lunedì 4 dicembre 2023

COP 28: l’annunciato (non) ritorno del nucleare - Giorgio Ferrari


L’ultima kermesse sul clima andata in scena alla COP 28 di Dubai (ormai questi incontri annuali non sono altro che repliche immorali di sagre parrocchiali) ha avuto nel nucleare il suo momento clou.

Gli organi di informazione, specialmente quelli italiani, hanno gareggiato nell’esaltare un accordo sul nucleare che, nei fatti, non fa che confermare lo stato di salute incerto che questa tecnologia vive da parecchi anni, almeno in occidente.

L’annunciata triplicazione delle centrali nucleari da qui al 2050 - se si considerano gli impianti che nel frattempo andranno dismessi – non influisce sull’apporto complessivo che il nucleare dovrebbe fornire a quella data che resta intorno al 9-10% del totale della generazione elettrica, sempre che gli impianti oggi in programmazione vengano tutti realizzati.

Come scrissi circa due anni fa (https://www.labottegadelbarbieri.org/il-nucleare-che-verra/) solo Cina e Russia (il VVER 1000 è il reattore più affidabile oggi in commercio) sono in grado di realizzare un programma nucleare credibile, cosa affatto scontata per l'insieme dei paesi occidentali che devono affrontare e risolvere tre questioni principali: tecnologica; economico-finanziaria e sistemazione dei rifiuti.

L’aspetto tecnologico consiste nel fatto che in Europa e Stati Uniti i reattori di grossa taglia (compresi quelli assimilati alla IV generazione) non sono più appetibili. Ecco perché il tentativo di rilanciare il nucleare in occidente è stato affidato ai cosiddetti SMR (small modular reactor) che però, a tutt’oggi, non sono affatto commerciabili oltre a non costituire una novità assoluta (vedi https://www.pressenza.com/it/2022/09/come-orientarsi-di-fronte-alla-ennesima-campagna-in-favore-del-nucleare/).

Gli aspetti economici-finanziari sono gravati sia dall’aumento generalizzato delle materie prime (basti pensare che il solo costo dell’uranio naturale ,cioè senza arricchimento, è aumentato del 65% dall’inizio di quest’anno), sia dagli oneri finanziari che nel caso del nucleare sono particolarmente gravosi, dato che il capitale investito non produrrà ricchezza fino a quando la centrale nucleare non sarà operativa: il che vuol dire almeno 10 anni. Ciò significa che senza cospicue sovvenzioni in denaro pubblico, il nucleare non sarà concorrenziale.

Per quanto riguarda i rifiuti radioattivi infine, non c’è alcuna soluzione percorribile ed accettabile a portata di mano ed anche per questo aspetto i vantaggi attribuiti agli SMR non sono affatto credibili in quanto la produzione complessiva dei rifiuti a fine vita non diminuisce affatto. Non è rispetto alla taglia del reattore infatti che va calcolata la quantità dei rifiuti prodotta, ma alla sua produzione di energia, cioè quantità di rifiuti per ogni Mwh prodotto. Un impianto da 300 Mw produce grosso modo un terzo dell’energia che produce un impianto da 1000 Mw per cui volendo ottenere la stessa quantità di energia elettrica occorrerebbe costruire tre impianti, ognuno dei quali produrrà un quantitativo di rifiuti che, sommato agli altri due, da un valore superiore a quello corrispondente all’impianto da 1000 MW. Banalmente è come paragonare i consumi ed i rifiuti prodotti da un pullman che trasporta 60 persone per un arco di tempo stabilito, con quelli di 15 automobili (immaginando che ognuna trasporti 4 persone).

Indubbiamente ha fatto effetto che il documento sulla triplicazione del nucleare al 2050 sia stato firmato da 22 paesi tra cui -oltre ai soliti noti USA, Giappone, Francia e Inghilterra – figurano quasi tutti i paesi dell’est e del nord Europa; ma a ben vedere (con l’esclusione dell’Ungheria che ha una posizione anomala nei confronti della Russia) tutti gli altri sono paesi di recente adesione alla Nato, in ciò ampiamente sollecitati dagli USA, con i quali oggi proprio le major statunitensi del settore nucleare, Westinghouse e General Electric (non EDF o Siemens), hanno fatto accordi per la costruzione di centrali nucleari, a dimostrazione che il tentativo di rilanciare il nucleare in Europa non è esente dalla politica neo- atlantica che ha investito il vecchio continente.

Quanto all’Italia, che non figura tra i 22 paesi firmatari, valgono due considerazioni. La prima è l’atteggiamento di Confindustria che per motivi oggettivi (inadeguatezza del comparto industriale a ripercorrere la via del nucleare) si è dimostrata poco interessata alla questione e, non a caso, Meloni si è adeguata a questa posizione. Con l’esclusione di Ansaldo infatti e forse di Leonardo (Cingolani ne è amministratore delegato) nessuna impresa italiana è in grado recuperare la perdita di know-how che si è creata con la chiusura del nucleare italiano. Quanto alla tanto pubblicizzata Newcleo si tratta poco più di una start-up in cerca di finanziatori. La seconda considerazione riguarda il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi: è difficile per chiunque stia al governo del nostro paese avviare un nuovo programma nucleare, senza prima aver chiuso il ciclo precedente, per lo meno con l’individuazione formale del sito per il deposito nazionale.

Ove mai ci fosse una possibilità concreta di costruire nuovi reattori nucleari in Italia, essa non può che venire da una iniziativa estera in accordo con una società elettrica nazionale, tipo EDF con Edison, sempre che possano contare su sovvenzioni e/o facilitazioni di carattere pubblico.

Se questi, sinteticamente, sono i contorni realistici in cui collocare questo (non) ritorno del nucleare in Europa, resta da capire perché l’annuncio di Dubai ha suscitato tanto clamore. E qui, a mio avviso, le note si fanno dolenti perché attengono principalmente alle posizioni della galassia ambientalista.

Se oggi il nucleare appare come l’ospite tanto atteso, quasi una sorta di salvatore della crisi climatica, è anche perché buona parte dell’ambientalismo si è concentrata esclusivamente sull’abbandono dei fossili, interpretando la transizione energetica (che in origine doveva essere una transizione ecologica!) come mera sostituzione di fonti di energia senza altre riflessioni o rivendicazioni che riguardassero l’uso finale o la destinazione d’uso di queste nuove fonti. E ciò è ancora più grave se si considera che nell’agenda politica globale c’era già la IV rivoluzione industriale, cioè informatizzazione e robotizzazione della produzione e del terziario che abbisognano di quantitativi ancora maggiori di energia elettrica.

In pratica il nuovo “modello tutto elettrico” prefigurato dal capitale non era altro che il vecchio modello di sviluppo (basato su produzione e consumo di merci regolate dalle leggi di mercato con l’aggravio della IV rivoluzione industriale), a cui la gran parte del mondo ambientalista ha dato la sua approvazione purché, come unica condizione, si abbandonassero i combustibili fossili.

Perchè dunque meravigliarsi se oggi il capitale mette in campo il nucleare, che non è fossile e non inquina, secondo i canoni della transizione energetica globale e pure della tassonomia europea?

Se nessuno mette in discussione il sistema della mobilità su gomma, merci e passeggeri, (basta che automobili e camion siano elettrici e chi se ne frega del trasporto collettivo, o di quello su ferrovia); se non si pensa a come sostituire il ciclo della plastica (che si basa sui fossili), o a come riconsiderare la produzione in base al valore d’uso delle merci e alla loro durabilità nel tempo, come ci si può scandalizzare del fatto che il nucleare sia presentato come la fonte di energia -a basse emissioni – che favorisce l’uscita dai combustibili fossili e nello stesso tempo assicura quella continuità di sistema, di modo di produzione complessivo, che nessuno sta mettendo in discussione?

Lo slogan fuori da fossile, senza altre specificazioni, ha fatto da viatico al rilancio del nucleare e i suoi fautori sono talmente accorti che non lo presentano mai come soluzione alternativa alle fonti rinnovabili, ma come aspetto complementare e migliorativo della transizione energetica.

Difficile prevedere come andrà a finire, ma se si persisterà a cercare una soluzione di tipo tecnologico per un problema di natura politica come quello della transizione, ci sarà spazio non solo per il nucleare, ma anche per il sequestro della CO2 e per l’idrogeno blu. Del resto se non si aspira ad altro che non sia l’abbattimento delle emissioni in atmosfera, quali argomenti restano per opporsi a tutto ciò?

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