L’ultima
kermesse sul clima andata in scena alla COP 28 di Dubai (ormai questi incontri
annuali non sono altro che repliche immorali di sagre parrocchiali) ha avuto
nel nucleare il suo momento clou.
Gli
organi di informazione, specialmente quelli italiani, hanno gareggiato
nell’esaltare un accordo sul nucleare che, nei fatti, non fa che confermare lo
stato di salute incerto che questa tecnologia vive da parecchi anni, almeno in
occidente.
L’annunciata
triplicazione delle centrali nucleari da qui al 2050 - se si considerano gli
impianti che nel frattempo andranno dismessi – non influisce sull’apporto
complessivo che il nucleare dovrebbe fornire a quella data che resta intorno al
9-10% del totale della generazione elettrica, sempre che gli impianti oggi in
programmazione vengano tutti realizzati.
Come
scrissi circa due anni fa (https://www.labottegadelbarbieri.org/il-nucleare-che-verra/)
solo Cina e Russia (il VVER 1000 è il reattore più affidabile oggi in
commercio) sono in grado di realizzare un programma nucleare credibile, cosa
affatto scontata per l'insieme dei paesi occidentali che devono affrontare e
risolvere tre questioni principali: tecnologica; economico-finanziaria e
sistemazione dei rifiuti.
L’aspetto
tecnologico consiste nel fatto che in Europa e Stati Uniti i reattori di grossa
taglia (compresi quelli assimilati alla IV generazione) non sono più
appetibili. Ecco perché il tentativo di rilanciare il nucleare in occidente è
stato affidato ai cosiddetti SMR (small modular reactor) che però, a tutt’oggi,
non sono affatto commerciabili oltre a non costituire una novità assoluta (vedi
https://www.pressenza.com/it/2022/09/come-orientarsi-di-fronte-alla-ennesima-campagna-in-favore-del-nucleare/).
Gli
aspetti economici-finanziari sono gravati sia dall’aumento generalizzato delle materie
prime (basti pensare che il solo costo dell’uranio naturale ,cioè senza
arricchimento, è aumentato del 65% dall’inizio di quest’anno), sia dagli oneri
finanziari che nel caso del nucleare sono particolarmente gravosi, dato che il
capitale investito non produrrà ricchezza fino a quando la centrale nucleare
non sarà operativa: il che vuol dire almeno 10 anni. Ciò significa che senza
cospicue sovvenzioni in denaro pubblico, il nucleare non sarà concorrenziale.
Per
quanto riguarda i rifiuti radioattivi infine, non c’è alcuna soluzione
percorribile ed accettabile a portata di mano ed anche per questo aspetto i
vantaggi attribuiti agli SMR non sono affatto credibili in quanto la produzione
complessiva dei rifiuti a fine vita non diminuisce affatto. Non è rispetto alla
taglia del reattore infatti che va calcolata la quantità dei rifiuti prodotta,
ma alla sua produzione di energia, cioè quantità di rifiuti per ogni Mwh
prodotto. Un impianto da 300 Mw produce grosso modo un terzo dell’energia che
produce un impianto da 1000 Mw per cui volendo ottenere la stessa quantità di
energia elettrica occorrerebbe costruire tre impianti, ognuno dei quali
produrrà un quantitativo di rifiuti che, sommato agli altri due, da un valore
superiore a quello corrispondente all’impianto da 1000 MW. Banalmente è come
paragonare i consumi ed i rifiuti prodotti da un pullman che trasporta 60
persone per un arco di tempo stabilito, con quelli di 15 automobili
(immaginando che ognuna trasporti 4 persone).
Indubbiamente
ha fatto effetto che il documento sulla triplicazione del nucleare al 2050 sia
stato firmato da 22 paesi tra cui -oltre ai soliti noti USA, Giappone, Francia
e Inghilterra – figurano quasi tutti i paesi dell’est e del nord Europa; ma a
ben vedere (con l’esclusione dell’Ungheria che ha una posizione anomala nei
confronti della Russia) tutti gli altri sono paesi di recente adesione alla
Nato, in ciò ampiamente sollecitati dagli USA, con i quali oggi proprio le
major statunitensi del settore nucleare, Westinghouse e General Electric (non
EDF o Siemens), hanno fatto accordi per la costruzione di centrali nucleari, a
dimostrazione che il tentativo di rilanciare il nucleare in Europa non è esente
dalla politica neo- atlantica che ha investito il vecchio continente.
Quanto
all’Italia, che non figura tra i 22 paesi firmatari, valgono due
considerazioni. La prima è l’atteggiamento di Confindustria che per motivi
oggettivi (inadeguatezza del comparto industriale a ripercorrere la via del
nucleare) si è dimostrata poco interessata alla questione e, non a caso, Meloni
si è adeguata a questa posizione. Con l’esclusione di Ansaldo infatti e forse
di Leonardo (Cingolani ne è amministratore delegato) nessuna impresa italiana è
in grado recuperare la perdita di know-how che si è creata con la chiusura del
nucleare italiano. Quanto alla tanto pubblicizzata Newcleo si tratta poco più
di una start-up in cerca di finanziatori. La seconda considerazione riguarda il
deposito nazionale dei rifiuti radioattivi: è difficile per chiunque stia al
governo del nostro paese avviare un nuovo programma nucleare, senza prima aver
chiuso il ciclo precedente, per lo meno con l’individuazione formale del sito
per il deposito nazionale.
Ove
mai ci fosse una possibilità concreta di costruire nuovi reattori nucleari in
Italia, essa non può che venire da una iniziativa estera in accordo con una
società elettrica nazionale, tipo EDF con Edison, sempre che possano contare su
sovvenzioni e/o facilitazioni di carattere pubblico.
Se
questi, sinteticamente, sono i contorni realistici in cui collocare questo
(non) ritorno del nucleare in Europa, resta da capire perché l’annuncio di
Dubai ha suscitato tanto clamore. E qui, a mio avviso, le note si fanno dolenti
perché attengono principalmente alle posizioni della galassia ambientalista.
Se
oggi il nucleare appare come l’ospite tanto atteso, quasi una sorta di
salvatore della crisi climatica, è anche perché buona parte dell’ambientalismo
si è concentrata esclusivamente sull’abbandono dei fossili, interpretando la
transizione energetica (che in origine doveva essere una transizione
ecologica!) come mera sostituzione di fonti di energia senza altre riflessioni
o rivendicazioni che riguardassero l’uso finale o la destinazione d’uso di
queste nuove fonti. E ciò è ancora più grave se si considera che nell’agenda
politica globale c’era già la IV rivoluzione industriale, cioè
informatizzazione e robotizzazione della produzione e del terziario che
abbisognano di quantitativi ancora maggiori di energia elettrica.
In
pratica il nuovo “modello tutto elettrico” prefigurato dal capitale non era
altro che il vecchio modello di sviluppo (basato su produzione e consumo di
merci regolate dalle leggi di mercato con l’aggravio della IV rivoluzione
industriale), a cui la gran parte del mondo ambientalista ha dato la sua
approvazione purché, come unica condizione, si abbandonassero i combustibili
fossili.
Perchè
dunque meravigliarsi se oggi il capitale mette in campo il nucleare, che non è
fossile e non inquina, secondo i canoni della transizione energetica globale e
pure della tassonomia europea?
Se
nessuno mette in discussione il sistema della mobilità su gomma, merci e
passeggeri, (basta che automobili e camion siano elettrici e chi se ne frega
del trasporto collettivo, o di quello su ferrovia); se non si pensa a come
sostituire il ciclo della plastica (che si basa sui fossili), o a come
riconsiderare la produzione in base al valore d’uso delle merci e alla loro
durabilità nel tempo, come ci si può scandalizzare del fatto che il nucleare
sia presentato come la fonte di energia -a basse emissioni – che favorisce
l’uscita dai combustibili fossili e nello stesso tempo assicura quella
continuità di sistema, di modo di produzione complessivo, che nessuno sta
mettendo in discussione?
Lo
slogan fuori da fossile, senza altre specificazioni, ha fatto da viatico al
rilancio del nucleare e i suoi fautori sono talmente accorti che non lo
presentano mai come soluzione alternativa alle fonti rinnovabili, ma come
aspetto complementare e migliorativo della transizione energetica.
Difficile
prevedere come andrà a finire, ma se si persisterà a cercare una soluzione di
tipo tecnologico per un problema di natura politica come quello della
transizione, ci sarà spazio non solo per il nucleare, ma anche per il sequestro
della CO2 e per l’idrogeno blu. Del resto se non si aspira ad altro che non sia
l’abbattimento delle emissioni in atmosfera, quali argomenti restano per
opporsi a tutto ciò?
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