Un
giorno di molti anni fa, diciamo del novembre del 1989, sentii dire da un mio
collega, con riferimento al Muro di Berlino andato in pezzi: <se qualcuno
pensasse che avendo il Comunismo perso abbia vinto il Capitalismo,
sbaglierebbe>.
Attribuii
quella frase all’ottimismo della volontà, al non volersi dare per
vinti. In qualche modo mi rianimò, perché con l’incubo di un regime
totalitario andava scomparendo anche il sogno, che aveva
animato milioni di esseri umani, di un mondo in cui libertà e giustizia sociale
non fossero in alternativa e dove uomini e donne fossero eguali e libere/i.
Pensavamo,
il mio collega ed io, che quel sogno non dovesse scomparire per sempre, ma solo
l’incubo e magari non solo quello.
Gli
anni successivi sembrarono smentire la previsione del mio collega. Con il
Toyotismo e la Globalizzazione il Capitalismo era sulla cresta di tutte le
onde; si profetizzava la riduzione delle povertà e l’espansione in tutto il
mondo del benessere. Crescita e Sviluppo divennero parole mitiche che
suscitavano entusiasmo e speranze. Anche gran parte della sinistra fu
abbacinata da questi miti e pensando impossibile qualsiasi alternativa fidò
nella “globalizzazione dei diritti”. La parte della sinistra che non cadde in
quella trappola cadde in un’altra, lasciandosi ingannare dall’ illusione di
“poter lanciare sabbia negli ingranaggi” della Globalizzazione. Fu così che la
sinistra, tutta intera, pose le basi della propria scomparsa e quando il nuovo
modo di produrre scompaginò gli assetti sociali trasformando le vecchie figure
sociali e producendone di nuove, si smarrì. I deboli, i perdenti, gli esclusi
non trovarono più in essa rappresentanza politica.
La
Globalizzazione avanzava impetuosa in groppa ad una sfrenata competizione senza
però che alla Crescita si accompagnava in pari misura la occupazione
ed il benessere. Aumentava il PIL (altro mito imperante) ma anche la povertà ed
andava emergendo qualcosa di inedito: non si era poveri solo non avendo lavoro
ma lo si era pur avendo un’occupazione. I diritti, poi, non si andarono
estendo a chi non ne aveva, ma venivano ridotti a chi li aveva.
Che ciò
potesse accadere solo pochi, anzi pochissimi, lo avevano previsto anche ricordando
la lezione del Club di Roma sui limiti dello sviluppo. Ma non furono creduti e
quando Latouche spiegò che un’altra economia sarebbe stata possibile e –
malauguratamente la chiamò decrescita – fu sbeffeggiato.
Quando
gli effetti negativi della Globalizzazione non potettero essere più
ignorati, in quello che era rimasto della sinistra, ci fu chi parlò
di crisi del Capitalismo. Ma un certo Warren Buffett, che nella graduatoria
delle persone più ricche al mondo occupava la terza posizione, lo smentì clamorosamente
affermando che negli ultimi vent’anni si era combattuta una grande lotta di
classe e che l’aveva vinta la sua parte. Era il 2011.
Qualche
anno dopo i media annunciarono che l’uno per mille della popolazione del
mondo possedeva tanta ricchezza quanta ne possedeva il restante
novecentonovantanove per mille. Come crisi dunque non era tanto male. La
previsione fatta dal mio collega nel 1989 era dunque smentita: il Capitalismo
aveva vinto.
E’
vero: aveva, ha vinto; ma non dura. Lo sostiene Giorgio Ruffolo,
economista, in un libro del 2009 intitolato “Il Capitalismo ha i secoli
contati”, in cui spiegava che se è vero che, malgrado ne sia stata
preconizzata più volte la fine, il Capitalismo appariva ben
vivo e vegeto, non per questo lo si poteva ritenere eterno.
Condivido
l’assunto del libro, ma non il titolo. Non pare si tratti di secoli ma di
decenni.
Due
motivi sostengono questa previsione.
La
concomitanza in diverse parti del mondo di lotte sociali che assumono l’aspetto
e la sostanza di ribellioni denuncia che il peso delle diseguaglianze e della
povertà sta divenendo insostenibile e gli assetti sociali sono vicini al punto
di rottura. Masse di diseredati cercano sopravvivenza in paesi lontani dai
propri e varie “bombe sociali” si formano in diverse zone del mondo. Prima o
poi uno scoppio globale ci sarà. Non tra secoli, ma prima.
L’altro
motivo è la tenuta ambientale. Perché essa venga meno catastroficamente non
occorrono secoli, ma solo anni, a quel che quasi tutti gli scienziati
sostengono, dato che i sintomi ci sono già.
Insomma
sembra proprio che il Capitalismo sia come il famoso legnaiolo che sta segando
il ramo sul quale è seduto. Pare dunque arrivato il momento di dare
ragione al mio collega e voltare pagina.
Una
dimostrazione evidente l’abbiamo in Italia. A Taranto.
Una
sequenza di decisioni arrendevoli, di scelte sbagliate sino ai limiti della
stupidità, inanellate durante 25 anni hanno fatto sì che si esacerbassero le
due contraddizioni strutturalmente presenti sin dall’inizio in quella fabbrica,
al punto di non essere più risolvibili, né eliminabili: produzione/ambiente;
lavoro/salute.
Ora non
c’è soluzione. O si chiude o si continua a distruggere l’ambiente e
compromettere la salute. Quegli impianti possono solo produrre contemporaneamente
acciaio, inquinamento e tumori. Tant’è che per cercare di salvare capre e
cavoli, per provare cioè a modificare i forni almeno in parte senza spegnerli si
è ricorsi al famoso “scudo penale” per garantire a chi li gestisse che la
magistratura non li potesse perseguire. Il che ha significato dare atto che
gestendoli non si può non compiere un reato, perché la motivazione secondo la
quale lo scudo servisse a non far ricadere su innocenti i reati commessi in
precedenza da altri è di una eclatante assurdità. E’ noto a
chiunque abbia una pur minima nozione di Diritto che la responsabilità penale è
personale e solo pensare che qualcuno possa essere non dico condannato ma solo
inquisito per colpe commesse da altri è semplicemente un’aberrazione. Il
ricorso ad argomentazioni assurde ed aberranti mina la saldezza stessa dello
Stato di Diritto. Se è lo Stato a sospendere l’applicazione delle proprie norme
e a ricorrere ad artifici per evitarne l’applicazione pone in crisi esso stesso
il sistema di regole che rende tutti i suoi cittadini e le sue cittadine eguali
davanti alla Legge e nessuno al disopra di Essa. Rischia cioè di non essere più
uno Stato di Diritto.
Dunque
secondo la logica del sistema economico e nel rispetto delle sue
compatibilità, a Taranto una soluzione non si trova se non contraddicendo la
logica dello Stato di Diritto. La situazione è dunque dimostrazione
lampante su piccola scala che il sistema economico fondato sul Capitalismo è
ingovernabile nel rispetto del Diritto e della sostenibilità sociale ed
ambientale.
Ne è
prova che anche se si trovassero i fondi (per esempio ripetendoli dai Riva che
si sono arricchiti a prezzo di questo sconquasso) per garantire salari e
stipendi ai lavoratori di Taranto impiegandoli, con le dovute cautele e protezioni,
nella trasformazione della fabbrica con tecnologie non così disastrose e
nella bonifica dell’intera area cittadina, non si potrebbero
spegnere i forni se non a prezzo di costi economici e sociali altissimi. Non
sarebbero in ballo solo i posti di lavoro a Taranto ed in altri impianti
collegati, bensì anche il collasso dell’intero settore industriale utilizzatore
dell’acciaio dislocato su tutto il territorio nazionale, in particolare nel
Centro-Nord. L’ipotesi è pressoché impossibile.
Ed
allora? Pare che non ci sia scampo. E’ molto probabile perciò che ci si
adatterà ad operare il risanamento degli impianti – nei limiti in cui sarà
possibile realizzarlo – senza interrompere la produzione nelle
condizioni date, continuando quindi a produrre acciaio, inquinamento e 1500
tumori all’anni, sapendo che una consistente percentuale di essi avrà
inevitabilmente esiti letali. In tal caso uno scudo penale anche se un po’ meno
indecente giuridicamente del precedente, dovrà essere ripristinato.
Così
sull’altare dell’economia del Paese, moderno Moloch, andranno immolate alcune
migliaia di vite umane, senza parlare dell’ambiente. Con impianti ed imprese
saranno però salvaguardate anche le fonti di reddito di molte decine di
migliaia famiglie.
Non c’è
scampo.
Ma per
lo meno non lo si nasconda. Lo si dichiari apertamente, perché tutti e tutte se
ne prenda coscienza e la consapevolezza collettiva porti il coraggio e
l’inventiva necessari per girare davvero pagine e costruire un’economia che non
distrugga ambiente, vite e speranze, non crei diseguaglianze e povertà, ma
renda possibile una società di persone eguali e libere. Ci vorrà del tempo, ci
vorranno molti sacrifici e tantissimo impegno. Ma non è impossibile.
Nessun commento:
Posta un commento