venerdì 31 gennaio 2020

Cancellare il memorandum con la Libia


carissima, carissimo,
il governo intende in queste ore rinnovare il Memorandum con la Libia, senza alcuna modifica, nonostante gli impegni presi solo qualche mese fa. In concreto significa che continueremo a finanziare la guardia costiera libica e i veri e propri lager in cui i migranti sono sottoposti ad ogni tipo di tortura.
Come campagna IOACCOLGO siamo convinti che questi accordi non solo non vadano rinnovati ma debbano essere cancellati e si debba lavorare per una evacuazione immediata delle persone trattenute nei campi libici.ISTRUZIONI
Per questo vi chiediamo di prendere posizione: trovate qui sotto un testo da inviare al ministro degli Interni Luciana Lamorgese e a quello degli Esteri Luigi Di Maio.
Vi basterà 
– copiare il testo nella vostra mail
– inserire l’oggetto (Il memorandum con la Libia va cancellato)
– inserire i loro indirizzi:
caposegreteria.ministro@interno.it
dimaio_luigi@camera.it
e quello della nostra segreteria: segreteria@ioaccolgo.it in modo che potremo tenerne traccia
– firmarlo in fondo con il vostro nome e inviarlo.

E’ importante far sentire la nostra voce, solo se saremo in tanti potremo raggiungere il risultato di cambiare la vita di migliaia di persone.
Grazie,
La Segreteria di ioaccolgo
www.ioaccolgo.it

OGGETTO: Il Memorandum con la Libia va cancellato
Egregio ministro,
le scrivo personalmente per esprimere il mio dissenso in merito al rinnovo del memorandum con la Libia, firmato nel 2017 e mai ratificato dal Parlamento. Da quanto si apprende il vostro Governo intende rinnovare quegli accordi senza modifiche.
Il 2 febbraio, quindi, il Memorandum verrà automaticamente rinnovato, nonostante gli impegni a modificarlo assunti da voi circa tre mesi fa. Si continuerà, dunque, a finanziare la guardia costiera libica – per lo più formata da quegli stessi trafficanti che si dice di voler fermare – perché riporti i migranti in fuga nei lager dove sono sottoposti a ogni tipo di tortura e dove si può morire a causa dei bombardamenti.
Sono convinto che l’unica scelta “umana” da compiere subito sarebbe quella di svuotare i lager e trasferire chi vi è trattenuto e non rinnovare gli accordi che hanno causato solo sofferenza e problemi per migliaia di persone. Le chiedo dunque, così come sostenuto dalla campagna IOACCOLGO, di procedere al più presto a evacuare di tutti i migranti trattenuti nei centri libici, all’apertura di corridoi umanitari europei, ristabilire un’operazione efficace di soccorso in mare, ripristinare in Italia e in Europa un sistema di accoglienza che punti ad una integrazione vera nel rispetto dei diritti umani fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita.
NOME E COGNOME



giovedì 30 gennaio 2020

La tribù bianca ha paura



Intervista di Gianluca Carmosino ad Alex Zanotelli


Oltre duecentocinquanta milioni di persone nel mondo, per ragioni diverse, hanno abbandonato il paese di origine, con un aumento del cinquanta per cento dal 2000. Mai nella storia dell’umanità si erano registrati livelli così alti di migrazione. La rotta più seguita e più in crescita per i flussi migratori è quella che va dal Messico agli Stati Uniti, seguita da quella che va dall’India all’Arabia Saudita e, a causa della guerra che il mondo ha dimenticato, da quella dalla Siria alla Turchia. Intorno alla questione migranti si intrecciano temi e storie che trasformano il mondo ogni giorno.
Di processi migratori, di Riace e di movimenti sociali ragiona in questa intervista Alex Zanotelli, missionario comboniano per molti anni in Sudan e Kenya, oggi a Napoli. Lo abbiamo incontrato a Riace dove insieme a Felicetta Parisi, pediatra in pensione, da un paio di anni in agosto trascorre diversi giorni per un campo destinato ai giovani (“Leggere la Bibbia a partire dal Dio dei poveri e del Creato”, un viaggio tra la disobbedienza di Rut, di Giona e del Samaritano…) e per accompagnare la rinascita del borgo dell’accoglienza più noto del mondo.
Il Mediterraneo è diventato un cimitero enorme: l’Europa ha già sulla coscienza oltre 50.000 migranti sepolti in mare. Quanto accade è prima di tutto il frutto di duecento anni di colonialismo e sfruttamento?
Bisogna riflettere bene, per alcuni aspetti sì, per altri no, come dimostrano le crescenti migrazioni provocate dai cambiamenti climatici. Secondo studi delle Nazioni Unite soltanto in Europa si temono a fine secolo cinque gradi in più di temperatura e sette/otto in Africa, tre quarti del continente africano sarà inabitabile, soltanto i rifugiati climatici nel mondo nel 2050 saranno almeno 250 milioni… Dati che fanno paura.
L’analisi coloniale resta fondamentale invece per capire chi siamo noi e la nostra relazione con il Sud del mondo. Il colonialismo ha imposto un pensiero, ha depredato diversi continenti, in Africa ha inventato confini a causa dei quali sono scoppiate numerose guerre. E ha fatto del motto divide et impera una strategia per dominare. Il colonialismo è rimasto anche in molti dei regimi africani nati dopo le dichiarazioni di indipendenza e oggi ha assunto volti nuovi, basti pensare al dominio di alcune grandi imprese cinesi e indiane. Anche per queste ragioni oggi milioni di persone sono in fuga da miseria e da guerre e il rifiuto dei migranti lega l’Europa con gli Stati uniti, ma anche con l’Australia.
Esiste anche una nuova importante lettura del colonialismo secondo la quale oggi è cominciata la crisi della “tribù bianca”. Una “tribù” con cinquecento anni di schiavismo alle spalle che ha imposto ovunque la cultura occidentale, ha diviso il mondo in civili e “barbari”, ha posto una religione sopra le altre. Quella tribù inizia a percepire di essere una minoranza e ha paura di perdere i propri privilegi costruiti grazie a schiavismo, colonialismo e neocolonialismo. Pierre Claverie, vescovo algerino, amato dai musulmani e assassinato per le sue amicizie con i senza potere e per il dialogo interreligioso, ha parlato di “bolla coloniale” (P. Claverie, Un vescovo racconta l’islam, Esd, Bologna, 2007, ndr) per descrivere il modo con cui il colonialismo ha marginalizzato e reso invisibili milioni di persone: oggi molti vivono ancora in quella bolla, invece abbiamo bisogno di umanità plurali, di creare un mondo che include tanti mondi.
In questo contesto, più volte a proposito delle politiche italiane in materia di migrazioni hai parlato di razzismo di stato e di disobbedienza.
Sì, perché si tratta di un lungo cammino xenofobo e razzista cominciato venti anni fa con la legge Turco-Napolitano tramite la quale sono nati i Centri di Identificazione ed Espulsione, seguito dalla Bossi-Fini, dai decreti Maroni e dalla legge Orlando-Minniti, oltre che al criminale accordo del ministro Minniti con la Libia. Questo razzismo di stato è poi sfociato in una guerra contro le ONG presenti nel Mediterraneo per salvare vite umane e nella chiusura dei porti, in barba a leggi nazionali e internazionali. Ma salvare un essere umano resta un dovere che affonda le radici nella natura stessa dell’uomo che è in primo luogo un ospite, “uno straniero residente”, per dirla con il filosofo Jacques Derrida. Un dovere codificato nel diritto internazionale ma anche nella tradizione ebraica, come ricorda il Levitico ”Il forestiero dimorante tra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi: tu lo amerai come te stesso” e cristiana, ”Ero straniero e mi avete accolto” si legge nel Vangelo di Matteo. Oggi di fronte a norme come il decreto sicurezza abbiamo il dovere di disobbedire, promuovere resistenza civile in molte forme differenti anche pagando in prima persona, sull’esempio di Carola Rackete. C’è voluta una donna dai grandi ideali e dai nervi saldi per sconfiggere un governo e il suo razzismo istituzionale. Giuseppe Dossetti avrebbe voluto inserire nella nostra Carta costituzionale il seguente articolo: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Oggi ne avremmo avuto bisogno per salvare quel che resta della nostra democrazia… È fondamentale imbroccare seriamente la strada della disobbedienza civile per tutte quelle leggi che disumanizzano i nostri fratelli e le nostre sorelle e disumanizzano anche noi. La mia generazione, quella nata dalla seconda Guerra Mondiale, rischia di essere tra le generazioni più maledette della storia umana, perché nessuna altra ha talmente violentato il Pianeta Terra e chi migra come lo abbiamo fatto noi…  I nostri nipoti diranno di noi quello che noi oggi diciamo dei nazisti. Per questo abbiamo bisogno di disobbedire, non solo per salvare vite in mare ma anche per fermare quanto sta avvenendo in Libia, dove sono rimasti quasi un milione di rifugiati che secondo il Rapporto del segretario generale dell’Onu sono sottoposti a detenzione arbitraria, torture, stupri, lavori forzati… Quel Rapporto condanna anche la condotta spregiudicata e violenta della Guardia Costiera libica nei salvataggi e intercettazioni in mare. In Libia l’unica cosa da fare resta creare presto corridoi umanitari verso l’Europa.
Cosa rappresenta oggi la storia di accoglienza diffusa di Riace brutalmente aggredita negli ultimi mesi?
La storia della comunità di Riace e del suo sindaco Mimmo Lucano insegnano due cose. La prima: la micro-accoglienza diffusa è possibile contrariamente a quanto ha detto in questi anni la politica istituzionale, altro che ossessioni securitarie. La seconda: quell’accoglienza è in grado di riportare vita nell’Appennino che muore. Il “fare in comune” sperimentato in quel borgo ha aperto strade importanti di economia solidale locale e moltiplicato sentimenti di speranza. Riace è e resterà a lungo un punto nevralgico di resistenza nel nostro paese, perché è prima di tutto un’idea che rifiuta la civiltà della barbarie.
Pochi anni fa c’è stata la stagione del movimento altermondialista, di Genova 2001, di cui oggi sentiamo un forte bisogno non solo per la lucidità delle analisi e delle proposte ma anche per la capacità di far camminare insieme pezzi di società diversa. Come favorire oggi le condizioni per l’emersione di un nuovo movimento?
Nei mesi di Seattle e Genova vivevo a Korogocho, immenso slum di Nairobi, e ho cercato di contribuire a quella stagione di movimenti favorendo la nascita della Rete Lilliput. È stata una stagione straordinaria perché è emerso un movimento di movimenti, molto giovanile e popolare, che sapeva tenere insieme persone provenienti da mondi diversi. Un movimento che faceva paura al potere. Per questo c’è stata la volontà dall’alto, che in Italia ha avuto il volto del vicepresidente del consiglio Gianfranco Fini, di distruggerlo. Genova è stata una cesura storia del diritto. Una delle lezioni di quel movimento, maltrattato da tutti i partiti, tuttavia è giunta fino a noi: il cambiamento sociale non può mai avvenire dall’alto. Oggi sentiamo il bisogno di quel movimento perché il sistema fa di tutto per frantumare i pezzi di società che si muovono in basso, imponendo un individualismo ideologico. Ho l’impressione che anche il web contribuisca a illudere e a creare difficoltà: i frutti delle tecnologie incorporano e producono sistemi di relazioni sociali specifici… Dobbiamo prima di tutto tornare a pensare: i tre discorsi ai movimenti popolari di papa Francesco possono essere un ottimo punto di partenza.
Hai spesso utilizzato gli strumenti del giornalismo per gridare e per smascherare le strategie del potere, provocando l’ira di molti, negli anni Ottanta, ad esempio, di ministri come Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Giovanni Spadolini per il loro sostegno al commercio di armi e a tante guerre. Più recentemente anche Matteo Salvini ti ha dedicato alcuni dei suoi tweet. Com’è cambiato il giornalismo? Di quale comunicazione indipendente abbiamo bisogno?
L’informazione libera fa sempre paura. Quando tocchi alcuni gangli del potere la reazione è inevitabile, come dimostra, solo per fare uno esempio abbastanza recente, la vicenda di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese che anche due settimane prima del suo omicidio aveva denunciato le minacce di morte ricevute, le connessioni tra la malavita organizzata, gli interessi della finanza globale e la corruzione delle istituzioni politiche. Più importante è la consapevolezza che i grandi media restano sempre in mano ai grandi poteri. Eppure raccontare in modo diverso è possibile e consente di fare emergere altri mondi, altri punti di vista, pensiero critico. Insomma, c’è vita oltre l’ideologia e il dominio del denaro. Ma per imparare a guardare il mondo in modo diverso e per imparare a raccontarlo in modo differente bisogna ribaltare anche il modo di fare scuola e, nel caso dei credenti, anche molti luoghi di crescita nella Chiesa: non è un caso se al centro di Lettera a una professoressa c’è la parola, la parola con la quale capire il mondo e con la quale mostrare una coscienza critica. Ripartiamo da quel meraviglioso testo scritto don Milani e dagli alunni della scuola di Barbiana.

Il peso di BlackRock nella riforma di Macron e in Atlantia - Guglielmo Ragozzino


Una doppia mezza pagina di Le Monde diplomatique di gennaio 2020 illustra con un tono un po’ preoccupato, un po’ scanzonato, il caso di un grande gruppo finanziario, forse il più grande esistente al mondo, un agglomerato che controlla seimila miliardi di dollari, dal nome fatidico di BlackRock. (Sylvain Leder, “BlackRock, la finance chevet de retraités Français”).
Per dare un ordine di grandezza, il fatturato delle prime 500 imprese del globo, analizzate da Fortune, è di trentatremila miliardi di dollari e i profitti superano di poco i duemila miliardi. Nella sezione del diplo dedicata alla trasformazione del molto contrastato sistema pensionistico francese, e che attribuisce un non trascurabile peso ai suggerimenti – o alla moral suasion – del grande gruppo mondiale sulla governance transalpina, si indica tra l’altro chi sia il massimo dirigente e fondatore, Mister Fink, si descrivono i suoi artifici, si allude ai rapporti con l’alta finanza francese e la Borsa connessa, si insinua che vi siano vaste entrature nell’ambiente altrimenti protetto dell’Eliseo, dimora proverbiale dei maggiori poteri del Paese fratello. 
Comprensibile che anche per la povera, disastrata, Italia si voglia conoscere l’eventuale interesse della grandissima e superarmata finanza mondiale, nella sua massima rappresentanza “blackrockiana”. Nell’opaco periodo attraversato da Poveritalia, l’arrivo di capitali stranieri è benvenuto. Nessuno chiede il perché e il percome. Il capofila della finanza mondiale ci stima, ci compra, non ha timore di noi, dei nostri numeri, del nostro spread. Cosa volere di più?  Tra l’altro agisce anche in uno degli irrisolti casi italiani, quello delle autostrade. Perché andare per il sottile? Se si facesse qualche controllo, qualche resistenza, avvertono i competenti, l’acquisto azionario sarebbe dirottato altrove e l’italico spread crescerebbe a dismisura.
Il gruppo sullodato figura, in Atlantia, con un 5% variabile come secondo azionista a fianco del clan Benetton, titolare del 30%. Il gruppo Benetton si può descrivere, immaginosamente, come un palazzo con molti piani. BlackRock con Atlantia, sta a un piano di prestigio, mentre un piano sotto, quello della società operativa Autostrade c’è un altro socio-inquilino importante, l’assicuratore tedesco Allianz. Questi sta elevando vibrate proteste contro la legge italiana delle mille proroghe che danneggia il valore azionario del suo investimento in Autostrade. Non si tratta qui di una discussione sul funzionamento più o meno regolamentato dell’ascensore condominiale, come sono indotti a far credere quelli di Allianz. Essi ritengono che le persone normali debbano portare massima venerazione agli emblemi della finanza, tanto generale che locale, come avrebbe dovuto fare Guglielmo Tell davanti al cappello dell’imperatore.
Il mondo non va così, non va ancora così. BlackRock ha la presenza azionaria di altri 5% variabili in svariate grandi imprese italiane. Tra queste, Banca Intesa, Unicredit, Prysmian, Moncler, Enel;  e poi ancora Azimut (6,5%) e Fineco (8,8%). Non siamo affatto sicuri che non vi sia dell’altro, ignoto anche alla Consob cui abbiamo affidato il controllo sulle società e la Borsa.
Solo Mediobanca, ai buoni vecchi tempi, aveva simili cifre d’investimento, ma il governo, i partiti, la Chiesa, la Fiat, le grandi imprese italiane, le partecipazioni statali, le grandi famiglie, quei Capitani Coraggiosi che uno dopo l’altro si presenteranno sul palcoscenico, tutti insieme, insomma, gli iscritti al club dei Pezzi Grossi (allora si parlava anche, borghesemente, di salotto buono) pensavano che Mediobanca fosse uno snodo del potere nazionale, della sua sistemazione autorevole e accurata, del buon patto generale, non scritto nero su bianco ma accettato da tutti. (Anche se poi, molto dopo, arrivati a metà gli anni ‘80, si seppe che il patto pubblico-privato c’era, ma ben pochi ne erano a conoscenza). Per questo ognuno dei potenti, di nascosto agli altri, cercava di contare di più in Via Filodrammatici il nome giornalistico, per competenti, della Banca d’affari e quindi teneva celati i propri contatti, convinto di essere molto avvantaggiato da quell’eventuale rapporto coperto. 
Forse è prematuro ritenere che BlackRock abbia preso il posto tenuto per molti decenni da Enrico Cuccia, fatidico capo di Mediobanca e dai suoi, ma è certo che i consigli di Mediobanca, per pessimi che fossero, non erano quelli di spremere le imprese partecipate per fare soprattutto soldi. Il disegno era più ampio (e complicato) e i poteri prima elencati pensavano – ciascuno per conto suo – di esserne al corrente. 
BlackRock non è certo l’unica causa del modello ‘valoriale’ cresciuto da qualche anno nel Sistema Italia e divenuto ormai prevalente. Certo che la sua forza di persuasione è molto efficace. Il dividendo, prima di tutto è alto, che faccia invidia a coloro che non capiscono e vorrebbero investire in macchinari e crescere e assumere. Per fare dividendi, però, occorrono profitti, e quindi rilevanti tagli nelle altre voci di bilancio. Atlantia – e non solo essa – può andare avanti benissimo riducendo al minimo le manutenzioni, una spesa inutile che, come si sa bene, è fatta contro ogni prospettiva di valore sensata, non dà profitto e riduce a fine anno il dividendo. La connessione  sfruttamento-licenziamenti è un po’ più complessa, ma si possono ben sfruttare i lavoratori che agiscono fuori e a bassa paga e incassare dividendi dentro altrove.
Le ultime dichiarazioni di Mister Fink, riportate anche sulle Alpi svizzere di Davos e diffuse da un autorevole organo del gruppo finanziario mediatico Gedi, la Repubblica, lasciano pensare a un giro di walzer di BlackRock nel settore ambientale.
In primo luogo, la promessa – o la minaccia – di evitare nel futuro le iniziative finanziarie caratterizzate da eccessivi impegni fossili. Questo primo luogo rallegra molto gli industriali travestiti in verde, o grigio verde, verrebbe da dire, come gli antichi fanti italiani. Il secondo punto è assai più serio: la compagnia finanziaria americana informa che voterà contro gli amministratori delegati e i presidenti delle imprese che non terranno conto dei loro desiderata, ambientali e non, naturalmente. Amministratori delegati e presidenti, è ovvio, non possono permettersi di essere contraddetti dalla finanza mondiale. 
C’è poi il caso francese, indicato dall’articolo del diplo dal quale siamo partiti. BlackRock intende partecipare, da dietro le quinte, per ora, alle contese politiche e sociali nei Paesi nei quali investe e dirige gli investimenti dei suoi clienti, risparmiatori, piccoli e grandi che siano, provenienti da ogni parte del mondo, ma sempre ben abbienti che sono,  sempre o quasi sempre avidi di guadagni. Peggio dei francesi, noi italiani? Meno aperti alla finanza mondiale?
Per il futuro, si vedrà.

(Fonte: Sbilanciamoci)


mercoledì 29 gennaio 2020

Amazon distrugge


Il Premio Mani Tese per il Giornalismo Investigativo e Sociale, lanciato nel 2019 e promosso da Mani Tese con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), aveva come obiettivo quello di portare alla luce storie e inchieste relative all’impatto dell’attività d’impresa sui diritti e sull’ambiente.
A vincerlo era stato il team composto da Roberto Pisano, Elisabetta Muratori e Rosario Daniele Guzzo con il progetto d’inchiesta “Amazon: indagine su uno smaltimento al di sopra di ogni sospetto”, che si proponeva di identificare i meccanismi di smaltimento della merce invenduta da parte di Amazon, uno degli attori protagonisti dell’e-commerce a livello globale.

I tre autori erano stati scelti durante la cerimonia di premiazione, tenutasi il 2 maggio 2019 presso la Fondazione Feltrinelli, fra una rosa di sei finalisti da una giuria composta dai giornalisti Gad Lerner, Tiziana Ferrario, Gianluigi Nuzzi, Francesco Loiacono e dal Direttore Comunicazione di AICS Emilio Ciarlo.
Alla selezione dei finalisti del premio avevano contribuito, inoltre, le giornaliste Eva Giovannini e Stefania Prandi e il direttore di Fanpage.it Francesco Piccinini.

AMAZON, UNO SMALTIMENTO
AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO
Dalla distruzione di massa dei beni invenduti a una nuova economia circolare.

di ROSARIO DANIELE GUZZO, ELISABETTA MURATORI, ROBERTO PISANO

1. LIBERI DI DISTRUGGERE
La sequenza di camion disposti sul retro del magazzino si allunga a perdita d’occhio. I gaylord, enormi contenitori riempiti da migliaia di oggetti, sono pronti per essere stivati sugli autotreni in attesa. Sulle scatole la destinazione: destroy.
Secondo le testimonianze raccolte, in Italia il gigante del commercio on-line Amazon distrugge mensilmente fino a 100 mila prodotti nuovi nei poli logistici del territorio. Si tratta di resi danneggiati e beni invenduti: solo una minima parte di questi trova una seconda vita sugli scaffali o diventa un dono. Per il resto delle merci, il capolinea è la pressa di un’azienda incaricata da Amazon allo smaltimento dei beni che non trovano più spazio nelle corsie dei suoi immensi magazzini.
I prodotti condannati alla distruzione hanno gestazione lunga ma vita breve: dalle materie prime per costruirli estratte nell’altro emisfero all’assemblaggio, che avviene spesso molto lontano, fino ai mezzi di trasporto più vari, per arrivare su gomma, rotaia o via mare nei magazzini italiani. E infine, invenduti, ancora avvolti nei loro involucri di plastica, dritti verso il macero.
È nelle pieghe di un regolamento forgiato dalla rapida conquista dei mercati esteri che si gioca la partita della responsabilità. Il prodotto che ordiniamo può avere tre diverse tipologie di provenienza: può essere di proprietà di Amazon oppure di un venditore che si serve solamente di questa vetrina digitale (oggi il 58% delle unità vendute sulla piattaforma). O ancora, la merce di un fornitore esterno che acquista solo i servizi di logistica.

Nell’ultimo caso a decidere delle sorti di resi e prodotti alla fine della scadenza non sarebbe infatti la multinazionale di Seattle, e neanche la sua controllata con sede in Lussemburgo, il piccolo paradiso che accoglie i giganti che vogliono stare con un piede nell’Unione Europea. A disporre la distruzione degli oggetti oltre la giacenza concordata è il fornitore stessopadrone di fare ciò che desidera con la sua merce in virtù di una normativa sulla distruzione volontaria che si sviluppa alla fine degli anni novanta. A eseguire l’eliminazione è invece una piccola azienda dell’indotto locale alla quale viene appaltato lo smaltimento.
Per qualche centesimo in meno. Secondo il tariffario in vigore tra il 2017 e il 2018 le tariffe dello smaltimento rendevano immensamente più conveniente distruggere invece che restituire25 centesimi per unità il costo del reso al fornitore per un articolo di dimensioni standard (fino a 12 chili e dimensioni di 45x34x26cm) contro i 10 centesimi dello smaltimento…

 

Censura e autocensura in Cina - Andrea Berrini


Ho vissuto due anni e mezzo a Pechino. Ed ero affascinato, sì, dalle trasformazioni, dalla città che si espandeva all’esterno come una macchia d’olio costruendo quartieri moderni e fabbriche e dormitori per milioni di giovani immigrati dalle campagne, diventando loro operai da contadini poveri che erano, e tanti altri ceto medio in corsa verso nuove vite così simili alle nostre, oltre il terzo mondo e la subalternità all’occidente che durava da secoli. Il mondo multipolare, le nuove società, le grandi metropoli d’Oriente mi facevano gola, avevo voglia di vedere e di capire, di esserci. Ma da scrittore e editore che incontrava scrittori e editori in Cina non ho potuto fare a meno di incocciare la censura, la repressione furente delle idee, le lamentele di alcuni, la malinconia di chi lasciava le pagine scritte nel cassetto o era obbligato a cercare una pubblicazione all’estero, la frustrazione nel dover ammettere che sì, certi pensieri e sensazioni erano ormai espunti dalle proprie pagine. Nel 2014, quando arrivò la notizia della prima rivoluzione degli ombrelli a Hong Kong, i partecipanti a una riunione di artisti a Pechino autoconvocatisi per discuterne, erano stati arrestati a grappoli e non si sapeva più niente di loro, e a qualche giornalista occidentale era stato chiesto di lasciare il paese, ma i loro assistenti cinesi pure erano spariti. Qualche ricercatore mi raccontava i problemi del lavoro in fabbrica, le mille e mille rivolte ambientali e operaie nel paese che si concludevano così spesso con arresti e deportazioni. Insomma sì, tutto molto bello a Pechino e fascinoso, in movimento, ma sotto a una cappa opprimente di negazione della libertà di pensiero e azione.



A distanza di anni il fascino resta, e soprattutto può essere condiviso: c’è finalmente un’onda montante di attenzione per il gigante cinese destinato a divenire il gigante assoluto. Sono lontani gli anni in cui i corrispondenti a Pechino lamentavano la difficoltà di far passare in redazione una notizia, un racconto. Dovevano inventarsi ogni volta la stranezza, la curiosità, lo spunto. Oggi la Cina ci viene finalmente sbattuta in faccia già dai notiziari del mattino, se non altro perché il braccio di ferro è iniziato – Trump, i dazi – e quindi c’è n’è da parlare di risulta, e poi c’è questo fantasma, la Via della Seta, i Memorandum of Understanding che il nostro governo firma o non firma, e la stampa ricorda quanto la Cina stia penetrando il nostro sistema di infrastrutture, il porto di Savona, forse quello di Trieste, la Pirelli, fino a tutto il dibattito sul 5G gestito, chissà, da aziende cinesi. Insomma, la Cina è sulle pagine dei nostri giornali. Ebbene, come conciliare l’entusiasmo di tutti noi che di Cina ci occupiamo in vario modo, con la necessità imprescindibile di criticare il regime, di prendere distanze dalla repressione feroce della minoranza musulmana in Xinjiang e del movimento democratico a Hong Kong, dal modello oligarchico di dominazione della società, di sfruttamento micidiale della manodopera salariata?

Questo interrogativo mi si pone anche a livello spicciolo. Ricordo una cena con amici, nella quale magnificavo l’apertura al futuro della Cina, e mi dicevo felice di frequentare un paese nel quale le tematiche sociali erano a fior di pelle, lo sviluppo, l’emigrazione interna, la costituzione di una classe media, e quindi lo shock degli individui per trasformazioni che li portano nello spazio di trent’anni dal villaggio povero in campagna alla metropoli avveniristica. Paragonavo la ricchezza del discutere di Cina in Cina con l’irrealtà di ogni discussione sull’Italia in Italia, i temi farlocchi imposti al dibattito da piccole convenienze politiche, l’incapacità di prendere atto delle difficoltà del vivere e farne oggetto di riflessione, le occasioni per sfoghi verbali senza nessuna capacità né voglia di approfondire le questioni, di ragionarne in modo piano. E mi capitò di dire che sì, in Cina poi c’era la censura e questo era straordinario perché ogni scrittore doveva misurarsi con essa, fatto concretissimo che svelava le attitudini di ciascuno, la sua stoffa. Mi brillavano gli occhi, e stavo parlando di censura: venni ripreso da un amico, giustamente.



Altrove accadde il contrario: quando discutevo con sinologi, persone che con la Cina lavorano. C’è una rivista che porta in Italia, in lingua italiana, racconti di autori contemporanei cinesi, ma è la traduzione in forma antologica di una rivista cinese, pubblicata come è naturale da un organo dello stato cinese e quindi composta secondo criteri di censura: insomma, ci si trova a valle di scelte repressive della libertà di pensiero. Quando feci notare la cosa alle due stimatissime amiche che la curano, l’inevitabile risposta fu: ma come, sono anni che ci battiamo perché si parli di Cina in Italia, e ora tu critichi questa occasione. 
Beninteso, non si pensi che la censura sugli scrittori in Cina comporti l’ostracismo assoluto o il gulag per legioni di autori. Anzi, negli ultimi anni perfino a voci scomode e critiche è stato consentito di venire a galla, anche sulle pagine della rivista in questione, sempre però con testi dai quali fosse espunta ogni critica. A me vengono in mente i metodi che utilizzava il fascismo in Italia: era ovvio che molti fossero critici nei confronti del regime, e non finivano certo tutti in galera. Ma ad esempio quando si impose ai docenti universitari l’obbligo di prendere la tessera del Partito Fascista, solo una manciata di questi rifiutò, e perse il posto. In Cina la repressione delle idee prende analogamente la forma di un’autocensura previa di ciascuno sul proprio operare, e di un’autocensura delle case editrici, in questo caso delle riviste. Una repressione subdola, perché difficile da identificare con chiarezza, non c’è mai una linea definita.

Si tratta di fare spallucce, e dimenticare certi temi, e certi toni, e magari di abbandonare al loro destino di paria i colleghi meno fortunati, per non parlare di quelli che passano la vita agli arresti domiciliari.
Anche in Italia, di fronte agli interrogativi etici sul proprio operare e cooperare con una dittatura, si finisce con il fare spallucce. Insomma proprio noi, che dell’emergenza di una nuova Cina e di una nuova Asia abbiamo fatto oggetto di discussione, noi che indichiamo all’italietta nostrana spazi inesplorati, suggestioni, declinazioni differenti di temi consueti, noi che affermiamo stentorei: guardate gente, guardate laggiù perché da quei paesi non più lontani abbiamo molto da imparare per la loro vivacità, perché molto si muovono e si agitano, perché svolgono a modo loro il compito sul quale noi ci siamo arenati, insomma proprio noi rischiamo di chiudere gli occhi davanti allo scempio dei diritti umani e sociali.

È partito nei mesi scorsi un accenno di dibattito, tra gli operatori culturali legati alla Cina. Qualche voce coraggiosa (in Italia non si rischia certo la galera, ma il posto di lavoro si) ha provato a mettere sul piatto bocconi succulenti che molto poco sono stati raccolti. L’occasione era, certo, la rivolta di Hong Kong: lì si vive ora una pausa di riflessione, e qui allora il dibattito si è spento, peccato. Ma la responsabilità degli operatori culturali è immensa, in questioni siffatte: proprio noi dovremmo essere capaci di stare all’avanguardia. E considerando le fatiche degli editori, degli autori, degli operatori culturali in Cina, in qualche modo avremmo il dovere di essere all’altezza. 
La trappola autoritaria è quella di sempre: beh, in fondo non sono io l’unico a comportarmi in un certo modo, lo fanno tutti. E sì, certo, io critico, ma non c’è bisogno che alzi poi troppo la voce. Inutile farmi notare, no?

martedì 28 gennaio 2020

Non c'è posto per me all'evento di imbiancatura di Yad Vashem - Eitay Mack




Questo Giovedì  si terrà un evento a Yad Vashem in occasione del 75 ° anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. L'elenco degli invitati che hanno confermato il loro arrivo - capi di stato e rappresentanti senior della maggior parte dei paesi europei, del Canada, dell'Australia e degli Stati Uniti e persino rappresentanti delle famiglie reali europee - costituisce  la realizzazione del sogno razzista di Viktor Orban e Jair Bolsonaro di un mondo bianco realizzato sull'identità giudeo-cristiana. Con l'eccezione del presidente dell'Argentina, non vi sono partecipanti dall'America Latina, dall'Africa o dall'Asia orientale e non è un caso.

Dopo la seconda guerra mondiale, come "lezione" dell'Olocausto, la comunità internazionale ha concordato una serie di convenzioni volte a sancire il riconoscimento e la protezione dei diritti umani e civili di base, prevenire il genocidio e la discriminazione e proteggere i rifugiati. Queste convenzioni non erano perfette, ma davano speranza che il voto di "mai più" non sarebbe stato vano.

Nella realtà ciò  non è del tutto accaduto fin dall'inizio. Per quanto riguarda lo Stato di Israele e molti paesi occidentali, i cui rappresentanti parteciperanno all'evento a Yad Vashem, i civili nel Sud del mondo non sono stati pienamente ammessi a beneficiare delle nuove convenzioni e protezioni dei diritti umani e civili stabiliti  come lezione dall'Olocausto. Per decenni ,  dopo la liberazione di Auschwitz, la maggior parte di questi paesi non solo è rimasta in silenzio di fronte a una lunga serie di massacri, stupri, sparizioni e torture di massa, ma ha attivamente partecipato a questi crimini. Alcuni paesi occidentali hanno continuato ad amministrare regimi coloniali e neo-coloniali., privilegiando gli interessi economici durante la guerra fredda e la lotta al comunismo ,

Con il consenso degli Stati Uniti  Israele divenne presto un importante fornitore di armi per una serie di regimi omicidi  nel Centro e Sud America, in Africa e nel Sud-Est asiatico. Ad esempio, l'importante sostegno di Israele alla preparazione della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, entrato in vigore nel 1951, è stato sostituito con il sostegno al regime militare del Guatemala . Il  genocidio perpetrato contro le comunità indigene è stato attuato con armi israeliane . Il suo sostegno alla Convenzione per eliminare tutte le forme di discriminazione razziale   è stato sostituito con  un massiccio sostegno militare al regime di apartheid in Sudafrica.

In contrasto con il Museo dell'Olocausto a Washington che nel corso degli anni ha sviluppato un'interpretazione universalista delle lezioni dell'Olocausto, denunciando l'annientamento e i crimini contro l'umanità  e istituendo  persino  un Istituto per la prevenzione del genocidio, Yad Vashem (con alcune notevoli eccezioni tra i suoi ricercatori) ha evitato qualsiasi discorso che non riguardasse il mondo  ebraico. Yad Vashem è stato per decenni un posto di sosta obbligatorio per dittatori, assassini, razzisti e fascisti, che vengono in Israele per concludere accordi sulle armi , ottenere legittimità e un marchio di approvazione da un alleato degli Stati Uniti. Pertanto non esiste un posto migliore per imbiancare collettivamente tutti i crimini di quei paesi contro una parte sostanziale della popolazione mondiale .

All'evento di giovedì,non ci sarà alcuna discussione sulle lezioni che possono essere apprese da Auschwitz e sulla svolta degli eventi negli anni '30,. Certamente non si parlerà della xenofobia e dell'islamofobia nei paesi occidentali, della  crisi globale dei rifugiati, delle  guerre in corso nel Sud Sudan e in Siria, dei  Rohingya che sono intrappolati nei campi profughi del Bangladesh, della paura del genocidio in Burundi e degli oppositori dei regimi in Camerun e in  Honduras. Né si parlerà della difficile situazione del popolo palestinese nei territori occupati, della responsabilità della Francia per il genocidio in Ruanda, della responsabilità della Gran Bretagna per la disastrosa spartizione dell'India e della tortura dei combattenti della resistenza nei campi di detenzione in Kenya, della responsabilità americana nel massacro di comunisti e di oppositori di sinistra in Indonesia o del genocidio commesso contro le popolazioni indigene del Canada, degli Stati Uniti e dell'Australia. Presumibilmente il presidente dell'Armenia non oserà avviare una discussione sull'incapacità di Israele di riconoscere il genocidio armeno e il presidente della Bosnia non oserà discutere dell'assistenza militare israeliana ai serbi e ai serbi bosniaci locali durante la guerra civile e il genocidio lì   avvenuto .
La mia famiglia è composta da sopravvissuti e  da vittime del campo di concentramento di Auschwitz, conseguentemente  non c'è posto per me a questo evento.

La pace torna in piazza in Italia e nel mondo. Ma noi facciamo le guerre degli altri - Alberto Negri


I partiti che si avvicendano nei nostri governi non hanno da tempo una politica estera se non l’ancoraggio all’atlantismo, ormai da tempo comatoso. Non difendono né gli interessi nazionali né la pace. Però facciamo le guerre degli altri.
Oggi tornerà in piazza in Italia e nel mondo, la pace, quella «potenza mondiale» che in milioni si mobilitò contro la guerra di Bush all’Iraq nel 2003 e che venne sconfitta. Nella protesta italiana sarà forte il ruolo della Cgil, dell’Arci, della Fiom, dell’Anpi e non solo, tanto che quel che ci ostiniamo a chiamare sinistra dovrebbe esserne scossa. Ma la guerra e la mancanza di pace, nonostante siano così decisive – basta pensare alla tragedia dei migranti -, vengono omesse se non nascoste dalla politica.
È tempo di interrogarsi su perché non è ben identificato in Italia un interesse per la pace né per una politica estera? La questione è abbastanza semplice: i partiti che si avvicendano nei nostri governi non hanno una politica estera se non l’ancoraggio all’atlantismo, ormai da tempo comatoso, oppure quello a un’Unione europea, che non ha una politica estera comune, e dove gli stati membri maggiori, pur architettando operazioni cosmetiche come la missione Sophia per la Libia, vanno in ordine sparso. Ma chi l’ha vista una vera tregua in Libia?
Persino davanti all’emergenza delle ondate terroristiche degli ultimi anni l’Europa ha fatto fatica a collaborare. E per un semplice motivo: gli europei stessi hanno tollerato se non appoggiato il jihadismo quando c’era da abbattere il regime di Assad in Siria insieme alla Turchia, agli Usa e alle monarchie del Golfo. Quando il jihadismo è stato “tradito” – ovvero gli Usa e gli europei hanno deciso di non bombardare Assad – il terrorismo si è rivoltato contro gli stati europei.
I RAID CONTRO GHEDDAFI nel 2011 sono stati lo spartiacque che ha condannato l’Italia all’irrilevanza. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti bombardando Gheddafi sapevano perfettamente di bombardare anche l’Italia e noi non solo abbiamo subito, concedendo l’uso delle basi, ma ci siamo uniti ai raid della Nato con l‘idea di difendere i nostri interessi economici e quelli energetici dell’Eni. Il risultato di quella mossa lo abbiamo sotto gli occhi: a Tripoli ci sono i turchi e in Cirenaica i russi mentre i nostri presunti alleati non sappiamo neppure bene con chi stiano. Cosa fanno la Francia e gli Usa con Haftar? Lo appoggiano e lo combattono? Lo appoggiano ma fanno finta di sostenere un governo Sarraj che pur riconosciuto dalla comunità internazionale nessuno vuole perché legato ai Fratelli Musulmani e contrario agli interessi di maggiori acquirenti di armi occidentali.
IL CASO DELLA SIRIA è più o meno simile. L’Italia ha seguito quello che le dicevano di fare gli Stati uniti della signora Clinton e si sono ritrovati regolarmente spiazzati con Assad, sostenuto dalla Russia e dall’Iran, che è ancora al potere. Alla vigilia della rivolta siriana l’Italia, superando la storica preminenza della Francia, era diventato il primo partner europeo di Damasco, dove pochi mesi prima era stato in visita il presidente della repubblica.
Non abbiamo mai avuto il coraggio di una mossa autonoma o per lo meno di tiraci fuori con la scusa delle neutralità. E ora a febbraio andremo in delegazione a Mosca per incontrare Lavrov e lo stesso il ministro della Difesa russo che soltanto due mesi fa avevamo rifiutato di ricevere a Roma dicendo che «non eravamo interessati».
Votare per un governo italiano o un altro sarebbe praticamente inutile sotto il profilo della politica estera: non ne abbiamo una autonoma. E se vince la Lega le cose potrebbero andare anche peggio che in passato. La Lega non è un partito italiano o padano ma vuole svendere l’Italia alla destra al governo in Israele – strumentalmente, perché come per ogni destra estrema questo legame serve per coprire il suo strutturale razzismo – portandoci fuori da un solco di politica estera che cercava almeno nell’equidistanza tra arabi e israeliani di mantenere una rotta di galleggiamento. La Lega tra l’altro si è opposta anche alla firma di accordi per aggirare le sanzioni Usa all’Iran. Per la verità gli sbandamenti, e grossi, ci sono stati anche prima. Il governo Gentiloni aveva stretto un’intesa per una linea di credito con l’Iran e poi ha di fatto bloccato il decreto attuativo su pressione Usa e israeliana dimostrando tutta la sua insipienza.
L’ITALIA NON HA NEPPURE partecipato al sistema Instex per aggirare le sanzioni Usa dove ci sono sei Paesi europei. Pur di non irritare il “capo” – Usa e Israele – abbiamo paura della nostra ombra.
E ancora prima, e soltanto per un soffio, si è evitato che il governo Renzi appaltasse la nostra cyber-security a una società registrata in Israele di un tipo che oggi è console onorario di quel Paese. Ma questi da noi sono argomenti tabù, come ormai tabù persino parlare dei palestinesi e dei loro diritti anche dentro le aule delle università che si stanno vendendo le cattedre alle monarchie del Golfo. Esattamente in linea con quanto hanno già fatto abbondantemente le accademie inglesi, cosa denunciata a Londra soltanto dal compianto professor Fred Halliday, decano del Medio Oriente.
Il risultato di questa pochezza e mancanza di autonomia è che oggi non abbiamo nessuna leva per negoziare con l’Egitto sulla verità per l’uccisione di Giulio Regeni o con la Turchia per la questione del gas a Cipro. Nei rapporti con Ankara pensiamo che prima o poi gli Usa interverranno a difenderci ma finora Trump ha assecondato Erdogan lasciandogli massacrare i curdi siriani, tollerando gli acquisti di armi russe, il suo espansionismo neo-ottomano in Libia e proclamandosi, durante la sua visita a Washington, il «suo maggiore tifoso». E lo stesso Trump è pure «tifoso» dell’Italia: vuole le nostre truppe in Iraq per sostituire le sue e avere mano più libera contro l’Iran e le milizie sciite. Più o meno direttamente parteciperemo così alla nuova tecno-guerra Usa contro Teheran nella speranza, sempre delusa, di avere qualche cosa in cambio. Altro che pace.