionando: “Oggi sono qui ancora perché anche da vecchi
possiamo ancora dire: “Forza compagni, andiamo avanti!”. E se qualcuno dovesse
chiedermi che cosa consiglierebbe un Toni Negri vecchio a un Toni Negri
giovane, ebbene io credo che gli consiglierebbe di fare ciò che hanno fatto i
vecchi: ricomincia ad andare in mezzo ai compagni, ricomincia a studiare a
scuola, all’università, ricomincia ad andare a vedere dove c’è il lavoro come è
fatto, in termini di inchiesta innanzitutto, cioè di sapere, di conoscenza e
poi di lotta, insieme a tutti i compagni. Poiché la lotta di
liberazione si fa insieme alla gente che soffre di più. E noi siamo la gente
che soffre di più. E si fa nel lavoro e si fa per liberarsi dalle
catene. Sempre, ieri come oggi. E oggi, scusatemi se aggiungo
questa ultima cosa, liberandoci anche dalle catene della guerra. Perché
la guerra è l’ultima cosa che il capitale è capace di fare. È capace di
distruggere anche se stesso per tenerci sotto il suo tallone. Dunque inchiesta
per liberarci dal lavoro ma soprattutto, anche e sempre, per conquistare la
pace”.
Da Toni Negri a Ilaria Salis: “contro l’orbánizzazione in Europa” - Roberto Bertoni
Ci occupiamo di Ilaria Salis, la maestra elementare milanese, convintamente
anti-fascista, detenuta da dieci mesi in un carcere ungherese in condizioni
inaccettabili per chiunque. Come scrive Fabio Tonacci su Repubblica, la
donna, trentanove anni, ha a che fare con “topi e scarafaggi in cella, cibo
scarso, meno di tre metri e mezzo di spazio vitale a disposizione e
l’umiliazione di essere trascinata alle udienze legata e tenuta al guinzaglio
da un agente della scorta”.
La sua colpa, il presunto reato che avrebbe commesso e per il quale rischia
ben sedici anni di detenzione, sarebbe aver aggredito due neo-nazisti durante
una contro-manifestazione volta a contrastare il raduno di nostalgici
hitleriani (una commemorazione non autorizzata ma tollerata dal governo Orbán)
che si svolge a Budapest ogni 11 febbraio, nel cosiddetto “Giorno dell’Onore”,
quando i sedicenti patrioti magiari ricordano il tentativo di fuga delle SS
dalla capitale ungherese, ormai circondata dalle truppe dell’Armata Rossa,
durante la Seconda guerra mondiale.
Apprendiamo anche che suo padre, Roberto Salis, ha scritto alla presidente
del Consiglio, Meloni, al presidente del Senato, La Russa, e ai ministri Tajani
e Nordio, affinché alla figlia siano garantiti diritti, integrità,
proporzionalità nel capo di imputazione e, possibilmente, il trasferimento ai
domiciliari in Italia, senza finora ricevere alcuna risposta.
A farsi carico della vicenda, al momento, è stato il leader di Sinistra
Italiana, Nicola Fratoianni, affermando: “La vicenda della cittadina italiana
costretta in condizioni disumane nelle carceri ungheresi e di cui dà conto oggi
Repubblica è incredibilmente grave e il governo italiano ne dovrà rispondere in
Parlamento al più presto.
Vogliamo sapere che cosa ha fatto finora l’ambasciata italiana a Budapest,
almeno per rivendicare i diritti basilari della civiltà giuridica a tutela
della nostra concittadina”. E ha aggiunto: “Se invece purtroppo non accadesse
nulla, sarebbe ancora più evidente la complicità e la subalternità della destra
italiana con una cultura e pratiche che non possono appartenere al nostro
vivere civile”.
Scusate se mettiamo insieme vari elementi, ma le riflessioni che intendiamo
formulare si dividono fra passato e presente. Era, infatti, il 5 luglio 1977
quando su Lotta Continua apparve un appello, firmato da numerosi intellettuali
di fama mondiale, tra cui Jean-Paul Sartre, “contro la repressione in Italia”,
ossia contro il processo, ribattezzato di “germanizzazione”, volto a rendere la
vita pressoché impossibile – a detta dei firmatari – a chiunque osasse opporsi
alla logica del compromesso storico. Basti pensare che, nei mesi precedenti,
nel nostro Paese si erano verificati episodi incresciosi, a cominciare dagli
omicidi di giovani manifestanti come Pierfrancesco Lorusso e Giorgiana Masi da
parte delle forze dell’ordine (ministro degli Interni Cossiga). Non sappiamo se
avessero ragione del tutto, ma non c’è dubbio che alcune delle loro riflessioni
e analisi fossero profetiche. Proprio come si sono rivelate profetiche le
intuizioni di Toni Negri, scomparso a novant’anni, al termine di un’esistenza
spesa a denunciare le storture dell’alienazione capitalista prima e quelle
della globalizzazione liberista poi. Lo citiamo a proposito perché i famigerati
arresti del 7 aprile 1979 ai danni di alcuni dei principali esponenti
dell’Autonomia Operaia non ci hanno mai convinto, costituendo, a nostro
giudizio, una lesione dei principî costituzionali.
Scriviamo con toni tanto accorati perché ci rendiamo conto di quanto sia
assurda la sottovalutazione di ciò che sta avvenendo nel Vecchio Continente.
Come gli arresti preventivi di allora, frutto del “teorema Calogero” (dal nome
del giudice Pietro Calogero), costituivano un precedente piuttosto grave, così
è inaccettabile l’“orbánismo” attuale, riprendendo una definizione della
compianta filosofa ungherese Ágnes Heller, il quale prevede,
evidentemente, processi e condanne politiche.
Non abbiamo condiviso ogni punto di vista di Negri e, meno che mai, certe
sue conclusioni, ma non c’è dubbio che ci avesse visto giusto e che ci avesse
messo in guardia per tempo su quali sarebbero stati gli sviluppi della deriva
cui stiamo andando incontro.
Sappia, il governo Meloni, che non abbiamo mai taciuto e non cominceremo
adesso. Abbiamo chiesto verità e giustizia sempre e comunque, chiunque fosse il
soggetto o la comunità in questione: da Genova a Giulio Regeni, passando per
mille altre tragedie verificatesi da quando esistiamo.
Siamo, dunque, al fianco di Ilaria e della sua famiglia e chiediamo non
solo che possa rientrare immediatamente in Italia ma che sia sottratta alla
giustizia dispotica di un Paese che, ci spiace dirlo, l’Unione Europea dovrebbe
smettere di accogliere, essendo l’opposto di tutti i valori su cui il progetto
comunitario dovrebbe fondarsi e rappresentando un freno intollerabile a ogni
possibile evoluzione in senso politico e statuale.
È inutile, parlando sempre di Repubblica, ricordare pur meritoriamente il
cinquantesimo anniversario della strage che ebbe luogo a Fiumicino il 17
dicembre del ’73, con annessi segreti, non detti e vergogne varie, se poi non
si riconoscono gli atti di barbarie contemporanei. L’orrore va chiamato col
proprio nome in ogni circostanza, e se il quotidiano diretto da Molinari ha
deciso di tornare a farlo, non possiamo che esserne felici. Ogni voce che si
leva in nome della democrazia e dei diritti umani è benemerita.
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