Il 31
ottobre 2023 l’Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, ha pronunciato,
davanti al Consiglio di sicurezza dell’ONU presieduto dal brasiliano Sérgio França Danese,
un discorso di grande tensione politica e morale sulla situazione e il
numero dei rifugiati nel mondo e sulle molte guerre in corso, comprensivo di un
accorato appello al cessate il fuoco in Palestina. Particolarmente nette le
conclusioni che investono il ruolo e la credibilità dell’Onu e del suo
Consiglio di sicurezza: «La gravità di questo momento non può essere
sottovalutata. Le scelte che voi 15 farete – o non farete – segneranno tutti
noi, e per le generazioni a venire. Lascerete che questo puzzle di conflitti si
completi di atti aggressivi a causa della vostra disgregazione o di semplice
negligenza? O sarete coraggiosi e intraprenderete i passi necessari per far
ritorno dagli abissi?». Di seguito si pubblica il testo completo
dell’intervento. (la
redazione)
Presidente,
La ringrazio,
I nostri
ultimi dati parlano di 114 milioni di rifugiati e persone sfollate nel mondo:
114 milioni!
Si tratta di
un sintomo tangibile, sicuramente, ma spesso ignorato, dell’attuale ed estremo
disordine mondiale, la ringrazio per aver dato spazio a questa annuale
discussione, nonostante i tanti impegni, soprattutto in questi giorni, a
riprova dell’attenzione del Brasile per coloro che sono costretti alla fuga.
Le persone
costrette a fuggire sono una diretta conseguenza del fallimento nel garantire
pace e sicurezza, e i conflitti brutali continuano ad esserne la causa
principale. Le ultime tre settimane hanno provato in maniera devastante come
l’inosservanza delle regole fondamentali di guerra e del diritto internazionale
umanitario, stia diventando sempre più la norma e non l’eccezione, a fronte di
un numero senza precedenti di civili innocenti uccisi: gli attacchi di Hamas
contro i civili israeliani e l’uccisione di civili palestinesi e la massiccia
distruzione di infrastrutture causata dall’operazione militare israeliana in
corso. Mentre parliamo, e come ormai sapete, oltre due milioni di cittadini di
Gaza, metà dei quali bambini, stanno vivendo quello che il mio collega Philippe
Lazzarini ha definito “l’inferno in terra”. Un cessate il fuoco umanitario,
unito ovviamente a una sostanziale fornitura di aiuti umanitari all’interno di
Gaza, può almeno fermare questa spirale di morte e spero per questo che
possiate superare le vostre divisioni ed esercitare la vostra autorità per
chiederlo, il mondo sta aspettando che voi lo facciate.
Ma vogliamo
sperare che il cessate il fuoco sia il primo passo per intraprendere, ancora
una volta – finalmente! – il cammino verso una soluzione. Per molti anni,
compresi quelli in cui ho diretto l’UNRWA, mi sono reso conto di come la
soluzione del conflitto israelo-palestinese sia sempre stata descritta come
“sfuggente”: ma non è stata sfuggente; è stata ripetutamente e deliberatamente
trascurata, messa da parte come qualcosa di non più necessario, e quasi
ridicolizzata. Affrontare la cronica recrudescenza della violenza, seguita da
cessate il fuoco temporanei, è stato ritenuto più conveniente che concentrarsi
su una vera pace, in grado di dare a israeliani e palestinesi i diritti, il
riconoscimento, la sicurezza e la statualità che meritano. Spero che ora, tra
gli orrori della guerra, si possa almeno capire quanto sia stato grave l’errore
di valutazione. Non ci sarà pace nella regione e nel mondo senza una giusta
soluzione al conflitto israeliano e palestinese, compresa la fine
dell’occupazione israeliana. Spero che le osservazioni del Segretario Generale
qui in Consiglio la scorsa settimana aiutino tutti a riflettere sulla necessità
di voltare questa cupa pagina, per quanto difficile possa essere: perché è
vitale.
E il
contrario è profondamente preoccupante. Sebbene l’UNHCR non abbia il mandato di
operare nei Territori palestinesi occupati (e permettetemi di rendere omaggio
soprattutto all’UNRWA, la mia ex organizzazione, e ad altri operatori umanitari
per il loro eroico lavoro, ed esprimere le mie più sentite condoglianze per i
67 colleghi uccisi), è chiaro che quest’ultima e più letale fase di conflitto
violento rischia di contagiare l’intera regione e non solo, con conseguenze
catastrofiche, anche in luoghi in cui c’è una forte presenza dell’UNHCR e dove
lavoriamo per proteggere e assistere gli sfollati e cambiare la loro
condizione.
Signor
Presidente,
il conflitto
a Gaza è l’ultimo – e forse il più grande – tassello di un pericolosissimo
puzzle di guerre che si stanno rapidamente chiudendo intorno a noi.
Ma noi – voi
– abbiamo la responsabilità di ricordare che non è l’unico.
Pensate al
Sudan: solo sei mesi fa i governi e i media erano molto concentrati su questa
situazione, mentre i cittadini di questo Paese venivano sradicati a causa di un
conflitto esploso senza alcun preavviso e che ha trasformato le loro case dove
vivevano in pace, in cimiteri. Ora, i combattimenti aumentano in portata e
brutalità, colpendo la popolazione del Sudan, e il mondo è scandalosamente
silenzioso, nonostante le continue violazioni del diritto internazionale
umanitario persistano impunemente. È vergognoso che le atrocità commesse 20
anni fa in Darfur possano ripetersi oggi e che ci sia così poca attenzione. Di
conseguenza, quasi sei milioni di persone sono state costrette ad abbandonare
le loro case; più di un milione sono fuggite in Paesi vicini e spesso fragili –
e alcuni di loro si sono già spostati in Libia e in Tunisia, attraversando poi
il Mediterraneo su imbarcazioni di fortuna verso l’Italia e il resto d’Europa.
Accolgo con favore la ripresa dei colloqui di Gedda e spero che contribuiscano
a raggiungere presto, almeno, un cessate il fuoco.
Pensate al
Libano, che sta soffrendo per il collasso economico di un Paese in cui una
persona su quattro è un rifugiato palestinese o siriano, concreto segnale di
non uno ma ben due conflitti irrisolti ai confini di questo piccolo Paese.
Pensate alla
regione del Sahel centrale, dove, in contesti di grave instabilità politica, la
violenza brutale, che per anni ha terrorizzato i civili, sta di nuovo
aumentando, costringendo sempre più persone a fuggire verso gli Stati costieri
dell’Africa, che sono giustamente molto preoccupati, sullo sfondo di
un’emergenza climatica che sta inesorabilmente devastando i Paesi più poveri.
Pensate alla
Repubblica Democratica del Congo, dove uno dei peggiori effetti dei conflitti
recenti – l’orribile violenza contro le donne – è talmente diffuso come
strumento di guerra da rendere il mondo quasi insensibile alle notizie ricevute
ogni giorno sul numero sempre in crescita di donne e bambini violentati,
sfruttati e uccisi – una violenza, questa, che spinge ogni giorno le persone ad
abbandonare le loro case e fuggire.
Basti
pensare all’Armenia, dove 100.000 rifugiati sono fuggiti da Karabakh nel giro
di pochi giorni; il risultato di un altro conflitto irrisolto che è stato
lasciato ribollire per decenni.
Guardiamo a
luoghi come l’America Centrale e altrove, dove vediamo sempre più uno schema
per cui crisi irrisolte si aggravano a causa della criminalità, incluse le gang
criminali, che costringono le persone alla fuga – e dove complessi flussi di
popolazione ora comprendono anche molti arrivi dall’Africa e oltre – a
testimonianza della globalità di questo fenomeno e la disperazione.
Ogni nuova
crisi sembra spingere le precedenti in un pericoloso oblio. Ma queste
continuano ad esistere. Pensate all’Ucraina, dove come avete appena sentito,
non solo persiste la condizione di tutti i civili – tra cui più di 11 milioni
di persone, costretti ad abbandonare le proprie case in seguito all’invasione
ma è particolarmente acuta ora, con l’arrivo dell’inverno. La loro sofferenza
non deve essere dimenticata e anche questo conflitto deve essere risolto con
una giusta pace per il popolo ucraino.
Signor
Presidente, pensi a tutte queste crisi, e lasci che questo operatore umanitario
da ormai una vita, le dica, che abbiamo bisogno della sua voce per affrontarle
tutte. Non le vostre voci. La vostra voce. La vostra voce forte e unita
dell’autorità che la Carta affida a questo Consiglio, ma che il mondo non sente
più, affogato com’è da rivalità e divisioni. Dal mio punto di vista, questo è
diventato difficile da capire. Come sostenitore del multilateralismo e del
ruolo delle Nazioni Unite, non posso accettarlo.
Signor
Presidente,
Agli
operatori umanitari viene chiesto di raccogliere i pezzi e di aiutare sempre
più persone in sempre più luoghi. Ci viene chiesto di andare avanti più a lungo
e di cercare di tenere insieme più cose, mentre poco si fa sul piano politico
per ottenere la pace.
Vi
assicuriamo che non ci arrenderemo, anche quando sarà ancora più difficile.
Riconoscendo, ad esempio, che importante onere rappresentano per i paesi
limitrofi che li ospitano, i milioni di rifugiati siriani, continuiamo a
collaborare con il governo siriano per colmare l’ancora ampio divario legato
alla mancanza di fiducia che esiste e per creare le condizioni affinché i
rifugiati possano infine tornare volontariamente, in sicurezza e dignità.
Per questo
motivo è frustrante pensare che quando troviamo delle soluzioni, come ad
esempio in Burundi, non abbiamo i fondi per aiutare le persone a tornare a casa
e a ricominciare la loro vita.
Ma ci sono
anche altre sfide, che riflettono l’instabilità del nostro mondo: un esempio
sono Paesi come il Myanmar, l’Afghanistan e altri, dove la combinazione di
conflitti, violazioni dei diritti umani e sfide umanitarie fa sì che la
consegna degli aiuti – indispensabile per salvare vite umane – richieda
l’interazione con le autorità de facto in contesti politici difficili e spesso
pericolosi.
Apprezzo i
rischi ed il lavoro svolto dal Consiglio sulle deroghe umanitarie, che spero
continui. Perché in queste situazioni abbiamo bisogno di flessibilità,
innanzitutto da parte di chi controlla il territorio, ma anche da parte dei
nostri sostenitori. La realtà è che gli operatori umanitari stanno cercando di
tenere insieme i pezzi del puzzle anche in questi territori, dove per la
maggior parte dei governi è troppo difficile operare. Ci stiamo impegnando e
quindi siamo esposti. Ma non ci arrendiamo perché le persone non possono vivere
in attesa di una pace alla cui costruzione nessuno lavora.
Inoltre, ci
viene chiesto di fare di più con meno risorse. Perdonatemi se parlo di soldi,
ma devo farlo, perché il lavoro umanitario ha bisogno di risorse. L’UNHCR
soltanto, ha urgentemente bisogno di 600 milioni di dollari entro la fine
dell’anno e le prospettive per quello successivo sono pessime, con i grandi
donatori che tagliano gli aiuti e altri – che potrebbero aiutare – che non si
impegnano nel sostegno multilaterale. L’UNRWA – il cui ruolo cruciale è ormai
chiaro a tutti – è cronicamente sottofinanziata. Il WFP (Programma Alimentare
Mondiale), l’UNICEF e il Comitato Internazionale della Croce Rossa vivono la
nostra stessa crisi finanziaria per perseguire le loro attività umanitarie.
Pertanto,
siamo costretti a stabilire le priorità e riorganizzarci.
Tagliamo le
razioni, i ripari, il nostro personale, sperando di mantenere un’ancora di
salvezza per chi ne ha bisogno. Ma in molti luoghi quell’ancora di salvezza si
assottiglia di giorno in giorno. Essere soli, essere esposti, essere a corto di
risorse mi spinge a chiedermi per quanto tempo ancora possiamo continuare. Gli
operatori umanitari sono tenaci – ma, signor Presidente, sono vicini al punto
di rottura. E cosa vi rimarrà, quando saranno costretti ad andarsene?
Signor
Presidente,
La gravità di
questo momento non può essere sottovalutata. Le scelte che voi 15 farete – o
non farete – segneranno tutti noi, e le generazioni a venire.
Lascerete
che questo puzzle di conflitti si completi di atti aggressivi a causa della
vostra disgregazione o di semplice negligenza?
O sarete
coraggiosi e intraprenderete i passi necessari per far ritorno dagli abissi?
Grazie.
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