domenica 17 dicembre 2023

ricordo di Toni Negri

 

Liberarsi dalle catene – Toni Negri

Negli anni Sessanta, Settanta, dice Negri, le riflessioni teoriche erano parte integrante delle lotte operaie. “L’operaismo è stata una pratica di studio, di intervento – meglio di intervento e di studio – che noi, io e tanti altri compagni, soprattutto in Italia nelle grandi fabbriche della piana del Po, utilizzammo in quegli anni. Noi intervenivamo, accompagnando gruppi di operai con i quali vivevamo […] Si studiava insieme che cosa avveniva dentro la fabbrica, quali erano i rapporti di comando che venivano subiti per comprendere bene quali erano i momenti in cui sarebbe stato possibile ribellarsi, insieme a chi lavorava sulle catene di montaggio o sulle grandi linee delle industrie chimiche”.

Una stagione di scioperi clamorosi e di analisi straordinarie che hanno consentito grandi avanzamenti, nella società e nel welfare. Analisi che si sono mosse dal lavoro di fabbrica al nuovo profilo dell’operaio sociale. 

Conclude Negri, emozionando: “Oggi sono qui ancora perché anche da vecchi possiamo ancora dire: “Forza compagni, andiamo avanti!”. E se qualcuno dovesse chiedermi che cosa consiglierebbe un Toni Negri vecchio a un Toni Negri giovane, ebbene io credo che gli consiglierebbe di fare ciò che hanno fatto i vecchi: ricomincia ad andare in mezzo ai compagni, ricomincia a studiare a scuola, all’università, ricomincia ad andare a vedere dove c’è il lavoro come è fatto, in termini di inchiesta innanzitutto, cioè di sapere, di conoscenza e poi di lotta, insieme a tutti i compagni. Poiché la lotta di liberazione si fa insieme alla gente che soffre di più. E noi siamo la gente che soffre di piùE si fa nel lavoro e si fa per liberarsi dalle catene. Sempre, ieri come oggi. E oggi, scusatemi se aggiungo questa ultima cosa, liberandoci anche dalle catene della guerra. Perché la guerra è l’ultima cosa che il capitale è capace di fare. È capace di distruggere anche se stesso per tenerci sotto il suo tallone. Dunque inchiesta per liberarci dal lavoro ma soprattutto, anche e sempre, per conquistare la pace”. 

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Da Toni Negri a Ilaria Salis: “contro l’orbánizzazione in Europa” - Roberto Bertoni

Ci occupiamo di Ilaria Salis, la maestra elementare milanese, convintamente anti-fascista, detenuta da dieci mesi in un carcere ungherese in condizioni inaccettabili per chiunque. Come scrive Fabio Tonacci su Repubblica, la donna, trentanove anni, ha a che fare con “topi e scarafaggi in cella, cibo scarso, meno di tre metri e mezzo di spazio vitale a disposizione e l’umiliazione di essere trascinata alle udienze legata e tenuta al guinzaglio da un agente della scorta”.

La sua colpa, il presunto reato che avrebbe commesso e per il quale rischia ben sedici anni di detenzione, sarebbe aver aggredito due neo-nazisti durante una contro-manifestazione volta a contrastare il raduno di nostalgici hitleriani (una commemorazione non autorizzata ma tollerata dal governo Orbán) che si svolge a Budapest ogni 11 febbraio, nel cosiddetto “Giorno dell’Onore”, quando i sedicenti patrioti magiari ricordano il tentativo di fuga delle SS dalla capitale ungherese, ormai circondata dalle truppe dell’Armata Rossa, durante la Seconda guerra mondiale.

Apprendiamo anche che suo padre, Roberto Salis, ha scritto alla presidente del Consiglio, Meloni, al presidente del Senato, La Russa, e ai ministri Tajani e Nordio, affinché alla figlia siano garantiti diritti, integrità, proporzionalità nel capo di imputazione e, possibilmente, il trasferimento ai domiciliari in Italia, senza finora ricevere alcuna risposta.

A farsi carico della vicenda, al momento, è stato il leader di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, affermando: “La vicenda della cittadina italiana costretta in condizioni disumane nelle carceri ungheresi e di cui dà conto oggi Repubblica è incredibilmente grave e il governo italiano ne dovrà rispondere in Parlamento al più presto.

Vogliamo sapere che cosa ha fatto finora l’ambasciata italiana a Budapest, almeno per rivendicare i diritti basilari della civiltà giuridica a tutela della nostra concittadina”. E ha aggiunto: “Se invece purtroppo non accadesse nulla, sarebbe ancora più evidente la complicità e la subalternità della destra italiana con una cultura e pratiche che non possono appartenere al nostro vivere civile”.

Scusate se mettiamo insieme vari elementi, ma le riflessioni che intendiamo formulare si dividono fra passato e presente. Era, infatti, il 5 luglio 1977 quando su Lotta Continua apparve un appello, firmato da numerosi intellettuali di fama mondiale, tra cui Jean-Paul Sartre, “contro la repressione in Italia”, ossia contro il processo, ribattezzato di “germanizzazione”, volto a rendere la vita pressoché impossibile – a detta dei firmatari – a chiunque osasse opporsi alla logica del compromesso storico. Basti pensare che, nei mesi precedenti, nel nostro Paese si erano verificati episodi incresciosi, a cominciare dagli omicidi di giovani manifestanti come Pierfrancesco Lorusso e Giorgiana Masi da parte delle forze dell’ordine (ministro degli Interni Cossiga). Non sappiamo se avessero ragione del tutto, ma non c’è dubbio che alcune delle loro riflessioni e analisi fossero profetiche. Proprio come si sono rivelate profetiche le intuizioni di Toni Negri, scomparso a novant’anni, al termine di un’esistenza spesa a denunciare le storture dell’alienazione capitalista prima e quelle della globalizzazione liberista poi. Lo citiamo a proposito perché i famigerati arresti del 7 aprile 1979 ai danni di alcuni dei principali esponenti dell’Autonomia Operaia non ci hanno mai convinto, costituendo, a nostro giudizio, una lesione dei principî costituzionali.

Scriviamo con toni tanto accorati perché ci rendiamo conto di quanto sia assurda la sottovalutazione di ciò che sta avvenendo nel Vecchio Continente. Come gli arresti preventivi di allora, frutto del “teorema Calogero” (dal nome del giudice Pietro Calogero), costituivano un precedente piuttosto grave, così è inaccettabile l’“orbánismo” attuale, riprendendo una definizione della compianta filosofa ungherese Ágnes Heller, il quale prevede, evidentemente, processi e condanne politiche.

Non abbiamo condiviso ogni punto di vista di Negri e, meno che mai, certe sue conclusioni, ma non c’è dubbio che ci avesse visto giusto e che ci avesse messo in guardia per tempo su quali sarebbero stati gli sviluppi della deriva cui stiamo andando incontro.

Sappia, il governo Meloni, che non abbiamo mai taciuto e non cominceremo adesso. Abbiamo chiesto verità e giustizia sempre e comunque, chiunque fosse il soggetto o la comunità in questione: da Genova a Giulio Regeni, passando per mille altre tragedie verificatesi da quando esistiamo.

Siamo, dunque, al fianco di Ilaria e della sua famiglia e chiediamo non solo che possa rientrare immediatamente in Italia ma che sia sottratta alla giustizia dispotica di un Paese che, ci spiace dirlo, l’Unione Europea dovrebbe smettere di accogliere, essendo l’opposto di tutti i valori su cui il progetto comunitario dovrebbe fondarsi e rappresentando un freno intollerabile a ogni possibile evoluzione in senso politico e statuale.

È inutile, parlando sempre di Repubblica, ricordare pur meritoriamente il cinquantesimo anniversario della strage che ebbe luogo a Fiumicino il 17 dicembre del ’73, con annessi segreti, non detti e vergogne varie, se poi non si riconoscono gli atti di barbarie contemporanei. L’orrore va chiamato col proprio nome in ogni circostanza, e se il quotidiano diretto da Molinari ha deciso di tornare a farlo, non possiamo che esserne felici. Ogni voce che si leva in nome della democrazia e dei diritti umani è benemerita.

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